Il 2 giugno l’Italia repubblicana spegne 78 candeline, anche se il mito patriottico dello stivale ha origini molto più antiche

Prima dell’eterno scisma fra chi la pizza la vuole sottile e croccante alla romana e chi invoca la morbidezza del cornicione napoletano, prima del derby d’Italia tra Inter e Juventus, persino prima della rivalità fra comunisti e democristiani che, nella loro competizione, insieme hanno ricostruito un Paese lacerato dalla guerra: ecco prima di tutto questo, una scelta e una soltanto tracciò la via del popolo italiano nel suo più grande bivio dalla nascita del Regno: Repubblica o Monarchia, questo il dilemma. Da un lato della scheda elettorale, la prima sottoposta anche al giudizio delle donne in Italia, l’armoriale di Casa Savoia con il suo scudo rosso crociato di bianco; dall’altro, l’Italia turrita: la raffigurazione allegorica del nostro Paese, rappresentata come una giovane donna che indossa una corona appunto “turrita”, decorata con una cinta muraria di torri.

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Pur avendo tanti anni quanti ne ha lo Stivale su questo mondo, forse poco meno, oggi la personificazione allegorica dell’Italia ha gradualmente perso presa nell’immaginario comune, rispetto ad un lunghissimo passato di illustri citazioni, l’ultima delle quali, la più istituzionale, proprio sulla scheda sottoposta, il 2 e il 3 giugno 1946, a 28 milioni di elettori. Degli aventi diritto, precisamente, si recarono alle urne 24.946.878 persone, pari all’89,9% dell’elettorato attivo: ad oggi si tratta ancora della competizione elettorale cui gli italiani aderirono con un’affluenza stupefacente. Ce lo ha raccontato molto bene anche l’acclamatissimo C’è ancora domani di Paola Cortellesi.

C’è poi una questione geografica che riguarda la distribuzione del voto, con l’Italia nettamente spaccata in due. Al Nord, dove si erano consumate le più aspre battaglie della Resistenza, prevalse la volontà di cacciare i Savoia dall’Italia. Al Sud, che aveva accolto il re fuggito a Brindisi e aveva trovato nell’occupazione anglo-americana un parziale scudo dalle rappresaglie della guerra civile, vinse invece la Monarchia. Così se in un primo momento sembrava che l’Italia avesse scelto di restare con la dinastia sabauda, poiché il conteggio iniziò dai voti del Mezzogiorno, a scrutinio concluso risultò invece maggioritaria l’opzione repubblicana, sostenuta da un Nord più densamente popolato rispetto al Sud.

I risultati, ufficialmente sanciti dalla Corte Costituzionale il 18 giugno, videro la Repubblica vincere sulla Monarchia con una percentuale, rispettivamente, di 54,3% e 45,7%. Due milioni di voti: uno scarto tanto ridotto bastò agli italiani per portare a termine la più pacifica delle rivoluzioni repubblicane con la cacciata della casata Savoia

Una volta per tutte: vinse davvero la Repubblica?

Sul referendum del 2 giugno 1946 pende anche un vecchio mito: il fatto che in realtà nella consultazione sia risultata vincitrice la Monarchia ma che, attraverso una regia politica di brogli e manomissione del risultato, si sia preferito far vincere la Repubblica. Le ultime ricerche condotte per smontare (o accreditare) definitivamente questa tesi confermerebbero però l’esito ufficiale.

Uno studio di Vanni Mengotto e Andrea Venturini pubblicato sulla Rivista di Storia Economica ha infatti provato a dimostrare la regolarità del voto applicando al referendum una metodologia statistica nota come Mebane, redatta dal MIT di Boston e basata sulla legge di Benford applicata agli esiti elettorali. In pochissime parole, i ricercatori hanno svolto complessi calcoli statistici per verificare la probabilità che la seconda cifra di un numero sia plausibile o, invece, anomala e dunque potenzialmente pilotata.

Questo strumento, giudicato più accurato rispetto al mero conteggio delle schede più facilmente manipolabili pre-scrutinio e probabilmente anche di difficile reperimento, ha dunque analizzato i verbali redatti dai seggi di ogni singolo comune comprovando come, secondo l’evidenza statistica, nessuna manomissione venne operata sul risultato del voto. Il risultato di questo studio, che è solo uno dei più recenti svolti sul tema, confluisce nella risposta ad oggi più accreditata da un punto di vista storico e archivistico, anche se non mancano gli eterni scettici convinti che la Repubblica non fosse un’opzione, bensì una scelta obbligata per le autorità politiche chiamate a raccogliere le macerie ancora fumanti del Paese. Del resto era stato molto chiaro il leader socialista Pietro Nenni: «o la Repubblica o il caos!».

La cacciata dell’ultimo re d’Italia

Un mese prima del referendum, il 9 maggio del 1946, re Vittorio Emanuele III aveva abdicato in favore del figlio Umberto II, spinto da una palpabile ondata di sfiducia e malcontento della popolazione che non gli perdonava l’aver avallato la dittatura e accettato tutti i suoi orrori. «Una decisione rivelatasi sin dal suo nascere tardiva e assolutamente inadeguata rispetto alle aspettative dei partiti aderenti al Comitato di Liberazione Nazionale» spiega oggi il Quirinale. È così che Umberto II si guadagnò l’appellativo di Re Maggio, perché il suo Regno durò appena 40 giorni ricompresi tra l’abdicazione del padre e la proclamazione del passaggio di poteri dalla corona al Governo provvisorio sancita da Alcide De Gasperi il 13 giugno, prima ancora dell’ufficializzazione dei risultati con quello che il sovrano avrebbe poi sempre giudicato un grave sgarbo. 

Quel giorno, ricordano gli annali, Alcide De Gasperi si appellò così al ministro della Real Casa (una sorta di segretario incaricato di occuparsi degli affari privati del Re) Falcone Lucifero: «entro stasera, o lei verrà a trovare me a Regina Coeli, o io verrò a trovare lei». Al netto della vittoria del primo, nessuno dei due finì in carcere, e Lucifero rimase, dopo la cacciata del re, l’unico rappresentante dei Savoia in Italia nonché fervido sostenitore fino alla sua morte dell’invalidità dello svolgimento del referendum.

Così, nonostante le insistenze dei filomonarchici affinché Umberto II si opponesse all’esito annunciato del referendum, il re preferì mantenere lo stesso basso profilo che lo aveva reso meno odiato del padre e il giorno stesso dell’annuncio di De Gasperì partì per un esilio volontario in Portogallo da cui non sarebbe mai più tornato. Due anni dopo, la Costituzione italiana vietava l’ingresso e il soggiorno in Italia di tutti i componenti di Casa Savoia, consorti e discendenti maschi compresi. Una legge che sarebbe rimasta intatta fino al 2002.

La scelta del re fu anche un atto, forse l’ultimo e il più estremo, di amore per l’Italia che, già duramente provata dalla guerra, affamata e impoverita, era in preda ad accesissime rivalità interne che da un lato non avrebbero mai accettato il ritorno di un Savoia sul trono d’Italia, dall’altro non avrebbero consentito una trasformazione in senso repubblicano pacifica. Lo spiegava, in quei giorni concitati, lo stesso Umberto II: «la Repubblica si può reggere col 51%, la Monarchia no. La Monarchia non è un partito. È un istituto mistico, irrazionale, capace di suscitare negli uomini incredibile volontà di sacrificio. Deve essere un simbolo caro o non è nulla».

Da sinistra, Umberto II di Savoia con i figli Marina e Vittorio Emanuele di Savoia (ANSA – ARCHIVIO – RADOGNA)

Che senso ha oggi l’Italia turrita?

Un importante contributo nella ricostruzione della storia dell’Italia turrita è contenuta nel libro-raccolta L’Italia immaginata. Iconografia di una nazione curato dal professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università degli Studi di Perugia Giovanni Belardelli che a Linkiesta spiega: «è singolare che non ci fossero libri, prima del mio, che affrontassero il tema. Questo lo interpreto come un segno del rapporto problematico, vissuto ancora oggi, che hanno gli italiani con il concetto di nazione. L’identità è complessa, divisa, con linee di faglia e rottura» (per chi fosse interessato, un “grande archivio iconografico sulle rappresentazioni femminili dell’Italia” è disponibile anche qui).

Non bisogna poi trascurare il lascito negativo del fascismo in tal senso, che negli anni successivi alla caduta del Regime aveva alimentato “una certa diffidenza nei confronti dei simboli legati alla Nazione – spiega ancora Belardelli. – Se si pensa che negli anni ’70 l’esposizione del tricolore era lasciata solo ai gruppi di destra estrema, si nota come una grande parte dell’arco politico si fosse disinteressata a questo simbolo – e di conseguenza, al concetto che evocava».

Ebbene, 78 anni dopo il “padre di tutti i referendum”, per parafrasare un’espressione molto in voga, ha ancora senso parlare di Italia turrita? Nonostante questo tipo di raffigurazione sia caduta oggi in disuso, la simbologia racchiusa nella donna incoronata ha un significato ancora attualissimo, a partire dalla sua corona: la cinta muraria è infatti anche il simbolo del civismo italiano, ricorrente nell’araldica dei Comuni e risalente fin all’antica Roma.

Altri elementi simbolici ricorrenti dell’Italia turrita sono una cornucopia carica di frutti, che rappresenta l’abbondanza e la ricchezza della terra, e lo Stellone, la Stella d’Italia a cinque punte riconosciuta come il più antico simbolo patrio italiano, con attestazioni già nella letteratura greca del VI secolo avanti Cristo. Altre volte l’Italia sorregge un mazzo di spighe, simbolo di fertilità, o uno scettro, simbolo di potere, oppure ancora è cinta da un mantello sontuoso a indicare la ricchezza e la bellezza del nostro Paese. 

Come si diceva, la raffigurazione dell’Italia turrita sulla scheda elettorale del referendum fu l’ultimo impiego istituzionale dell’allegoria, non senza polemiche: si discusse infatti sulla valenza universale di questo simbolo che invece si era reso, in sede di voto, divisivo e di parte. Fra due corone, una turrita e una crociata, la prima metallica, la seconda rivestita di perle, gli italiani scelsero la prima. Civismo solidale, consapevolezza storica, democrazia, partecipazione, repubblicanesimo: questi i significati di quell’Italia turrita che il 2 giugno ci ricorda ogni anno di conservare.

di: Marianna MANCINI

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