I motivi della crisi Ucraina-Russia tra interessi commerciali e geopolitici, in una storia senza soluzione di continuità

L’Ucraina è sino a prova contraria una repubblica semipresidenziale affacciata sul Mar Nero. Dopo il rovesciamento del Governo filo-russo Janukovič nel 2014 e la parentesi filo-occidentale di Porošenko (2014-2019), adesso a presiederla c’è l’ex comico, attore e sceneggiatore Volodymyr Zelens’kyj, eletto nel 2019 con il 44% dei voti – il più alto numero, stando alle fonti, dall’indipendenza dell’URSS nel 1991 – con il partito Servitore del Popolo; partito nato nel 2017 che trae origini dalla trasmissione tv omonima (2015-2019) in cui lo stesso Zelens’kyj recitò la parte di un insegnante volenteroso a entrare in politica. Oggi si respira un clima da guerra fredda, soprattutto al confine con la Russia: qui la distinzione del popolo ucraino è tra filorussi e antirussi, tra chi ricorda con nostalgia l’Unione Sovietica e chi la disprezza (e nemmeno vuole sentirla nominare!).

Ma perché la Russia è così attratta dall’Ucraina? Come mai siamo giunti a una crisi tra Mosca e Kiev? La guerra fredda tra blocco occidentale filo-USA e blocco sovietico non era stata archiviata nel 1989 con il crollo del Muro di Berlino e seppellita nel 1991 a URSS dissolta? A quanto pare no. E non solo perché si è aggiunto, per riprendere la dicotomia Occidente capitalista-Oriente comunista, il blocco Cina-USA in rapporti d’amore e odio (non dimentichiamoci che i primi a delocalizzare le proprie fabbriche in Cina, agli albori della globalizzazione, sono stati proprio gli americani). L’astio tra Russia e Stati Uniti fa riesumare antichi rancori che si fanno sentire anche nella crisi dell’Ucraina.

Ma facciamo un passo indietro. Alessandro Barbero argomenta un antichissimo legame simbolico radicato nella storia che ha contribuito a costruire le reciproche identità di Russia e Ucraina. 

Nell’anno 1000, la regione di Kiev e i territori circostanti presero infatti il nome di “Russ’” dai conquistatori, nome che si è esteso a tutte le popolazioni slave a loro sottomesse. Il principe Vladimir I il Santo, convertitosi al cristianesimo, dà avvio alla diffusione del credo ortodosso che si estende a nord, l’attuale Russia. L’Ucraina diviene una zona di frontiera nel XV-XVI secolo rispetto alla Russia (infatti, Ucraina, in russo, significa “marca fuori dai confini”), dove si parlano lingue e dialetti diversi, conquistata da lituani e polacchi. Nel Settecento, quando la Polonia viene spartita tra Prussia, Russia e Austria, l’Ucraina orientale ritorna all’Impero Russo e l’Ucraina occidentale passa all’impero austro-ungarico: gli orientali vivono un processo di “russificazione” massiccia da parte degli zar, dove l’ucraino non si insegna più ed esce dalla sfera pubblica, i grandi scrittori ucraini (Gogol’, ad esempio) si sentono russi e scrivono in quella lingua; gli occidentali, invece, vedono lo sviluppo di una Chiesa fedele al papa di Roma che preserva però i riti ortodossi.

Con l’avvento dell’URSS, la politica sovietica mira allo sviluppo delle varie nazionalità e lingue (Stalin rivendicherà invece la supremazia russa). Quindi, l’Ucraina diventa una repubblica socialista dipendente da Mosca e dopo il crollo dell’Unione Sovietica, vi è il “rifiuto esplicito” della “russicità”, mentre a oriente si sviluppano i movimenti separatisti nella popolazione a maggioranza russa.

Questo ci porta agli scontri tra identità russa e identità ucraina commistionata al nazionalismo armato alla base degli eventi del 2014, quando la Crimea viene annessa con plebiscito popolare alla Russia. Sebbene tale decisione non abbia ottenuto il riconoscimento della comunità internazionale, la Russia considera la Crimea un territorio sovrano della Confederazione. Infatti, si è astenuta, assieme agli altri Paesi dei Brics (oltre alla Russia, ne fanno parte Brasile, India, Cina e Sudafrica) nella Risoluzione delle Nazioni Unite del 27 marzo 2014 sull’integrità dell’Ucraina. Gli stessi che anelano a un nuovo ordine mondiale “multipolare” libero dall’influenza USA, senza lasciare solo l’impero di Vladimir Putin nelle eventuali controversie diplomatiche con l’Europa e l’America.

A giustificare l’inglobamento della oramai ex Repubblica di Crimea, Fernando Ayala, un tempo ambasciatore del Cile in Italia, scrive che sono sopraggiunti “interessi geopolitici (quello verso la base navale di Sebastopoli sul Mar Nero) e dal fatto che il 77% della popolazione parla il russo come lingua madre, l’11% tataro e solo il 10% ucraino”. Quindi, non è soltanto il desiderio di avere un ruolo predominante nello scacchiere geopolitico a determinare la “cappa russa” su questa porzione d’Europa. L’accordo russo-tedesco per la costruzione dei gasdotti Nord Stream 1 e 2 che “attraversano il Mar Baltico dalla Siberia alla Germania” è stato oggetto di attriti. Il Nord Stream 1 è attivo già dal 2011, il 2 è stato terminato a settembre 2021, grazie a un investimento russo di 11 miliardi di dollari e però “non è stato inaugurato a causa delle tensioni e delle pressioni esistenti da Washington a Berlino. Gli Stati Uniti si sono sempre opposti alla sua costruzione, stimando che generasse dipendenza dall’Europa occidentale in un’area molto sensibile come l’energia, dove già altri gasdotti russi attraversano il territorio dell’Ucraina, fornendo vari Paesi occidentali, generando quasi 2 miliardi di dollari annui in favore di Kiev.”.Il Governo di Angela Merkel aveva infatti approvato la costruzione del Nord Stream 2 in barba alle sanzioni contro Mosca, tant’è vero che la compagnia statale russa Gazpromaveva scelto l’ex cancelliere federale tedesco Gerhard Schröder come presidente del progetto. Stando alle fonti ufficiali, la Russia pretende che vengano implementati in toto anche i protocolli di Minsk. Il primo risale al 4 settembre 2014, con Ucraina, Russia, Repubblica Popolare di Doneck (de facto) e Repubblica Popolare di Lugansk (de facto) paesi firmatari sotto l’egida dell’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), che prevedeva un “cessate il fuoco” bilaterale immediato con il ritiro di “gruppi illegali armati, attrezzature militari, combattenti e mercenari del territorio dell’Ucraina”, entrambi supervisionati dall’OSCE.  E non solo. In questo accordo, si esortava la decentralizzazione del potere centrale in alcune aree delle oblast’ (regioni) di Doneck e Lugansk mediante una legge ucraina sullo statuto speciale (nel protocollo rientra negli “accordi provvisori di Governo locale”) e la garanzia di elezioni locali anticipate in ossequio alla normativa vigente di Kiev, l’OSCE avrebbe assicurato un controllo costante della frontiera russo-ucraina “attraverso la creazione di zone di sicurezza nelle regioni di frontiera tra l’Ucraina e la Russia”.  Inoltre, dovevano essere rilasciati “tutti gli ostaggi e le persone detenute illegalmente”, varando “una legge sulla prevenzione della persecuzione e la punizione delle persone che sono coinvolte negli eventi che hanno avuto luogo in alcune aree delle oblast’ di Donetsk e Lugansk” fatto salve per reati gravi. Dunque, si sarebbe dovuto procedere all’insegna del “dialogo nazionale inclusivo”, adottando misure atte a “migliorare la situazione nella regione del Donbass”, nonché l’ordine del giorno per la ripresa economica e la ricostruzione di tale area – che, come vedremo, è importante per comprendere la crisi odierna. Sempre e comunque, garantendo la “sicurezza personale dei partecipanti ai negoziati”. A questo, è stato ratificato il 19 settembre 2014 un memorandum in cui si invocava al punto 3 il “divieto di operazioni offensive”.

Il secondo è stato firmato il 15 febbraio 2015 dall’Ucraina, dalla Russia, dalla Francia e dalla Germania e consiste, oltre al cessate il fuoco bilaterale immediato, il “ritiro di tutti gli armamenti pesanti allo scopo di creare una zona di sicurezza da entrambe le parti” con la collaborazione dell’OSCE, assistita dal Gruppo di Contatto Trilaterale costituito da rappresentanti della Russia, dell’Ucraina e dell’OSCE. A quel punto, l’OSCE si sarebbe assicurato che tutto questo andasse a buon fine.Dopodiché, si sarebbe dovuto discutere circa le modalità delle elezioni locali, con legge di grazia, amnistia e divieto di condurre inchieste penali e di infliggere condanne per coloro che fossero implicati “negli eventi avvenuti nelle aree autonome delle regioni di Donetsk e Lugansk”, ed “effettuare la liberazione e lo scambio di tutti i prigionieri e di coloro che sono stati illegalmente arrestati”. Gli aiuti umanitari dovevano essere resi accessibili, consegnati, stoccati e distribuiti correttamente e in sicurezzae inoltre si invitava alla definizione delle modalità di “ripristino delle relazioni socio-economiche”, ivi compresi “sussidi e pensioni”. L’Ucraina avrebbe assunto di nuovo il controllo del confine statale nella zona di conflitto “dal primo giorno della conduzione delle elezioni locali”. Tutte le formazioni armate straniere, mercenari e veicoli militari dovevano ritirarsi, con il “disarmo di tutti i gruppi illegali”. Entro il 31 dicembre 2015, Kiev doveva anche varare la riforma costituzionale che avesse come elemento principe la “decentralizzazione” e includere una “legislazione permanente” sullo statuto speciale delle “aree autonome delle regione di Donetsk e Lugansk”, con “non punibilità e la non imputabilità dei soggetti coinvolti negli eventi avvenuti nelle citate aree, il diritto all’autodeterminazione linguistica, la partecipazione dei locali organi di autogoverno nella nomina dei Capi delle procure e dei Presidenti dei tribunali delle citate aree autonome” nell’ottica di “discutere e concordare le questioni relative alle elezioni locali con i rappresentanti delle aree autonome delle regioni di Donetsk e Lugansk nell’ambito del Gruppo di contatto trilaterale”. Elezioni da condursi nel rispetto degli standard e dell’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani OSCE, intensificando “l’attività del Gruppo di contatto trilaterale anche attraverso la creazione di gruppi di lavoro per l’attuazione dei vari aspetti degli accordi di Minsk.”

In sostanza, i due protocolli miravano a risolvere la guerra nel fulcro della crisi attuale che vede contrapposte la Russia e le forze USA-NATO pro-Ucraina: la regione del Donbass, in cui il 40% degli abitanti si dichiara russo, il 40% degli ucraini ivi residenti parla russo come lingua madre, il 17,3 % è di etnia russa. Perché proprio lì e non altrove? Il Donbass è ricco di giacimenti di carbone che, in unità con le risorse minerarie della vicina Krivoj Rog (versante ucraino), hanno reso possibile lo sviluppo industriale nel settore siderurgico, meccanico, chimico e metallurgico. Mettendoci nei panni della Russia, dove sta il problema?

La maggior parte del territorio del Donbass appartiene all’Ucraina e una esigua parte alla Confederazione Russa. Non stupisce se dal 2014 in avanti, da quando gli oblast’ ucraini del Donec’k e del Luhans’k hanno dichiarato l’indipendenza con un referendum indetto dai filorussi separatisti nel 2014 non riconosciuto dalla comunità internazionale e dal Governo ucraino, il Cremlino ha continuato a inviare 100.000 militari al confine con l’Ucraina e la tensione è alle stelle. Per di più, Kiev è, insieme a Tbilisi, in attesa di poter entrare ufficialmente nei paesi della NATO. Nelle reminiscenze da guerra fredda USA-URSS, ciò non è gradito alla Russia, che vedrebbe così l’arrivo dei soldati dell’alleanza atlantica (e l’influsso dei tanto vituperati Stati Uniti) ai suoi confini con problemi di sicurezza notevoli. Si avvale perciò dei principi contenuti nelle dichiarazioni di Stoccolma (1972) e di Astana (2010). Che cosa dicono queste carte che OSCE e NATO sono tenute a rispettare?

Partendo dalla dichiarazione di Stoccolma, che consta di 26 principi fondamentali, il numero 21 ci interessa per capire meglio le posizioni della Russia: “La Carta delle Nazioni Unite e i principi del diritto internazionale riconoscono agli Stati il diritto sovrano di sfruttare le risorse in loro possesso, secondo le loro politiche ambientali, ed il dovere di impedire che le attività svolte entro la propria giurisdizione o sotto il proprio controllo non arrechino danni all’ambiente di altri Stati o a zone situate al di fuori dei limiti della loro giurisdizione nazionale.”

Per quanto riguarda, invece, la dichiarazione di Astana, il principio che sottostà, a quanto sembra, alla reazione di Mosca, è soprattutto il numero 3. Proprio alla fine di questo principio, leggiamo che “gli Stati non rafforzeranno la propria sicurezza a scapito della sicurezza di altri Stati.”.

Insomma, una brutta gatta da pelare, comunque la si metta.

di: Maria Ester Canepa