peste suina africana psa

L’emergenza della PSA in Italia è soprattutto socio-economica, ma sbaglia chi ne sottovaluta gli aspetti ambientali. La versione dell’OIPA e di Federcaccia sulla Peste Suina Africana

Il tasso di mortalità arriva fino al 100%, non esistono cure, non esistono vaccini, la contagiosità è perniciosamente aggressiva. La Peste Suina Africana (PSA) è ormai una realtà quotidiana e, anche se non tutti sono d’accordo nel definirla un’emergenza, numeri alla mano i rischi connessi a questo virus preoccupano in molti. Anche se, è sempre un dovere ribadirlo immediatamente, non ci sono rischi per la nostra salute: l’uomo infatti non può essere infettato da questo virus, a differenza dell’influenza suina. Come precisano le FAQ del Ministero della Salute, però, l’uomo “può essere veicolo di trasmissione del virus attraverso la contaminazione di veicoli, indumenti, attrezzature, cibo di origine o contenente carne suina, anche stagionata”. Di qui, il dilemma non solo strumentale ma anche sociale ed etico: Infine, che ruolo ha la caccia nella lotta al contagio? Abbiamo rivolto queste domande all’OIPA, Organizzazione Internazionale per la Protezione degli Animali e a Federcaccia, che ci hanno raccontato le due facce della medaglia.

Cominciamo inquadrando la situazione della Peste Suina Africana in Italia e cerchiamo di capire cosa è stato fatto finora, a partire dall’individuazione dell’attuale genotipo II nell’Italia continentale, nel 2022. Qui è disponibile la mappa aggiornata della Commissione Europea che monitora in tempo reale la diffusione del virus della PSA mentre qui il bollettino epidemiologico sulla PSA ufficializza, al 3 ottobre 2024, 2463 cinghiali positivi e 45 focolai nei suini.

Cinghiali nel letto del torrente Bisagno, Genova, febbraio 2022 (ANSA/LUCA ZENNARO)

PSA e diffusione in Italia

Questo virus della famiglia Asfaviridae è stato scoperto per la prima volta in Kenya nel 1921. In Sardegna il genotipo I arriva addirittura nel 1978: ci vorranno 46 anni prima di dichiarare la malattia debellata nell’isola, dichiarata ufficialmente indenne dalla Peste Suina Africana dalla Commissione Europea questo settembre. Il genotipo II, attualmente in circolazione, è stato invece individuato in Europa orientale nel 2014 e in Italia nel 2022 a Ovada, nell’alessandrino. Dai boschi, il virus si è rapidamente diffuso negli allevamenti e oggi i focolai attivi interessano il cuore produttivo della filiera di allevamenti di suidi. Solo in Lombardia (la Regione fornisce la metà della produzione totale nazionale da allevamenti intensivi di suini) ci sono oltre 300 allevamenti nelle zone di restrizione istituite dal Regolamento Europeo 2023/594, che ha mappato il territorio in base ai rischi di contagio.

Potrebbe interessarti leggere anche Più “verde”, più “giusta”, più contestata

Le zone soggette a restrizioni si classificano in tre fasce in base all’urgenza veterinaria in aree ad alto rischio ma senza casi riscontrati né focolai confinanti (livello I), aree con presenza di PSA solamente nei cinghiali (livello II) e aree dove il virus si presenta anche nei suini domestici (livello III). Oggi sono interessate dalla Peste Suina Africana, con varia distribuzione geografica, quattro aree geografiche: PL (Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia Romagna e Toscana), LA (Lazio), CL (Calabria) e CA (Campania e Basilicata).

L’allarme di Coldiretti: “molte aziende sull’orlo del collasso”

È in questo contesto che si è inserito l’ultimo appello di Coldiretti che a inizio settembre, con una missiva indirizzata al ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste Francesco Lollobrigida, e al ministro della Sanità Orazio Schillaci, ha lanciato l’ennesimo grido di allarme (qui il contenuto della lettera). Le conseguenze socio-economiche di questo virus sulle imprese del settore agricolo (e, a cascata, tutti gli altri) preoccupano non poco l’associazione di rappresentanza, che rivendica “la certezza degli indennizzi per i danni subiti, magari anche attraverso dei fondi emergenziali, coprendo non solo le perdite dovute agli abbattimenti, ma anche i mancati guadagni legati al fermo aziendale forzato“.

La manifestazione ”Peste suina #bastacinghiali” organizzata della Coldiretti in piazza SS Apostoli, Roma, 27 maggio 2022 (ANSA/MASSIMO PERCOSSI)

Questa crisi, “che perdura da circa mille giorni, sta portando molte aziende sull’orlo del collasso, con casi emblematici come quello di un allevatore costretto ad abbattere 12mila capi in un solo giorno, lasciando la propria famiglia in una condizione di totale incertezza“, avverte Coldiretti. Lo hanno ribadito oltre 500 imprenditori lo scorso 2 ottobre in occasione del secondo incontro con il commissario straordinario per la PSA Giovanni Filippini, esprimendo preoccupazione per le sorti di un settore che, stima Coldiretti, vale oltre 20 miliardi e coinvolge 100mila posti di lavoro e 10 milioni di animali allevati.

Lotta alla Peste Suina Africana: cosa dice la legge?

Dal canto suo Filippini, subentrato al dimissionario Vincenzo Caputo e già Direttore generale della Salute Animale, parla di una “situazione complessa” ma non drammatica e di una “sfida che si può vincere“. La strategia si compone di quattro pilastri. Riguardo l’attività umana si rileva che “oggi, stando alle indagini epidemiologiche, il ruolo dell’uomo è più importante rispetto a quello dell’animale” in quanto a trasmissione del virus. La soluzione dunque passa attraverso una rigorosa e severissima applicazione delle misure di biosicurezza “elencate in un decreto emanato nel 2022, che hanno a che fare con la netta separazione fra ambiente interno e ambiente esterno“. Parliamo quindi di norme di igiene, pratiche sanitarie e precauzioni individuali in capo ad allevatori, cacciatori e chiunque presidi i boschi e le zone infette.

Potrebbe interessarti anche La bestia nell’uomo, il pianto negli animali

Quanto ai suidi invece, l’ultima ordinanza commissariale di Filippini (n. 2/2024) sostiene il “depopolamento dei cinghiali selvatici ai fini dell’eradicazione della malattia“, dato che “ovviamente, più cinghiali ci sono più occasioni ha il virus di replicarsi e fare danni” come aveva spiegato in precedenza annunciando una «una nuova politica nei confronti del cinghiale per ricreare un corretto equilibrio tra gli animali e i territori della caccia». Il tema del controllo demografico della popolazione di cinghiali si interseca con quello della PSA, raccogliendo l’adesione (e la gratitudini) di migliaia di cacciatori che, rispondendo all’appello pubblico, contribuiscono allo scopo.

Le altre indicazioni commissariali riguardano la costruzione o il “rafforzamento delle barriere stradali e autostradali” nelle zone soggette a restrizioni e la sorveglianza epidemiologica.

La legge Lollobrigida e il ruolo della caccia

Alle prescrizioni commissariali si affianca la normativa nazionale, rinnovata con la legge 12 luglio 2024 n. 101, anche nota come “legge Lollobrigida” (qui il testo completo). La norma, in sostanza, consente una serie di pratiche venatorie “al fine di contenere la diffusione della peste suina africana“, fra cui: la possibilità, fino al 31 dicembre 2028, di “caccia di selezione dei suidi fino a mezzanotte, anche con l’ausilio dei metodi selettivi […]” quali “dispositivi di puntamento, anche digitale, per la visione notturna“, nonché il “ricorso al foraggiamento attrattivo“. 

Il ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, Francesco Lollobrigida, al “Caccia village” di Bastia Umbra (Perugia), 13 maggio 2023 (ANSA/Gianluigi Basilietti)

È impossibile, lo sappiamo, parlare di caccia senza riaccendere il rogo delle polemiche, in questo caso di merito più che di principio. Al netto dell’attribuzione di un ruolo strumentale centrale all’attività venatoria, non sono infatti poche le voci di chi ritiene la caccia non una soluzione, bensì parte del problema. Abbiamo ascoltato e raccolto le ragioni dell’avvocato Claudia Taccani, portavoce del presidente e responsabile dell’Ufficio legale OIPA, e di Massimo Buconi, presidente di Federcaccia.

Avvocato Claudia Taccani

Fotografiamo la situazione. Siamo in presenza di un’emergenza?

C.T.: «Il picco di PSA in Italia c’è stato nel 2023, nel 2024 i dati sono scesi ma l’attenzione deve rimanere altissima su questa malattia che, purtroppo lo si racconta troppo poco, è ferocissima nel suo aggredire i suidi – ci spiega Taccani. – Anche se nel dibattito ricevono un’attenzione spesso marginale rispetto ai danni economici provocati dalla PSA, effettivamente preoccupanti, sono gli animali le vere vittime di questa epidemia, non dobbiamo dimenticarcelo». E in effetti la malattia non ha pietà per l’animale, infestato da sintomi come lesioni a orecchie e fianchi, emorragie interne, febbre, debolezza, aborti spontanei.

M.B.: «Coldiretti e le associazioni di categoria fanno bene a far sentire la propria voce, perché gli operatori agricoli vivono nell’assoluta incertezza: dove la Peste Suina Africana ha colpito c’è dramma, dove non ha colpito c’è il terrore che arrivi – ci risponde Buconi. – Le autorità commissariali e sanitarie, però, ci ricordano ogni giorno che gli strumenti ci sono e che l’intera rete è impegnata sul territorio per ripristinare la sicurezza».

Leggi anche l’intervista al presidente di Confagricoltura in Agricoltura, il Made in Italy verso il podio in Europa

Che ruolo ha la caccia nella lotta al contagio di Peste Suina Africana?

C.T.: «La posizione di OIPA, che ricalca quella delle principali autorità sanitarie, è che bisogna stare molto attenti all’attività venatoria poiché l’uomo costituisce il primo vettore del virus mediante indumenti, veicoli e attrezzature. Ma non solo. Secondo diversi tecnici ed esperti di riferimento per la nostra Organizzazione, la caccia innescherebbe una movimentazione incontrollata dei cinghiali. Lo sostiene, fra gli altri, Andrea Mazzatenta, docente di Medicina Veterinaria all’Università di Teramo, ma vanno in questa direzione anche ricerche e studi esteri». Secondo Mazzatenta l’irruzione dei cacciatori nelle aree abitate dai cinghiali, animali tipicamente stanziali, li spingerebbero a fuggire propagando il virus. «Il docente ci spiega che è anche una questione di ormoni: la caccia indiscriminata finisce per prendere di mira le matrone dei cinghiali che, in quanto custodi dei cuccioli, sono anche le più esposte nella ricerca del cibo, ma anche le uniche a partorire. Quando però una matrona muore e fa venire meno i suoi ferormoni, l’estro del resto della popolazione femminile si riattiva spingendole a riprodursi e moltiplicarsi più di quanto non avrebbe fatto».

M.B.: «Si sostiene che quando il prelievo non è corretto si stimola il cinghiale a essere più riproduttivo. A questa critica rispondo con la scienza: una femmina di cinghiale per entrare in età fertile deve avere un anno e mezzo di vita circa, 30 chili di peso e sufficienti disponibilità alimentari. Se ricorrono questi casi è certo che si riproduce con successo, e ci lasciano un po’ perplessi altre ricostruzioni poco rigorose. Ma soprattutto, tutto questo non è oggetto di trattazione nelle ordinanze stilate con l’ausilio di tecnici ed esperti del Ministero. Se è vero che la popolazione deve quindi essere gestita con criteri tecnico-scientifici più efficaci, è anche vero che questo può funzionare solo in una situazione di normalità, non nel bel mezzo dell’emergenza come ora. Come pensiamo di poter abbattere 600mila esemplari l’anno? Oltre alla PSA, il piano per la gestione della fauna selvatica prevede che le Regioni debbano organizzarsi in modo da prelevare dal territorio almeno 600mila esemplari di cinghiali. A chi protesta perché l’animale viene ucciso, anziché spostato, noi chiediamo: dove? I cacciatori impiegati in questi controllo rispondono a un’esigenza di carattere pubblico, a tutela della nostra agricoltura e della salute di tutti. E il tempismo è tutto: bisogna intervenire nel momento riproduttivo e abbiamo bisogno di azioni numericamente efficaci in un lasso breve di tempo».

immagine concessa dall’U.S. Federcaccia

Le autorità politiche e sanitarie però, uno su tutti l’EUVET (EU Veterinary Emergency Team), la squadra di tecnici della Commissione europea che assiste gli Stati membri in emergenze come queste, hanno ribadito più volte che i cacciatori svolgono un importante ruolo di presidio e sorveglianza sul territorio, precisando che “la caccia non è la soluzione, ma uno strumento”.

M.B.: «Anche prima della PSA, l’unica vigilanza operata sui cinghiali era quella dei cacciatori presenti sul territorio, che prelevano 350mila cinghiali circa l’anno. Anche il controllo sanitario non ci è nuovo: da almeno 20 anni, per esempio, ogni cinghiale abbattuto regolarmente deve per legge essere identificato con un numero di autorizzazione all’abbattimento e portato dal dal veterinario della ASL di riferimento per il controllo della trichinella. Ricordiamo inoltre che l’attività di controllo della fauna selvatica non è caccia, anche se viene svolta con i medesimi strumenti, come precisa anche la legge Lollobrigida. Naturalmente tutto questo richiede un’abilitazione apposita oltre, naturalmente, alla licenza per il possesso dell’arma. È così che la stragrande maggioranza di queste attività di controllo vengono concretamente effettuate dai cacciatori che hanno la formazione, gli strumenti e, perché no, anche la passione per farlo».

Esistono anche soluzioni non violente per il controllo della popolazione dei cinghiali che la PSA ha reso ancora più urgente?

C.T.: «Dovremmo innanzitutto istituire delle riserve nelle quali contenere gli animali in modo che non possano girovagare, ma senza abbatterli per mantenere il loro equilibrio di gruppo. Esistono inoltre soluzioni. L’OIPA guarda con grandissimo interesse anche all’uso del GonaCon, un farmaco anticoncezionale già impiegato negli USA per il controllo demografico dei cavalli allo stato brado ed efficace anche per i cinghiali. Con questo vaccino e l’adozione di tecniche raffinate per la sua distribuzione, l’animale può essere reso non fertile anche per cinque anni. Questo tentativo non cruento era stata finanziato nella legislatura scorsa ma ad oggi non ce n’è più traccia

La nostra associazione si batte ogni giorno per ripristinare metodi di contenimento non violenti. Due anni fa abbiamo vinto una dura battaglia impedendo l’abbattimento di tutti i componenti della Sfattoria degli Ultimi, un’associazione laziale che salva i suidi dal macello o da situazioni di pericolo/maltrattamento. L’abbattimento di questi animali era stato ordinato in quanto presenti in una zona adiacente ad una zona rossa, dove comunque la malattia non era ancora presente. Abbiamo lottato nei tribunali e abbiamo dimostrato che spesso la legge è dalla nostra parte». 

M.B.: «L’impiego del GonaCon? Evidentemente le autorità preposte non lo hanno giudicato uno strumento abbastanza efficace, altrimenti sarebbe applicato. A noi risulta che gli strumenti contraccettivi abbiano effetti collaterali su tanta altra popolazione selvatica. Così, l’allora ministro Costa (Sergio Costa è stato ministro dell’ambiente e della tutela del territorio nei Governi Conte I e II, ndr) propose di fare delle punture ai cinghiali. Ora le chiedo: ma lei come pensa di poter fare una puntura a un cinghiale? Traduca questo su una popolazione di un milione e mezzo di esemplari che ogni anno si riproduce e si moltiplica. È una questione di costo-beneficio, più che etica, e ce lo insegna la scienza: nella gestione della fauna selvatica, non si deve considerare il benessere del singolo individuo di una specie, ma il benessere della specie. Se uccidiamo un esemplare malato, dunque contagioso, non facciamo il suo benessere, lo sappiamo, ma perseguiamo quello della sua intera specie.

Lo strumento della caccia, invece, non ha praticamente costi per la collettività, può essere praticato da chiunque abbia l’abilitazione e produce alti risultati in un lasso di tempo breve. Con quali altri strumenti potremmo garantire questa efficacia in così poco tempo?».

Presidio degli animalisti contro un abbattimento generalizzato che coinvolga anche animali sani in un allevamento della provincia di Pavia (ANSA/FACEBOOK/Associazione Progetto Cuori Liberi)

E la trasmissione del virus tramite vettore umano?

C.T.: «È vero che esistono dei protocolli con norme igienico-sanitarie rigorose, ma chi ci assicura il loro rispetto? Esistono dei controlli severi sulla violazione di questi comportamenti? Le misure di biosicurezza vengono spesso disattese, per superficialità, per l’esigenza di rendere tutto rapido, per la mancata formazione degli operatori e tanti altri fattori. Per questo noi chiediamo più controlli e soprattutto più investimenti su altri strumenti di controllo e prevenzione, anche se al momento la politica va in un’altra direzione. Basta pensare al cosiddetto emendamento “Far West” nella scorsa legge di Bilancio che ha eliminato il disposto della l. 157 del ‘92 che dava priorità ai metodi non cruenti e derubricava l’abbattimento come via residuale. Siamo in un contesto storico in cui non c’è la volontà di trovare risorse e metodi alternativi. L’uomo ha sempre preferito le soluzioni più semplici e rapide, anche se queste poi nel lungo termine non si rivelano contenitive».

M.B.: «Quello del controllo sul rispetto delle norme è un problema tipicamente italiano, ma da parte nostra non c’è nessuna richiesta di non essere controllati: non si può imputare ai cacciatori la mancata o scarsa vigilanza sulle prescrizioni di biosicurezza. Molto è lasciato alla responsabilità individuale, ma nessuno è incosciente. Non abbiamo mai avuto segnalazioni da nessuna ASL sul mancato rispetto delle regole da parte dei cacciatori: insomma è un po’ come indicare la luna e guardare il dito. Ci sono molte aspettative nei confronti dell’attività venatoria, a cui collettivamente si chiede un grande contributo, e i primi risultati si vedono. Parliamo ad esempio della Sardegna, dichiarata ufficialmente indenne alla PSA, ma anche del Savonese, dove ora si stanno allentando le restrizioni. A questo scopo hanno contribuito anche i cacciatori, in particolare nel monitoraggio sistematico della specie. I cacciatori devono: indossare calzari e guanti protettivi che poi vanno distrutti, portare con sé un contenitore che non perda liquidi in cui contenere l’esemplare, trasportarlo fuori dall’area e portarlo a fare i controlli, dunque disinfettare il veicolo con cui si è viaggiato, pulire tutta l’attrezzatura, e così via. Noi ci mettiamo tutta la serietà del mondo, ma queste azioni di supporto e di servizio (e i loro costi) non dovrebbero essere poste unicamente in capo ai cacciatori».

Cinghiali nel letto del torrente Bisagno, Genova, febbraio 2022 (ANSA/LUCA ZENNARO)

È così che le due posizioni si confermano inconciliabili, nei principi e nei modi, anche se forse non negli intenti. «Le parti in causa devono smettere di disconoscere la possibilità di esistenza dell’altro – riconosce anche Buconi, che provoca: – in un mondo di cacciatori, ci saranno sempre gli animalisti e gli ambientalisti. Non so se in un mondo di animalisti ci potranno essere i cacciatori». L’importante, e in entrambi i casi, è che ci sia sempre il posto per gli animali.

di: Marianna MANCINI

FOTO: ANSA/ US/ LAV