La seconda domenica di maggio è la festa della mamma, ma un mazzo di fiori non basta a risarcire le donne che sono chiamate a sacrificare lavoro e diritti
La maternità è un atto d’amore. Forse il più forte e puro che l’essere umano sia in grado di concepire: “è qualcosa che ti resta dentro, nella pelle“, diceva Albus Silente; eppure se ci spingiamo oltre le facili citazioni, se guardiamo un po’ più in là delle immagini dolci di cui ci bombardano tv e social media e se tendiamo l’orecchio abbastanza da superare il muro del suono della retorica politica e religiosa, ci rendiamo facilmente conto che il nostro non è un Paese per madri.
La seconda domenica di maggio è la festa della mamma. La data è stata scelta nel 2001 per uniformare l’Italia a standard internazionali e rendere più accessibile la celebrazione, che prima avveniva l’8 maggio, data della commemorazione della Madonna del Rosario di Pompei; è la giornata in cui le mamme vengono ringraziate, vezzeggiate, vengono scartati regali e consegnate torte: fiori, biglietti, lavoretti, dediche affettuose; poi domani si ricomincia con il suono della sveglia la mattina e nel flusso costante della quotidianità finisce che non ci rendiamo conto di quanto essere madre sia ancora oggi un’impresa che richiede forza, resistenza e, troppo spesso, rinuncia.
In un mondo in cui il gender gap è ben lontano dall’essere colmato le donne che diventano madri pagano un prezzo altissimo: licenziamenti, salari più bassi, carriere rallentate, aspettative sociali rigide, e a tutto questo si aggiunge una distribuzione del lavoro domestico ancora profondamente squilibrata. Secondo i dati Istat solo il 53% delle madri lavoratrici torna a lavoro dopo il congedo di maternità e anche quelle che lo fanno si scontrano con la difficoltà di conciliare tutto: figli, lavoro, casa.
Il concetto di “carico mentale”, l’onere invisibile e pesantissimo di pianificare, ricordare e organizzare ogni aspetto della vita familiare, grava ancora in larga parte sulle spalle delle donne e, anche quando il partner è presente, il peso simbolico e pratico della genitorialità cade inevitabilmente e prevalentemente sulla madre. Non è solo una questione di tempo, ma di responsabilità emotiva e sociale.
Sorprende davvero allora constatare che la natalità ha toccato il minimo storico? È davvero così difficile spiegarsi il record negativo delle nascite (370 mila nuovi nati, in flessione del 2,6% rispetto all’anno precedente)? E questo senza addentrarsi nel territorio ancora più minato per certi versi dell’instabilità economica e finanziaria, climatica, geopolitica. In Italia le madri sono sempre più sole e penalizzate, e lo dimostra molto bene il report “Le Equilibriste – La maternità in Italia 2025” pubblicato da Save The Children. Il quadro restituito dal rapporto è complesso e frammentato: la “child penalty”, la penalizzazione subita dalle donne nel mercato del lavoro dopo la nascita di un figlio, colpisce una madre su cinque e interessa tutte coloro che sono costrette a lasciare la propria occupazione perché impossibilitate a conciliare vita privata e professionale, a causa anche della mancanza di servizi per l’infanzia (a partire dagli asili, insufficienti o con costi talmente elevati da essere ridicoli e inaccessibili).
Se è vero che nell’Italia del Nord i parametri rientrano nella medie europea, altrettanto lo è che la situazione peggiora drasticamente man mano che ci si sposta a Sud: nel Mezzogiorno il tasso di occupazione femminile crolla al 49,4% tra le donne senza figli, e scende ancora al 44,3% tra quelle con figli piccoli. Le dimissioni volontarie delle madri con figli da 0 a 3 anni rappresentano poi il 72,8% del totale dei genitori dimissionari, e nel 96,8% dei casi sono dovute all’impossibilità di gestire lavoro e famiglia.
C’è, in Italia, ma anche in Europa e in generale nel mondo, una retorica estremamente pericolosa: quella della “mamma guerriera”, che normalizza un modello di maternità eroica ed esalta quelle donne che “resistono”, amando, educando, tenendo in piedi intere famiglie, come se fosse giusto e rendesse loro onore fare tutto da sole. Si tratta di una normalizzazione molto comoda perché nasconde una mancanza di supporto collettivo di cui si è tutti colpevoli: il Governo, le istituzioni, la religione, le famiglie d’origine, i figli stessi.
E allora forse gli unici “auguri mamma” che varrà la pena pronunciare oggi saranno quelli nati da questa presa di coscienza. Un augurio che sia anche un “grazie”, un grazie che sia anche una richiesta di perdono. Perché ogni madre merita di essere festeggiata, ma ancor di più merita giustizia.
di: Micaela FERRARO
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