Una celebrazione internazionale che vuole ricordare a tutti l’importanza di affermare la propria identità, al di là delle imposizioni sociali. Ancora oggi con critiche e difficoltà
Giugno 2021 è stato il mese del 51esimo Pride Month, migliaia di persone hanno sfilato a Tel Aviv, una delle città più “gay friendly” del mondo, poi in Italia a Milano e Roma, ma non solo; Parigi, Siviglia, Los Angeles, Dublino. Un popolo eterogeneo, di giovanissimi e genitori, di omosessuali ed etero, transessuali e poliamorosi.
Ma il momento storico di nascita del movimento di liberazione gay in tutto il mondo ha origini ben più profonde, che risalgono ai famosi moti di Stonewall, termine utilizzato per identificare una serie di violentissimi scontri tra gruppi di omosessuali e la polizia a New York, avvenuti nella notte del 27 giugno 1969, quando gli agenti irruppero in un bar gay in Christopher Street, quartiere del distretto di Manhattan. La prima parata organizzata e concessa è stata il 27 giugno 1970, esattamente a distanza di un anno dal “fatto Stonewall”.
Oggi sembra che, invece di fare passi in avanti, ne facciamo altrettanti indietro. Non rispettiamo la storia, non rispettiamo chi ha lasciato la vita per far sì che noi potessimo essere liberi di esprimerci e liberi di essere ciò che siamo. Il libero arbitrio tanto acclamato non è altro che un sottile velo, un qualcosa di effimero. Effettivamente, possiamo affermare che siamo liberi di essere noi stessi?
Quello che sta succedendo attualmente in Ucraina, oltre ad essere una tragedia umanitaria, rende perfettamente chiaro come, in realtà, il libero arbitrio non è così “libero”. E, in situazioni critiche del genere, i problemi vengono a galla, incorniciando una situazione ancor più drammatica di quello che è già sotto i riflettori.
È il caso dell’esodo di massa a cui stiamo assistendo quotidianamente, dove centinaia e centinaia di ucraini fuggono dalla guerra. Ma non tutti riescono a scappare: questo a causa della legge marziale approvata dal Governo di Zelensky, entrata in vigore subito dopo l’invasione russa. La legge prevede l’espatrio solo alle donne, ai bambini e agli anziani mentre gli uomini seguono il filone dell’arruolamento obbligatorio. Il problema è che molte persone transessuali sono state fermate alla frontiera perché sul passaporto risultano essere maschi. «Abbiamo avuto centinaia di segnalazioni di casi simili. L’unica soluzione è quella di andare dal proprio medico e poi, con il certificato, recarsi all’ufficio militare per essere eliminate dalla lista per l’arruolamento», hanno commentato alcune associazioni LGBTQ+ di Kiev.
In merito, si pongono controcorrente gli Stati Uniti che, a partire dall’11 marzo, hanno concesso la possibilità ai cittadini statunitensi di selezionare “X” per indicare il loro genere sulle domande per il rilascio del passaporto. Questo è un grande passo in avanti, in particolare per tutte quelle persone che non si identificano nei generi binari e il riconoscimento della propria identità sui documenti ufficiali diventa un vero e proprio diritto fondamentale.
Ma la questione del genere e dell’omosessualità rimane ancora tabù in moltissimi Paesi, troppi. Difatti, i diritti gay non sono minimamente tutelati da alcuna legge e non c’è molta sensibilità sul tema. Ad oggi, i Paesi in cui l’omosessualità viene ancora vista come un crimine sono precisamente 72. Dai dati riportati dalla Relazione sull’omofobia patrocinata dallo Stato, diffusa dall’Associazione Internazionale di LGBTQ+, in 7 di questi si applica la pena di morte.
L’Europa è la fetta del mondo dove i diritti della comunità gay sono maggiormente rispettati. In 10 Paesi, ad oggi, vengono concessi i matrimoni tra persone dello stesso sesso e in 12 è permessa l’adozione. Nonostante l’uniformità delle leggi, all’interno dell’Unione Europea ci sono membri in cui molti della popolazione non sono convinti che le persone LGBTQ+ debbano avere gli stessi diritti di tutti gli altri. Ad esempio, in America Latina, il problema maggiore è la violenza e a causa dell’assenza di una normativa specifica che dovrebbe proibire l’omofobia, i crimini dilagano e rimangono impuniti. Eclatante è la situazione nei Paesi Asiatici dove circa la metà criminalizzano l’omosessualità, compromettono la libertà di espressione e ne vietano le manifestazioni pubbliche.
Secondo alcune statistiche riportate dall’Ilga, l’International Lesbian Gay Bisexual Trans and Intersex Association, in 10 Stati è prevista una reclusione che può andare da un minimo di 14 anni fino all’ergastolo. In altri 55 Paesi del mondo, tra cui 27 in Africa, le persone omosessuali possono essere condannate a pene detentive fino a 14 anni di reclusione. Nello specifico, i maschi sono quelli maggiormente puniti: questo perché in molti Stati i rapporti sessuali fra donne non sono vietati.
Emblematico è il fatto avvenuto in Ungheria nel 2021, dove il Parlamento ha approvato, con 157 voti a favore e solo uno contrario, una legge fortemente voluta dal premier Viktor Orban, che prevede il divieto assoluto di diffondere materiali che promuovono il cambio di genere e l’omosessualità tra i minori di 18 anni. Secondo quanto riporta il testo di legge, lo scopo ultimo era quello di contrastare la pedofilia, come se questa fosse equiparabile all’omosessualità: «al fine di garantire la protezione dei diritti dei bambini, la pornografia e i contenuti che raffigurano la sessualità fine a sé stessa o che promuovono la deviazione dell’identità di genere, il cambiamento di genere e l’omosessualità non devono essere messi a disposizione delle persone di età inferiore ai diciotto anni». Il tutto condito sapientemente dalla decisione di approvare la legge proprio nel Pride Month, a giugno.
Mai come in questo momento i diritti si vedono messi ancor più in discussione vista la rielezione di Orban come primo ministro, presentatosi con messaggi forti ed espliciti, dichiarando pubblicamente come i cittadini ungheresi e i loro figli sono minacciati dalla “propaganda omosessuale” derivata da un “Occidente decadente”. È innegabile come questa presa di posizione ideologica legata alla politica attuale messa in campo viola gli attuali accordi europei internazionali sui diritti umani. In un’Europa dove, in teoria, la legge dovrebbe essere uguale per tutti e tutte le persone hanno il diritto di essere trattate allo stesso modo, il “metodo Orban” è decisamente controcorrente e altamente retrò.
Nonostante i continui tentativi da parte di altri allineati con il pensiero di Orban, le parate al fine di elargire la comprensione e l’accettazione continuano e il fervore non diminuisce; anzi, aumenta. Fin da sempre ci sono stati gruppi di persone e associazioni che hanno lottato per far sì che i diritti fossero riconosciuti, cercando di cambiare una società fortemente permeata da bigottismo e scetticismo.
Emblematico è il caso Italia: le primissime associazioni LGBT iniziarono a nascere nel dopoguerra, ma soltanto dopo che la Democrazia Cristiana perse gran parte del suo potere. Fra le prime e tra le più autorevoli, Arcigay nasce negli anni ‘80, a seguito del ritrovamento dei cadaveri di due ragazzi, trovati distesi a terra, mano nella mano, uccisi con un colpo di pistola alla testa. Da qui, a Palermo, nasce la prima sezione dell’Arci dedicata ai gay, ad opera di un sacerdote apertamente omosessuale, Marco Bisceglia, e dei giovani Nichi Vendola, Massimo Milani e Gino Campanella.
Abbiamo avuto modo di confrontarci con Federico Rustighi, 31 anni, medico e volontario presso l’associazione LILA Toscana, la Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS. «Quest’anno compio32 anni e avendo vissuto praticamente da sempre alla “luce del sole” faccio un po’ fatica a datare quando mi sono accorto del mio orientamento sessuale. Non penso sia stata chissà che rivelazione momentanea, piuttosto una presa di consapevolezza a piccoli passi iniziata nella prima adolescenza, intorno ai 13 anni fino ai 16» – ci ha raccontato in merito al momento di questa presa di coscienza.
Com’è stato l’approccio con sé stesso e con gli altri? Molti hanno difficoltà nell’ammettere il proprio orientamento sessuale.
«Gli unici problemi derivanti da un orientamento sessuale non-etero me li sono creati da solo: non ho vissuto in un ambiente particolarmente religioso o benpensante, eppure il senso di colpa e la vergogna di essere “diverso, sporco, sbagliato” sono riuscito a sentirli lo stesso. Oltretutto queste sensazioni non terminano nel momento in cui trovi l’Amore o comunque vieni accettato da tutti, amici, parenti, genitori, fratello, ma ci sono voluti anni per superarli davvero. Comunque, generalizzando e senza nessuna competenza psicologica, credo che la paura di essere “diverso, sbagliato” sia radicata dentro qualsiasi adolescente di qualsiasi orientamento sessuale e trovo assurdo che tutt’oggi non esistano dei percorsi ad hoc per stemperare le problematiche che ogni ragazzo/a si trova ad affrontare».
Certamente un tasto dolente che tocca particolarmente i giovani (e non solo) è il confronto con i genitori, parenti e amici. Lei come ha affrontato questo evento?
«Io mi vergogno quasi a dire che sono stato “fortunato”, perché l’accettazione di amici e parenti dovrebbe essere lo standard minimo per questa condizione, cosa che tutt’oggi è ancora un’utopia. Io non ho avuto nessun tipo di problema se non una mini crisi familiare il primo mese del mio coming out; con gli amici nessun tipo di problema, nessun problema a scuola, niente di niente. Ho un rapporto normalissimo con la mia famiglia e un ottimo rapporto con gli amici: quelli che sono andati via se ne sono andati per incomprensioni e divergenze di idee ma mai per motivazioni relative all’orientamento sessuale. Al giorno d’oggi (ma posso sbagliarmi) credo che anche il coming out sia abbastanza sdoganato, almeno tra gli adolescenti, e mi sembra ci sia molta più attenzione alle tematiche sociali già in tenera età: mi rende abbastanza speranzoso nelle generazioni future. Varrebbe la pena istituire una seria educazione sessuale a scuola (e ne sento parlare da almeno 14-15 anni) fatta con personale formato e competente, educando i giovani all’affettività consapevole e al consenso, al sesso protetto, alla programmazione genitoriale e a tutte le risorse pubbliche per trovare aiuto su queste tematiche».
E invece, per quanto riguarda l’ambito lavorativo, ha mai riscontrato o riscontra pregiudizi?
«No, per niente, ma devo anche ammettere che facendo il medico il livello di scolarizzazione dei colleghi è molto alto quindi è difficile che possano esserci pregiudizi in merito. Posso sempre ricredermi, però. In generale non è che parto presentandomi con “piacere sono gay” perché non è il mio nome e soprattutto lo trovo molto poco interessante dal punto di vista professionale; se poi in pausa caffé o pausa pranzo si parla di vita privata non ho problemi ad ammettere/dichiarare di avere un partner. Per quanto riguarda i pazienti invece trovo inutile e anche controproducente che siano informati sul mio orientamento, anche perché credo che a una persona che sta davvero male interessi molto poco. Comunque ho iniziato da poco, quindi posso sempre ricredermi anche in questo caso!».
Come mi ha accennato durante la nostra conversazione, Lei tuttora svolge attività di volontariato presso l’associazione LILA Toscana. Come ci è arrivato e che tipo di supporto Le ha dato?
«Sono andato alla LILA perché volevo fare il test dell’HIV in completo anonimato: avrei dovuto effettuarlo per i tirocini dell’università e ho pensato “ti immagini che figuraccia se scopro di avere l’HIV in ospedale?”. Al giorno d’oggi le persone sono molto più spaventate dall’essere positive all’HIV per “la vergogna di essere additati come positivi” anziché per la paura della malattia in quanto tale. Questo da un lato è una cosa buona perché evidenzia come i progressi scientifici abbiano permesso un enorme miglioramento delle condizioni di vita negli ultimi 30 anni per persone con HIV, dall’altro lo stigma sociale allontana persone che potrebbero essere positive dall’effettuare il test per paura del risultato. Questo stigma guarda caso coinvolgeva anche “categorie” negli anni ’90 come omosessuali o persone che fanno uso di droghe in modo che in poco tempo l’archetipo del malato di AIDS era “un finocchio con i buchi sulle braccia”. Così molte persone che non rientravano nella categoria (e tutt’oggi ne arrivano in PS con AIDS conclamato) non si testavano perché tanto “non facevano sesso con uomini né si bucavano”. Questo per introdurre il fatto che la storia della LILA si è intersecata per forza di cose con i diritti delle persone LGBTIQ+ dal 1987, anno in cui è nata. Comunque ho fatto il test e mi sono subito innamorato del posto e dei volontari, sia per competenza sia per la capacità di accoglienza e ho chiesto subito di poter partecipare come volontario. Prima del COVID il volontariato in LILA mi ha permesso di fare esperienze bellissime, una fra tutte l’educazione sessuale nel carcere di Firenze, ma soprattutto mi ha permesso ulteriormente di abbattere stereotipi, di acquisire molta più apertura mentale, collaborare con altre associazioni e aprire gli occhi su mondi che non avrei mai potuto vedere facendo solo medicina ma soprattutto di mantenere un contatto sociale e umano con gli utenti».
Quale consiglio si sente di dare a tutti quei giovanissimi che scoprono di avere un orientamento sessuale “diverso”? Secondo Lei, quale potrebbe essere un metodo comunicativo efficace?
«Continuo a credere nell’incontro frontale con psicoterapeuta o figura affine per parlare di questo tipo di tematiche. Il mio consiglio è di non vergognarsi mai del proprio orientamento sessuale, ma di imparare a conoscerlo e difendere i propri diritti. Mai come in questo periodo storico ci stiamo rendendo conto che diritti e libertà non sono scontati e quindi consiglio di difendere la propria condizione il più possibile manifestando».
Di passi avanti ne stiamo indubbiamente facendo, ma non è ancora abbastanza. Ostacolare chi vuole semplicemente essere sé stesso causa disturbi alle persone, che vanno dalla bassa autostima, alle difficoltà relazionali e comportamenti autolesivi. Non poter esprimere liberamente i propri sentimenti vincola la persona in una situazione di incapacità di amarsi. L’omofobia deve essere fronteggiata, abbattuta, eliminando gli stereotipi di genere, in particolare iniziando ad aprirsi alla realtà dell’altro, confrontandoci. La complessità di ogni essere umano non può essere minimizzata con una banalissima etichetta.
Tra tutte le libertà al mondo, una è veramente fondamentale: darsi e dare il permesso di poter essere sé stessi, liberamente da tutto e tutti, com’è giusto che sia.