di Alessia Turchi

Intervista a Marco Cappato, da decenni portavoce delle istanze a favore del fine vita: “disobbedienza civile contro la paralisi della politica”

In Italia, il dibattito sul fine vita emerge spesso solo in seguito ad eventi clamorosi in grado di scuotere l’opinione pubblica e il sistema giuridico, come se la morte fosse un tema marginale e non una realtà che tutti, prima o poi, siamo costretti ad affrontare.

Nel 2008 l’intera nazione fu scossa dalla battaglia di Beppino Englaro per ottenere il diritto di interrompere l’alimentazione artificiale che teneva in vita sua figlia Eluana. Prima ancora era stato il caso eclatante di Piergiorgio Welby ad accendere i riflettori sul tema del fine vita in Italia e, un decennio dopo, quello di Fabio Antoniani, noto come DJ Fabo: il suo ultimo viaggio, condotto insieme a Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, ha portato alla storica sentenza della Corte Costituzionale nel 2019 con cui è stato sancito il diritto al suicidio assistito per i malati che dipendono da trattamenti di sostegno vitale, un passo avanti significativo pur lasciando aperte molte altre situazioni di sofferenza non ancora normate.

Questi tre casi rappresentano delle pietre miliari nel dibattito italiano sul fine vita. Mettono in evidenza non solo le sfide legislative, ma anche le profonde questioni morali e personali che ruotano intorno al diritto di scegliere come e quando morire. E l’importanza del ruolo dei tribunali, spesso chiamati a colmare il vuoto lasciato dal silenzio legislativo del Parlamento.

Ora, nel 2024, il dibattito sul fine vita continua. Mentre cinque proposte di legge sull’eutanasia e il suicidio assistito sono in attesa di essere discusse in Senato, la seduta inaugurale delle commissioni è stata rinviata, lasciando le riforme in sospeso. Nel mezzo di questa incertezza politica, Marco Cappato resta una delle figure più influenti in tema di fine vita.

Lei è uno dei protagonisti del dibattito italiano sul fine vita, anche grazie alla rilevanza mediatica delle sue azioni di disobbedienza civile. Basti pensare ai casi di DJ Fabo o al recente caso di Elena Altamira. Ad oggi, qual è lo stato dell’arte della proposta di legge sul fine vita in Italia?
«Vorrei prima spiegare cosa è possibile fare in Italia, al momento. È consentita l’interruzione di qualsiasi terapia, anche attraverso un testamento biologico, per il momento in cui non saremo più capaci di intendere e volere. Questa pratica è regolata da una legge (Legge 22 dicembre 2017, n. 219 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” n.d.r.), e basta depositare le proprie volontà presso il Comune. È inoltre possibile accedere al cosiddetto suicidio medicalmente assistito se si soddisfano tutte e quattro le condizioni previste. La prima condizione è la capacità di intendere e di volere, la seconda è essere affetti da una patologia irreversibile, la terza è che tale patologia causi sofferenze fisiche o psichiche insopportabili, e la quarta è che la persona sia mantenuta in vita tramite trattamenti di sostegno vitale. Se una persona soddisfa queste quattro condizioni, ha il diritto di essere aiutata dal Servizio Sanitario Nazionale ad auto-somministrarsi una sostanza letale. Tuttavia, questi diritti, pur esistenti, rimangono spesso inapplicati per mancanza di informazione, consapevolezza e, di fatto, per il boicottaggio da parte delle istituzioni e del Servizio Sanitario Nazionale».

Cosa è proibito, invece?
«È vietato l’accesso al suicidio assistito per le persone che non sono mantenute in vita da trattamenti di sostegno vitale, ma che comunque si trovano in condizioni terminali con sofferenze insopportabili. Un esempio sono i malati oncologici terminali, che non sono attaccati a macchine ma si trovano comunque in una situazione irreversibile ed insopportabile: attualmente la legge impedisce loro di accedere al suicidio assistito. Un’altra questione esclusa dalla normativa è quella delle persone che non sono in grado di autosomministrarsi il farmaco letale. In questi casi, è vietato al medico somministrare il farmaco anche su esplicita richiesta del paziente. Come Associazione Luca Coscioni, chiediamo che anche i pazienti terminali lucidi, con sofferenze insopportabili ma non dipendenti da trattamenti di sostegno vitale, possano accedere all’aiuto alla morte volontaria, e che tale aiuto possa essere fornito direttamente dal medico, senza la necessità dell’autosomministrazione».

Sembra che la questione cruciale ruoti attorno al concetto di “trattamento di sostegno vitale”. Quali sono le implicazioni della sua interpretazione nella pratica?
«Una recente sentenza della Corte Costituzionale in relazione alle nostre azioni di disobbedienza civile ha ampliato il concetto di “trattamento di sostegno vitale”. La Corte ha stabilito che anche l’assistenza fornita da un caregiver o da un familiare può essere considerata un trattamento di sostegno vitale, se l’interruzione di questa assistenza porterebbe alla morte del paziente. Sono stati fatti esempi espliciti, come ad esempio l’uso del catetere o lo svuotamento manuale delle feci. Questo significa che, pur in assenza di una legge specifica da parte del Parlamento, due sentenze della Corte Costituzionale hanno aperto la strada alla possibilità di accedere al suicidio assistito per un numero maggiore di malati. La seconda sentenza, in particolare, ha interpretato in maniera estensiva il concetto di trattamento sanitario, il che potrebbe includere un numero significativo di pazienti. Dato che le sentenze della Corte Costituzionale hanno valore di legge, possiamo affermare che, per queste persone, l’accesso al suicidio assistito è già legalmente possibile in Italia».

A livello politico invece?
«Per quanto riguarda lo stato legislativo attuale, il Parlamento non ha ancora discusso il tema in questa legislatura, e negli ultimi due anni non è stato affrontato. Le proposte di legge presentate finora sono, in gran parte, peggiorative rispetto alla situazione esistente. La politica è divisa tra chi è contrario e chi è indifferente, e al momento non sembra esserci una reale volontà politica di far avanzare la discussione. Vedremo cosa succederà nei prossimi mesi».

Come Associazione Luca Coscioni, state continuando con le disobbedienze civili? Immagino che lei sia ancora attivamente coinvolto in queste azioni.
«Sì, in questo momento abbiamo 6 casi aperti, su cui ci sono indagini o siamo in attesa di processo. Si tratta di 6 persone per le quali ci siamo autodenunciati, non solo io, ma anche altre 10 persone che hanno partecipato con me. In particolare, nelle ultime quattro situazioni non sono stato io ad accompagnare i pazienti, ma altri volontari che, al loro ritorno in Italia, si sono autodenunciati come ho fatto io in passato. Di fronte alla paralisi della politica e dei partiti, noi continuiamo a percorrere la strada della disobbedienza civile».

Nonostante l’indifferenza del Parlamento, diverse Regioni si stanno muovendo. Ad esempio, in Emilia Romagna, Bonaccini garantisce un iter con tempi e requisiti certi. È un segnale positivo?
«Le Regioni non hanno competenza nel decidere chi può accedere al suicidio assistito, quindi non possono modificare le quattro condizioni stabilite dalla Corte Costituzionale, né per ampliare né per restringere il campo di applicazione. Tuttavia, le Regioni sono responsabili della gestione dei servizi sanitari, e in questo ambito possono intervenire. Noi, come Associazione, abbiamo preparato una proposta di legge regionale tipo, che stiamo presentando in diverse Regioni, come l’Emilia Romagna e il Veneto. La proposta chiede alle Regioni di fissare scadenze e procedure certe, perché ci sono stati casi in cui una persona ha aspettato fino a due anni per ottenere una risposta dopo aver fatto richiesta di suicidio assistito. In Emilia Romagna, Stefano Bonaccini ha scelto di evitare il confronto politico su una legge vera e propria e ha invece approvato un provvedimento di Giunta, cioè un provvedimento amministrativo, che stabilisce queste procedure. È sicuramente un passo avanti, ma noi riteniamo che sarebbe meglio approvare una legge regionale, in modo che queste regole diventino vincolanti per l’amministrazione».

Recentemente, Pedro Almodóvar ha vinto il Leone d’Oro con The room next door, un film che affronta il tema dell’eutanasia. Nel suo discorso di ringraziamento, il regista ha sottolineato l’importanza di trattare questo argomento non solo dal punto di vista politico, ma anche umano, e la sua dichiarazione ha suscitato un dibattito internazionale. Secondo lei, è possibile separare la dimensione politica e quella umana?
«Purtroppo no, perché nel momento in cui le leggi dello Stato impediscono alle persone di scegliere liberamente, il problema politico e quello umano si intrecciano e non possono essere separati. Dobbiamo distinguere tra la realtà del problema, vissuta quotidianamente dalle persone, e l’atteggiamento della politica, dei leader di partito e delle Istituzioni. Il successo del film di Almodóvar è la conferma di ciò che accade da vent’anni: la società è pronta ad affrontare il tema del fine vita. Questo argomento è già parte del vissuto delle persone, come dimostrano i sondaggi che in Italia indicano una maggioranza schiacciante a favore della legalizzazione dell’eutanasia. Cultura e arte riflettono questa sensibilità da tempo, basti pensare a film come Mare Dentro o Le invasioni barbariche. Sono passati anni, ma questi temi sono rimasti rilevanti».

La società è pronta ma non lo è la classe politica?
«In Italia, sono passati vent’anni dal caso Welby e dal caso Englaro, e la società non solo è pronta, ma è anche indignata dal fatto che ci sia ancora questo blocco. Chi non è pronto è la classe dirigente, che ha paura di affrontare il tema, sia per timore di spaccarsi internamente che per non rovinare i rapporti con il Vaticano. Di conseguenza, sia il governo che l’opposizione evitano di parlarne. Mentre la politica gira la testa dall’altra parte, la società, vivendo queste realtà quotidianamente, non può fare lo stesso. E l’arte e la cultura riflettono questo: il problema è sul tavolo, è ben presente a tutti, anche se non viene affrontato direttamente».

Ha passato tanti anni a combattere per l’affermazione dei diritti civili, portando avanti anche disobbedienze civili in cui rischia diversi anni di carcere. Cosa la spinge a continuare a farlo?
«Innanzitutto, c’è una grande soddisfazione nel battersi per ciò in cui si crede. Quindi non lo vivo né come un sacrificio né tantomeno come una forma di martirio. Da una parte, sento il dovere di essere al servizio di chi chiede aiuto per essere libero, e dall’altra parte c’è tutta l’energia, la forza, e la vita che sento dentro di me nel portare avanti la mia battaglia per ciò di cui sono convinto. Non ho dubbi sul continuare a farlo. Se non ci fosse però il sostegno e la comprensione da parte dell’opinione pubblica su un tema come questo, sarebbe una missione impossibile. Limitarsi a guardare i rapporti di forza nella politica renderebbe l’obiettivo irraggiungibile. Ma abbiamo già ottenuto molto. All’inizio, ai tempi del caso Welby, molte delle cose che oggi sono possibili non lo erano affatto. Abbiamo conquistato molti spazi di libertà, e non sarebbe stato possibile farlo, né sperare di ottenerne altri, senza il consenso e il sostegno ampio da parte delle persone».

Possibilità di rivederla in Parlamento?
«Adesso il Parlamento non basta, ci sono già stato da ragazzo. Se dovessi tornare, preferirei andare al Governo. Altrimenti, meglio dare retta alla mia bimba, che mi diverte di più!».

Richieste di informazioni, i dati

Negli ultimi 12 mesi il Numero Bianco sui diritti del fine vita (06 99313409) coordinato da Valeria Imbrogno, compagna di DJ Fabo, e l’Associazione Luca Coscioni tramite mail dirette hanno ricevuto 13.977 richieste di informazioni sul fine vita, una media di 38 richieste al giorno (+28% rispetto ai 12 mesi precedenti). In particolare, in 2.470 casi venivano richieste informazioni su eutanasia e suicidio medicalmente assistito e in 782 informazioni rispetto all’interruzione delle terapie e alla sedazione palliativa profonda. 533 persone, inoltre, hanno ricevuto informazioni in merito alle procedure italiane o contatti con le strutture svizzere per il percorso di morte volontaria medicalmente assistita.

“Aiuto medico alla morte volontaria”, il report

Sono 6 le persone che hanno ottenuto l’accesso alla morte volontaria assistita in Italia, di cui cinque seguite dal collegio legale dell’Associazione Luca Coscioni. Una persona, invece, è attualmente in contenzioso con la Regione Umbria che ha rifiutato l’accesso. Nell’ultimo anno tre persone hanno avuto accesso alla morte volontaria assistita in Svizzera non in clandestinità, con successiva autodenuncia delle persone che li hanno accompagnati. Si sono autodenunciati, inoltre, 13 tra i 37 attivisti iscritti al soccorso civile. Al momento sono in corso 6 procedimenti giudiziari.

Tutte le foto sono per gentile concessione