Il diritto d’autore: tutelare l’intelletto dai “ladri” del pensiero

Le opere creative sono un bene primario nel nostro mondo e, come espressione di un lavoro intellettuale, necessitano di essere tutelate. In tutti i prodotti, che siano di origine letteraria, musicale, teatrale, cinematografica o lirica, c’è dietro un enorme impegno. Con l’avvento di Internet nell’era digitale il mondo del copyright o “diritto d’autore”, è stato fortemente rivoluzionato, mettendone in discussione valori e fondamenti, dando la possibilità a tutti di avere accesso liberamente alle idee e alle conoscenze. Tale libertà nell’accedere ai documenti, delle volte comporta difficoltà nel tutelare l’idea e il prodotto dell’autore, che viene condiviso e “strapazzato” senza minimo rispetto. In questo preciso istante, entra in gioco il diritto d’autore. Effettivamente, cosa ne sappiamo? Ha una certa autorità oppure no?

Branca del diritto privato, il diritto d’autore tutela, appunto, sia l’autore che l’oggetto in questione come atto creativo. Principalmente si divide in diritti patrimoniali, morali e connessi. I primi fanno riferimento all’utilizzo da parte dell’autore di utilizzare economicamente la sua opera in ogni modo e forma. I secondi, invece, permettono all’autore la facoltà di decidere se e quando pubblicare l’opera e, di conseguenza, rivendicarne la paternità. Infine, i diritti connessi garantiscono un compenso economico non all’autore bensì ai soggetti collegati, ad esempio la casa discografica di un musicista.

Nonostante ci siano dei diritti, questi non valgono equamente in tutti i Paesi. Infatti la legge italiana non protegge tutte le opere. La protezione viene riservata solo alle opere di autori italiani e stranieri che vengono pubblicate o create per la prima volta esclusivamente in Italia. Invece, per opere straniere, lo Stato italiano applica la regola generale sul “Trattamento dello straniero” contenuta nell’art. 16 delle preleggi che stabilisce come «lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità e salve disposizione contenute in leggi speciali». Questo significa che lo Stato tutela l’autore e l’opera straniera solo se lo Stato d’origine riserva i medesimi trattamenti nel suo territorio.

La teoria è bella, ma applicarla lo sarebbe ancor di più. Sebbene ci siano ulteriori norme che dovrebbero regolamentare e tutelare i diritti di ciascun artista, è capitato (e capita) spesso che questi non siano stati rispettati minimamente.

È il caso di Spotify, colosso dello streaming musicale on demand, denunciato da due attivisti per i diritti d’autore, David Lowery, membro del gruppo Camper Van Beethoveen, e Melissa Ferrick, cantautrice americana. Secondo i due militanti, Spotify, oltre a non pagare abbastanza gli autori delle canzoni, non avrebbe nemmeno ottenuto le licenze appropriate per difendere il lavoro degli artisti. Citata in giudizio, l’azienda svedese avrebbe dovuto sborsare un risarcimento pari a 150 milioni di dollari. Ferrick ha accusato direttamente l’azienda di aver fatto “una svendita dei diritti d’autore all’ingrosso”, secondo quanto riportato dal Guardian. A seguito di tale accusa, Spotify si è appellato ad una accidentale violazione involontaria, giustificandosi di aver difficoltà ad individuare i titolari dei diritti di copyright che, talvolta, risultano sbagliati o incompleti.

Poco dopo il caso, Spotify si è mostrato favorevole a pagare un risarcimento di 43,4 milioni di dollari per le licenze meccaniche e di riproduzioni che non erano ancora state pagate. Questo gli ha permesso di trovarsi in una condizione di risarcimento favorevole rispetto alle richieste economiche dei querelanti.

Immancabilmente, le querele verso il colosso sono continuate, questa volta da parte di due etichette discografiche: la Bluewater Music Services che gestisce i diritti degli artisti country e la Bob Gaudio Production, autrice e fondatrice di Frankie Valli, nome d’arte del cantante statunitense Francesco Castelluccio, e Four seasons, gruppo rock-pop statunitense. In questo caso la richiesta è ammontata alla bellezza di 150.000 dollari per ogni canzone pubblicata senza licenza, per un totale di circa 366 milioni di dollari di risarcimento.

Oggi Spotify, al fine di scongiurare continue querele, ha acquistato una startup Blockchain che utilizza la tecnologia Bitcoin: la Media Chain. La mossa si pone l’obiettivo di dar vita ad una piattaforma di tracciamento, al fine di gestire meglio i diritti musicali e dell’entertainment, consentendo di tracciare lo sfruttamento delle opere e garantire ai proprietari l’incasso dei compensi dovuti.

Se ci riflettiamo sopra, possiamo definirli dei passi da gigante rispetto ad una ventina di anni fa quando la pirateria online dilagava come un fiume in piena e di diritti d’autore se ne parlava ma non si riuscivano minimamente a gestire. Prima di iTunes Store, Amazon Music, Spotify, c’era il famosissimo “mulo”, meglio conosciuto come eMule.

Quando ancora internet non era ben regolamentato, un gruppo di appassionati aveva scoperto che si poteva scambiare musica, film e serie tv senza comprarli e, di conseguenza, senza contribuire ai diritti patrimoniali dell’artista e/o della casa discografica. Chiaramente ci si esponeva a rischi di azioni legali penali, attacchi al sistema del pc di virus e malware; questo perché su eMule circolavano grandi virus con nome e icona fittizi, mascherati da software contraffatti. Un’epoca in cui Internet si presentava come il vecchio “far west”, dove tutto era concesso e i diritti erano un gran punto interrogativo. Tutto questo è stato successivamente cancellato e sono partite svariate cause intentate dalle case discografiche a tutti quelli scoperti a scaricare musica, il tutto fortemente incrementato dalla nascita di servizi a pagamento più economici dei CD, tra cui iTunes e successivamente Spotify.

Il “mulo” non è stato il primo. L’onore va a Napster, il primissimo vero grande progetto di condivisione, creato da Sean Parker e Shawn Fanning, due informatici e imprenditori statunitensi. Nato come programma di “file sharing”, Napster fallisce a seguito dell’accusa intentata nel dicembre del 1999 da parte dell’associazione dei produttori discografici statunitensi, Record Industry Association of America, che l’aveva citata appunto per violazione dei diritti d’autore e per aver veicolato il messaggio che la musica fosse gratuita.

Oltre alle piattaforme musicali, i conflitti per i diritti d’autore dilagano anche tra social, motori di ricerca web e gli editori: è il caso di Facebook e Google. Un confronto acceso, lungo e pieno di insidie. Da una parte troviamo gli editori che pretendono, giustamente, l’utilizzo dei loro contenuti digitali a seguito di una corretta retribuzione da parte delle grandi piattaforme, tra cui: Facebook, Instagram, Twitter, etc. Dall’altra parte, invece, troviamo motori di ricerca e rassegne stampa che fanno il possibile per evitare di pagare. Proprio in merito a ciò, Facebook ha cambiato le modalità di pubblicazione dei “link di terze parti”, eliminando l’anteprima (immagine e testo). Facebook, o meglio “Meta”, ha dichiarato di aver introdotto questa novità “nel rispetto della legge”. Oltre a ridurre il traffico veicolato verso i siti editoriali, il sospetto fondato è che ci sia l’intenzione di creare determinate condizioni affinché possano diminuire le richieste di compenso da parte degli editori.

La decisione di Facebook è anche una conseguenza della nuova introduzione legislativa europea in riferimento all’applicazione dei “diritti connessi”, volta a tutelare maggiormente il diritto d’autore. Quando i diritti connessi sono stati applicati ufficialmente in Francia, la scorsa estate, a livello legislativo, Google ha reagito negativamente al punto da costringere l’Antitrust a intervenire, accusando la società di Mountain View di non aver negoziato con equità con gli editori. È finita che Google ha dovuto versare 500 milioni di euro di multa, nonostante avesse annunciato ricorso.

Oggi viviamo nell’era della digitalizzazione, momento storico nel quale una proprietà intellettuale può essere facilmente manipolata, scomposta e ricomposta. Certamente è innegabile come Internet abbia radicalmente modificato la nostra società con apporti positivi ma, come tutte in tutte le cose, non c’è bene senza male. Il male in questo caso è la facilità nel condividere e duplicare file come se nulla fosse, quasi senza preoccuparci di chi ha scritto un determinato contenuto. Nell’industrializzazione culturale, poco importa del guscio se non esclusivamente del suo contenuto e questo viene “spammato” senza riguardi. In un contesto fortemente individualista, anonimo e poco “verso il prossimo”, non solo le idee vanno tutelate, bensì (soprattutto) anche l’ideatore stesso.