La Commissione europea ha appena siglato l’accordo UE-Mercosur, che promette di diventare l’intesa di libero scambio più grande al mondo. Von der Leyen però potrebbe non aver fatto i conti con i suoi
«Ieri ha piovuto molto nel nostro Paese. Ma oggi, quando siamo usciti per salutare il commissario dell’Unione europea, il sole stava già sorgendo tra le nuvole». È con questo entusiasmo che il presidente uruguayano Luis Lacalle Pou ha annunciato, nel corso del vertice MERCOSUR del 6 dicembre, la sigla dell’accordo di scambio con l’UE finalizzato a Montevideo alla presenza di Ursula von der Leyen. Non dovrebbe essere questione di punti di vista quando si parla di intese commerciali, ma certamente può esserlo se, più che di economia, è di geopolitica che si parla.
Nell’occasione Pou (che a marzo 2025 sarà sostituito dal neo-eletto presidente uruguayano Yamandú Orsi) ha ceduto il testimone della Presidenza a turno all’omologo argentino Javier Milei. Il patron della Casa Rosada ha ribadito l’intenzione di “promuovere il commercio e, con esso, portare prosperità al nostro popolo” anche attraverso l’accordo appena siglato, un progetto, come ricorda il presidente brasiliano Lula, “in cui i nostri paesi hanno investito un enorme capitale politico e diplomatico per quasi tre decenni”. Si tratta, difatti, dell’accordo di libero scambio più grande al mondo.

Se un accordo di questa portata ha richiesto così tanto tempo è anche perché, di nuovo, i tempi economici e quelli politici non sempre coincidono, tanto che protagonisti in un primo momento entusiasti del progetto come Francia e Italia si sono poi dovuti ricredere. Andiamo con ordine e vediamo prima in che cosa consiste l’accordo di libero scambio Mercosur-UE e quali sono le sue conseguenze per i rispettivi attori.
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Accordo UE-Mercosur: in cosa consiste?
Il principale scopo dell’accordo è quello di favorire la compenetrazione dei due mercati (europeo e sudamericano), favorendo il libero scambio delle merci con l’abbattimento di dazi e tariffe e stimolando le aziende a promuovere attività imprenditoriali nei Paesi partner. In altre parole: 700 milioni di persone (di cui 450 milioni di cittadini europei e 295 di cittadini latinoamericani) avranno accesso ad un unico grande mercato di beni. L’intesa andrebbe quindi incontro tanto ai consumatori quanto alle imprese che esportano nel Continente, circa 60mila, che “potranno godere di una riduzione dei dazi e di nuove e generose opportunità economiche“: un’intesa che «vuole offrire buoni posti di lavoro, buone scelte, buoni prezzi».

Celebrando l’accordo come una conquista di tutti e promettendo un abbassamento generalizzato dei prezzi nel mercato europeo, Von der Leyen ha elogiato questo “accordo equilibrato e ambizioso” precisando che “le democrazie possono accordarsi, non è solo un’economia ma una necessità politica: crediamo che la cooperazione porti progresso e prosperità” (qui il documento originario dell’accordo, risalente al 1999. Una curiosità: per l’Italia compare la firma di Susanna Agnelli, sorella di Gianni, prima donna italiana ad accedere a una posizione di comando nella Farnesina, ministro degli Affari Esteri nel Governo Dini dal 95 al 96.)
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La stessa Von der Leyen ha poi anche ricordato che “gli accordi commerciali vanno oltre l’economia” e “riflettono i nostri valori comuni”. È per questo che l’accordo prevede anche dei vincoli ambientali che costringerebbero le imprese operanti in Sudamerica a fermare la deforestazione e proseguire il cammino verso gli accordi di Parigi. Un’arma preziosa per Bruxelles che in qualsiasi momento può sospendere l’intesa, per violazioni palesi degli accordi climatici “ma anche se una parte smette di agire in buona fede, cioè se mina l’accordo dall’interno”, come ha spiegato un funzionario europeo all’ANSA.
Critiche e timori: il fronte del NO
Se come dicevamo l’accordo ha richiesto un iter tanto lungo di negoziazione è anche per le non poche criticità che lo riguardano, e che nel 2019 avevano fatto saltare un primo tentativo di ratifica (gli accordi hanno subito un’accelerata nel 2016, in risposta al protezionismo impresso dalla prima presidenza Trump).

A preoccupare gli agricoltori e una non piccola fetta di politica è il differenziale di standard qualitativi, igienici e sanitari oggi evidente tra i prodotti agricoli europei e quelli extra-UE, in termini di produzione, controllo e regolamentazione, dai pesticidi impiegati in Sudamerica ma vietati in Europa ai controlli veterinari meno rigorosi. Il rischio è che l’accordo livelli al ribasso questi standard – nonostante la promessa di mantenere invariata la legislazione UE – e che il mercato finisca inevitabilmente per premiare i produttori disposti a rinunciare alla qualità, al rispetto dei diritti e alla tutela dell’ambiente in cambio di un prezzo minore. Bocciate anche le clausole climatiche: l’UE, investendo nelle imprese locali, finirebbe indirettamente per incrementare le coltivazioni intensive a discapito delle foreste e dell’ambiente.
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Non è da ieri, dopotutto, che gli agricoltori protestano contro questo accordo. I trattori avevano occupato il centro di Bruxelles già a febbraio, prima di tornare a far sentire la propria voce anche a novembre. La Fugea (Federazione unita degli allevatori e agricoltori) non ha risparmiato parole al veleno per la Commissione, rea di portare avanti una “idea folle” con “schizofrenica incoerenza“. La filiera europea punta il dito soprattutto contro le importazioni di carne bovina, pollame, zucchero e soia che sostituirebbero la produzione interna, in cambio di un aumento delle esportazioni industriali.
I dazi infatti verrebbero completamente eliminati per il 93% dei prodotti europei e per l’82% dei prodotti agricoli provenienti dal Mercosur, mentre specifiche categorie di beni alimentari gioverebbero di tutele ad hoc. Guardando gli attuali volumi della bilancia commerciale, i Paesi Mercosur beneficerebbero dell’esportazione di prodotti alimentari mentre l’UE dovrebbe trarre più vantaggio dalla cancellazione dei dazi sul 90% dei prodotti industriali europei. È anche per questo che l’accordo è stato spesso ribattezzato, non senza scherno, “auto contro mucche“.

Su questo i malumori non arrivano solo dall’Europa, ma sono stati sollevati anche dal brasiliano Lula che non vede di buon occhio “l’invasione” di auto elettriche europee nel mercato latinoamericano: i Paesi del Mercosur sono infatti tra i principali esportatori di materie prime e metalli fondamentali per la produzione di batterie e componenti elettrici (su tutti il litio, metà delle riserve mondiali di questo metallo sono detenute da Argentina, Cile e Bolivia insieme). Materie prime che ora questi Paesi non vorrebbero più solo esportare, ma sfruttare per sostenere una produzione interna. Su questo il braccio di ferro non è ancora vinto (Lula ha chiesto espressamente che venga eliminata la clausola che impedisce l’esportazione di bovini allevati in terreni provenienti da deforestazione).
La presidente della Commissione però sa bene che non tutto il Vecchio Continente è entusiasta dell’accordo, e pur avendolo voluto moltissimo non è abituata ai passi più lunghi della gamba. Così per tutelarsi Von der Leyen ha voluto includere una sorta di “polizza assicurativa” del valore di un miliardo, destinata agli agricoltori europei nel caso di “improbabili” ripercussioni sui mercati. In aggiunta, la BEI (Banca Europea degli Investimenti) ha preparato un piano di investimenti da 3 miliardi di euro destinati ai giovani europei che vogliono fare impresa in agricoltura. Misure che Von der Leyen ha rivendicato in risposta alle proteste dei trattori, che però non hanno messo a tacere le polemiche.
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Accordo di scambio UE-Mercosur: a chi piace, a chi no
Nonostante le divergenze ideologiche, i Paesi del Mercosur sono stati compatti nell’accogliere positivamente quest’apertura. L’Europa invece è (di nuovo) divisa. Al netto dell’entusiasmo della Commissione, che da questo accordo riscuote soprattutto prestigio internazionale, i Paesi membri sono però spaccati da interessi contrastanti. Paesi come la Spagna e la Germania si sono subito detti favorevoli e sperano in una ratifica rapida dell’accordo: i primi non farebbero che incrementare il traffico già preferenziale con le ex colonie, mentre Berlino spera di iniettare un po’ di ottimismo nel settore automotive, con i colossi BMW e Volkswagen che rischiano di non resistere all’onda d’urto della transizione ecologica. L’apertura di un nuovo mercato per l’elettrico è quindi vista positivamente da tutti gli Stati in prima fila nel settore.

Viceversa, le economie nazionali basate (anche) sulla produzione agricola, sull’allevamento e sulle eccellenze enogastronomiche sono sul piede di guerra. Così la Francia di Macron che si è gradualmente spostata su una posizione contraria anche spinta dalle accesissime proteste interne degli agricoltori. Tanto che a molti osservatori quello di Von der Leyen è sembrato quasi uno sgambetto: ratificare l’accordo in solitaria a Montevideo proprio nelle ore in cui il Governo francese cadeva, anche spinto dalla crisi del comparto agricolo e affini. La ministra francese dimissionaria con delega al Commercio estero, Sophie Primas, si è quindi affrettata a chiarire che l’accordo “impegna solo la Commissione, non gli Stati membri”. Come la Francia sono scettiche la Polonia, l’Austria, l’Olanda, il Belgio, la Grecia. L’Italia ha (per ora) risolto la sua posizione ambivalente accodandosi al carro dei contrari. Il ministro dei Trasporti Salvini si è subito dichiarato dalla parte degli agricoltori ma il ministro degli Esteri Tajani ha aperto all’accordo pur ammettendo la necessità di qualche modifica.
Tra le famiglie europee, il fronte contrario all’accordo di libero scambio vede in prima fila i Verdi, con il co-presidente Bas Eickhout che, accusando la Commissione di “dimenticare” il Parlamento europeo, avverte che “non sarà facile raggiungere la maggioranza del sostegno al Pe, questo inizio di una nuova storia potrebbe essere piuttosto breve”. Condanna anche da parte di The Left, che parlando di una “vergogna assoluta” alza gli scudi sui piccoli agricoltori che saranno inghiottiti dalle multinazionali, ma anche sugli standard sanitari e climatici: “continueremo a lottare finché sarà necessario per far cadere questo accordo assurdo”.
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Mentre gli entusiasti non possono ancora festeggiare, i critici hanno ancora qualche speranza di non veder mai entrare in vigore l’accordo. L’intesa infatti dovrà essere votata dal Consiglio europeo (non prima della metà del 2025) oltre che dal Parlamento, né è certo che l’accordo si possa estendere automaticamente agli Stati membri senza previa ratifica da parte dei Parlamenti nazionali. La palla passa alla propaganda dei Governi: chi sarà più convincente?
di: Marianna MANCINI
FOTO: ANSA/SHUTTERSTOCK
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