Hikikomori, il nome del “nuovo” dramma che affligge i ragazzi. Unico habitat, camera loro, il mondo fuori e i genitori senza strumenti

«Sono rimasta chiusa nella mia stanza per ben due anni. Avevo 14 anni all’epoca. Passavo la maggior parte del tempo a giocare con i videogiochi o a leggere i miei soliti fumetti. Mi lavavo raramente e mangiavo molto poco, giusto quello che riuscivo a trovare nella dispensa. Dormivo di giorno e stavo sveglia di notte. Solo così riuscivo a sentirmi rilassata e tranquilla. A pensarci adesso sembra passata un’eternità. Tutto è iniziato un’estate al mare. I miei hanno una casa ad Ostia e lì trascorrevo ogni anno le mie vacanze. Solo che quella volta fu diverso. Ho iniziato a non sentirmi a mio agio in mezzo al solito gruppo di amiche: chi aveva il fidanzato, chi si truccava e vestiva da adulta. Io invece ero sempre la stessa…i ragazzi non mi interessavano ancora ed il rossetto non mi piaceva. Portavo i soliti sandali mentre le mie amiche avevano cominciato ad indossare i tacchi. Me ne accorsi la prima sera che arrivai. Eravamo davanti ad una gelateria e sembravano tutte molto più grandi, a stento le riconobbi. Cominciarono a guardarmi prima dall’alto in basso, poi ad evitarmi, finché mi ritrovai a stare sempre da sola o con i miei genitori. Quando iniziò l’anno scolastico apparentemente sembrava tutto normale, ma in realtà qualcosa era cambiato in me. Mi sentivo sempre osservata, derisa da tutti e contavo i minuti per tornare a casa. Cominciai a saltare le lezioni. Mi inventavo mal di testa, mal di pancia. I miei genitori erano preoccupati, mi portarono anche da un medico che non riscontrò nulla. Disse che probabilmente si trattava solo di un po’ di stress ma io non stavo bene e non sapevo come spiegarlo. Alla fine, mi rifiutai di tornare a scuola. I miei non sapevano cosa fare e alla fine chiamarono uno psicologo, Alessandro, che venne addirittura a casa. Mi parlava dall’altro lato della porta perché io non volevo farlo entrare nella mia stanza. Mi chiedeva dei miei giochi, dei fumetti che leggevo. Sembrava davvero interessato a me. Pian piano cominciai a parlarci, a fidarmi finché con pazienza ed amore riuscì ad allontanare da me la paura degli altri. È grazie a lui se ho riacquistato sicurezza e sono tornata a scuola. Oggi ho una vita normale: studio psicologia perché anche io, un giorno, voglio aiutare qualcuno così come Alessandro ha fatto con me».

La storia di Luisa è simile a quella di tanti, troppi ragazzi, che vivono confinati nelle loro stanze con il computer o il cellulare come unica loro finestra sul mondo. Sono gli “hikikomori”, un termine giapponese diventato tristemente familiare anche in Italia. Letteralmente significa “stare in disparte” e viene utilizzato per riferirsi a coloro che si isolano dal mondo sociale per mesi o anni, tagliando ogni contatto diretto con l’esterno. Hanno pauradel confronto, si sentono inadeguati, hanno paura di fallire. Vedono il mondo che scorre come un fiumein piena e non vogliono far parte di questo fiume. Stanno svegli di notte perché di notte il mondo si ferma. E soltanto in quel momento tornano a vivere…

Per comprendere fino in fondo il fenomeno abbiamo intervistato Marco Crepaldi, specializzato in psicologia sociale e comunicazione digitale, fondatore nel 2017 dell’associazione nazionale Hikikomori Italia di cui è tuttora presidente.

-Partiamo dalle cause: cosa spinge i ragazzi ad isolarsi dal mondo?

«Sostanzialmente l’ansia di essere giudicati e la sensazione di essere diversi, in qualche modo inadeguati o speciali. Questo è legato al problema del confronto con gli altri, la paura di non essere all’altezza delle aspettative proprie ed altrui. È proprio per scappare da queste morse opprimenti che gli hikikomori decidono di isolarsi. Nell’intimità della propria stanza possono rimanere al riparo dagli occhi altrui, abbassando un po’ queste pressioni legate alla competizione sociale».

-Esistono dei campanelli che possono mettere in allarme i genitori? E come comportarsi se ci si accorge che qualcosa non va?

«C’è da dire che i primi campanelli d’allarme non sono facili da identificare. Serve una profonda comunicazione tra figlio e genitori che spesso invece manca, soprattutto quando il ragazzo si trova nella fase adolescenziale. Di solito i genitori si attivano quando vedono che il figlio abbandona la scuola, magari da un giorno all’altro. Molto spesso gli adulti entrano in panico in questi casi e l’errore più comune che fanno è forzare il ragazzo a tornare in classe subito, cosa che magari non riesce a fare, invece di cercare altre strade come un piano didattico personalizzato che lo aiuti a tenersi in linea con il programma senza per forza andare in aula. Questo può essere un buon modo per aiutarlo a non cadere nell’isolamento cronico. In generale il genitore deve mostrarsi comprensivo, non deve sottovalutare il fatto che ci sia un problema profondo e non un capriccio, non legato alla non voglia del figlio di studiare ma alla sua grande ansia sociale».

Secondo Crepaldi è possibile fare un identikit di chi soffre di questo disturbo: principalmente si tratta di maschi nel 70-80% dei casi, tra i 14 ed i 30 anni, anche se il numero delle ragazze isolate potrebbe essere sottostimato dai sondaggi effettuati finora. Provengono per lo più da famiglie benestanti, altamente scolarizzate, dove quindi i genitori hanno avuto successo negli studi e nel lavoro, il che mette sicuramente molto pressione ai figli.  I ragazzi che provengono da queste famiglie possono permettersi di non lavorare, sono molto intelligenti dal punto di vista cognitivo però sono anche molto inadeguati dal punto di vista sociale. Spesso sono timidi, introversi, con una sensibilità spiccata soprattutto di fronte alle ingiustizie e quindi tendono a vedere la società in modo negativo rispetto ai loro valori. Anche questo, sottolinea Crepaldi, contribuisce all’isolamento: non vogliono mischiarsi con persone che loro non ritengono valide.

In Giappone il fenomeno degli hikikomori è particolarmente radicato. Sono stati fatti dei sondaggi governativi che hanno identificato più di un milione di casi. Però ormai anche in Italia e nel mondo c’è ampia letteratura sul fatto che esistano delle forme di isolamento sovrapponibili. D’altronde ogni Paese economicamente sviluppato ospita degli hikikomori: dove c’è progresso, c’è aspettativa e dunque anche pressione sociale. Non esistono studi ufficiali in Italia perché il fenomeno non è stato ancora riconosciuto, almeno non con il nome di hikikomori, ma si può ipotizzare che da noi siano almeno 100.000 i casi con diversi gradi di isolamento. Un dato che non è frutto di alcuna indagine statista, ma delle decine di richieste di aiuto che arrivano ogni giorno ad Hikikomori Italia.

-La sua associazione è la prima ad affrontare questa problematica. Come le è venuta l’idea ed in che modo aiutate concretamente chi ne soffre? Che risultati avete raggiunto al momento?

«La mia associazione non è la prima in assoluto ad occuparsi di questo fenomeno, ce ne sono altre, ma è l’unica a livello nazionale e la più numerosa. Contiamo più di tremila genitori nei nostri gruppi tra online e offline, più di 50 psicologi convenzionati e diverse collaborazioni istituzionali, anche con il Miur. Non avevo idea che avrei fondato un’associazione. Conobbi il fenomeno per caso guardando un cartone animato giapponese chiamato Welcome to the NHK. Era il 2012 e stavo frequentando il terzo anno di psicologia. Ne fui talmente colpito che decisi di dedicarvi la mia tesi di laurea. Successivamente decisi di aprire il blog hikikomoriitalia.it per colmare il gap informativo che ritenevo ci fosse all’epoca e che perdura tutt’oggi. Da questo blog è nata tutta la community, tra cui anche quella dei genitori. Prima è nata l’associazione genitori e poi Hikikomori Italia. Finora abbiamo raggiunto risultati davvero importanti, come firmare un protocollo con l’ufficio scolastico regionale, con i servizi sociali e con la formazione professionale in Piemonte: un protocollo che sancisce l’esistenza di questo problema e dà delle linee guida alle scuole, al mondo del lavoro, ai genitori stessi. L’obiettivo è estendere a livello nazionale il protocollo e per questo abbiamo avviato un tavolo di confronto con il Miur. A livello operativo abbiamo aiutato tanti ragazzi, tante famiglie attraverso colloqui psicologici gratuiti. Grazie al cinque per mille possiamo stanziare ogni anno dei fondi, diverse migliaia di euro, con cui paghiamo i professionisti che seguono gratuitamente questi ragazzi online, attraverso videochiamate singole o in gruppo. Il nostro servizio più importante riguarda però il supporto ai genitori: 8 richieste su 10 arrivano proprio da loro, perché spesso il ragazzo non riconosce di avere un problema, non vuole essere aiutato o ha perso la speranza. Organizziamo gruppi di aiuto offline ed online, in tutta Italia, con l’obiettivo di intervenire indirettamente sul genitore, soprattutto quando il figlio non vuole collaborare, per ricostruire quell’alleanza tra loro che permette al ragazzo di ritrovare fiducia in sé e negli altri. Diffondiamo quelle che noi definiamo le buone prassi, una serie di comportamenti psico-educazionali che servono ad aiutare il genitore a rapportarsi in maniere corretta e più positiva con il figlio isolato».

-C’è una storia ad oggi che l’ha colpita più di tutte?

«In questi 8 anni in cui mi sono occupato del fenomeno ci sono tante storie che mi hanno colpito. Forse quella più assurda riguarda un ragazzo che, isolato da diversi anni, una volta si è accorto per caso che il padre non era più in casa. Era andato a vivere in un appartamento lì vicino, stanco della condizione del figlio e bisognoso di una maggiore leggerezza. I genitori erano separati ed il ragazzo era figlio unico. D’improvviso si è ritrovato a vivere da solo, a razionare le scorte di cibo, perché non usciva mai. Quando le ha finite non sapeva più come fare e non aveva soldi. Fortunatamente la zia aveva dato il suo curriculum ad un cinema lì vicino che lo ha chiamato per offrirgli un lavoro. È stata l’occasione per uscire di nuovo di casa e riprendersi in mano la sua vita. Questa storia fa capire quanto i ragazzi abbiano bisogno di essere responsabilizzati al massimo per dare un senso alla propria esistenza e potersi riscattare. Molto spesso è il rapporto con la famiglia a portarli all’auto-isolamento: una volta che loro riescono ad emanciparsi, i loro problemi vanno via via a migliorare».

-In generale cosa possono fare la società, la scuola, le istituzioni per “risolvere” questa piaga?

«La cosa più importante da fare è parlarne perché più uno sta isolato più è difficile che riesca ad uscire da questa condizione. Quindi bisogna portare le persone a non sottovalutare nemmeno i primi segnali del problema che, se individuati, possono consentire di combatterlo alla radice prima che la situazione si radichi troppo. In questi mesi di pandemia e di lockdown il fenomeno degli hikikomori è diventato più normale ma non è affatto così. I ragazzi che ne soffrono hanno un disturbo adattivo molto forte, una difficoltà a relazionarsi in modo sereno con gli altri e questo va affrontato informando e sensibilizzando l’opinione pubblica. Bisogna convincere il ragazzo ad affrontare un percorso psicologico ed i genitori devono mettersi in discussione, capendo che anche alcuni loro comportamenti possono genere questo disturbo. Bisogna lavorare quindi a livello sistemico, con tutta la famiglia ma anche con la scuola e con figure professionali che possano intervenire concretamente per aiutare questi ragazzi. L’obiettivo è creare una rete sociale solida e supportiva intorno al ragazzo in modo che torni a fidarsi nuovamente delle persone e che trovi nuovi stimoli di vita».

Insomma, è chiaro che, oltre ai ragazzi, gli attori principali sono i genitori e la scuola. Solo insieme, facendo fronte comune, si può riuscire a combattere quella che a tutti gli effetti può essere definita, anche nel nostro Paese, come una piaga sociale.