Un breve viaggio alle origini del sottogenere, tra abbandono, voglia di riscatto e antagonismi. Con risvolti sociali allarmanti

Sembra che negli ultimi anni la parola “trap” sia entrata nei media italiani soprattutto in riferimento a casi di cronaca che hanno per protagonisti ragazzi giovanissimi e le loro faide. Le ultime notizie ci parlano della richiesta di quattro anni di detenzione per il trapper Baby Gang (al secolo Zaccaria Mouhib) per alcune rapine avvenute tra il maggio e il luglio 2021 a Milano e nell’hinterland. Nella vicenda sarebbero coinvolti anche altri rapper come Neima Ezza (Amine Ezzaroui) e Samy Free (Samy Dharhi).

Baby Gang, classe 2001, era già stato arrestato insieme a un altro trapper, Simba La Rue (nome d’arte di Mohamed Lamine Saida) per una rissa con gambizzazione ai danni di due uomini di origine senegalese avvenuta lo scorso luglio. I due, legati anche dal singolo Sacoche, sono balzati agli onori delle cronache anche per la faida con il trapper padovano Touché (Mohamed Amine Amagour,a volte chiamato anche Baby Touché, per via del nickname usato sui suoi profili social). Il 23enne Saida era già stato incarcerato per l’aggressione nei confronti di Touché, apparentemente sequestrato e picchiato: il video che mostra Amagour sanguinante, insultato da Simba La Rue e dai suoi amici ha fatto il giro dei social. Non è mai stato chiarito cosa sia successo realmente: sembra, infatti, che alcuni membri dello staff del 23enne abbiano dichiarato che non c’è mai stata rivalità e che il pestaggio è stato organizzato ad hoc per aumentare le views su Instagram. Una questione di pubblicità reciproca, insomma.

Al di là delle vicende giudiziarie e delle storie personali dei singoli, la modalità con cui vengono raccontati episodi di questo tipo, spesso, più che innescare una discussione profonda sull’origine della criminalità, sembra rafforzare l‘equazione stereotipata e stereotipante che vuole trap (e rap, dalla quale la trap deriva) = criminalità, violenza, disagio giovanile, quindi gang di giovanissimi (“baby gang”, appunto, come vuole il linguaggio giornalistico) in periferie definite “degradate”. Non sempre ricorrono questi elementi nelle vite degli artisti del genere, ma spesso finiscono per diventare un marchio, che appiattisce la narrazione di un intero fenomeno – per definizione complesso e sfaccettato – su degli aspetti cristallizzati, estremizzati verso il polo negativo.

Come detto, dal punto di vista culturale e musicale la trap si sviluppa tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila come sottogenere del southern rap, nato nel sud degli Stati Uniti. Il rap di per sé è l’espressione in musica del movimento Hip Hop, che si affaccia nel Bronx, New York, all’inizio degli anni Settanta del Novecento, per poi diffondersi in molti quartieri degli States segnati da povertà ed emarginazione. La nascita stessa dell’Hip Hop, infatti, è legata a una profonda urgenza, da una voglia di riscatto delle comunità afroamericane e latine dalla discriminazione razziale e di classe, un grido di protesta (ma anche di una sana voglia di divertimento) che inizialmente trova la sua espressione nei block party, feste di quartiere animate dai DJ. Il movimento Hip Hop si ramifica e si trasforma, e a metà degli anni Ottanta prende forma il gangsta rap, una cronaca nuda e cruda della vita nei “ghetti” metropolitani, racconto di sparatorie, spaccio e consumo di droga, le “guerre civili” tra gang, le faide urbane, appunto. Questo ci raccontano dischi fondativi del genere come Straight Outta Compton degli N.WA., The Chronic di Dr. Dre, All Eyez on Me diTupac Shakure Ready to Die diNotorius B.I.G..Proprio questi ultimi duesono diventati il simbolo della faida tra la East Coast per New York e la West Coast per Los Angeles, che negli anni Novanta ha insanguinato il rap stesso e gli Stati Uniti tutti, culminata con gli omicidi dei due rapper nella metà del decennio.

Alla fine del decennio, invece, arriva la trap, che prende il nome dalle “trap house”, slang usato ad Atlanta per definire le case abbandonate in cui si spacciano stupefacenti (“trapping” in slang significa “spacciare”). Su beat ripetitivi e accelerati, vocalità talvolta sotto l’effetto pesante di auto-tune, ci traghettano all’interno di testi cupi, che variano in base all’artista: dalla vita di strada, alla povertà, all’uso di droga, fino ai soldi e all’ostentazione come affermazione di sé, arrivando a volte a un livore misogino e omofobo (come alcuni predecessori nel gangsta rap).

In Italia il boom della trap si ha nel 2015 con l’album XDVR di Sfera Ebbasta. Tra i nomi più noti c’è quella della Dark Polo Gang, collettivo romano oggetto di dissing (termine che nella cultura Hip Hop designa un brano nato con lo scopo di prendere in giro o insultare altri rapper) da parte di alcuni esponenti del rap per via dei loro testi, considerati privi di contenuti, delle rime non chiuse, del loro atteggiamento definito strafottente e dell’utilizzo di scenari e temi che non appartengono ai membri del gruppo, originari della Roma bene. Nella Penisola la trap passa anche per Achille Lauro, ormai ex-trapper mossosi verso lidi più pop e cantautorali, fino a rapper diversissimi tra loro come Ghali, Tedua, Izi, Chadia Rodríguez, Thasup, Capo Plaza e Rondodasosa (che ha anche dedicato una canzone al suddetto Samy Free, intitolata Free Samy).

Con la diffusione, infatti, il genere ha accolto influenze differenti, fino a sviluppare diversi filoni, tra cui quello della gangsta trap. È vero che nel linguaggio e nell’immaginario estetico e musicale del gangsta rap prima, e della gangsta trap poi – così come del sottogenere della drill – influisce il fascino di una sorta di “cultura criminale”, che vede una rottura dello status quo dal quale si è inizialmente esclusi e racconta una sorta di ascesa, la storia di “qualcuno che ce l’ha fatta”. Una modalità espressiva presa a modello da molti artisti successivi, anche in Italia, che si configura più come una romanticizzazione del topos del cosiddetto “criminale” che si fa chiave di lettura del proprio vissuto, più che un racconto della violenza in sé. Nel corso degli anni sembra che questa fascinazione abbia lasciato il posto, oggi più di prima, alla rabbia repressa, data da un’assenza di prospettive, dalla crescente sfiducia nelle istituzioni (spesso manchevoli), dall’incapacità di immaginare un futuro e da una spinta a farsi giustizia da soli perché si è convinti di non poterla trovare in altro modo, di non avere altre possibilità o di non averle mai avute. «Voglio solo una vita decente» come dice in 7 Miliardi Massimo Pericolo, una delle voci più originali del rap italiano contemporaneo.

Le risse tra giovani bande rivali non sono certo una novità, basti pensare ai Teddy Boys dell’Inghilterra degli anni Quaranta, certamente non aiutati dalla demonizzazione della stampa dell’epoca. Spesso le storie di demonizzazione e di violenza sono cronache di abbandono da parte dello Stato, come nelle periferie italiane o nelle banlieu parigine, raccontate in modo sublime da L’odio (La Haine, 1995) di Mathieu Kassovitz (film che non a caso piace molto al rap italiano). La storia dagli anni Cinquanta del Novecento ci insegna che quando non c’è niente la musica diventa aggregatore sociale e si fa resistenza creativa dal basso, riempiendo di senso ciò che era stato svuotato di senso. Al di là delle responsabilità personali, è necessario riflettere su un intervento capillare da parte delle istituzioni, partendo dalle disuguaglianze sociali, dalle politiche di integrazione che favoriscano l’inserimento e la valorizzazione dei migranti e dei rifugiati, ma anche politiche attive del lavoro e investimenti sulla scuola e l’istruzione.