Il voto in Brasile affida un terzo mandato al “presidente sindacalista”, consegnandogli due fatiche di Ercole: ricucire un Paese mai così diviso e salvare la foresta amazzonica dal disastro
«Hanno cercato di seppellirmi vivo, ma sono risorto». Non lesina metafore messianiche Luiz Inácio Lula da Silva che porta a casa la sua terza rielezione alla Presidenza del Brasile, esito di un voto drasticamente polarizzato, fotografia di un Paese altrettanto spaccato che si affida nuovamente alle mani del “presidente operaio”. Sarebbe, però, una colpevole miopia leggere la vittoria di Lula come un nostalgico passo indietro del popolo figliol prodigo, in un Paese alla disperata ricerca di una convincente alternativa agli scandali del predecessore Jair Bolsonaro ma soprattutto ammalato di un dualismo esacerbato e paralizzante. Lo confermano le urne stesse, con uno scarto di appena due milioni di voti su 156 milioni aventi diritto: Lula si attesta al 50,90% delle preferenze (60.345.999 voti), Bolsonaro al 49,1% (58.206.354 voti); a livello federale, dei 27 Stati brasiliani 13 vanno al Partito Liberale dell’opposizione, 10 al Partito dei lavoratori di Lula.
La campagna elettorale è infatti stata “la più polarizzante” dagli anni ‘80, ossia dal ritorno della democrazia in Brasile, come ha osservato l’analista politico di Prospectiva Adriano Laureno. Il clima violento ha ben oltrepassato la soglia di tolleranza dei toni accesi, con entrambi i candidati che spesso si presentano in pubblico con il giubbotto antiproiettile – una scelta di natura comunicativa ma anche securitaria. I comizi diventano teatri di violenza e le piazze scene del crimine, a partire dal lancio di urina, feci e ordigni artigianali contro supporter del partito avversario, fino all’assassinio a colpi di pistola di Marcelo de Arruda, noto collaboratore di Lula ucciso da un sostenitore di Bolsonaro. «Un processo pericoloso, quello che mette insieme idee radicali, politica e armi» come spiega all’agenzia Dire il professore di sociologia dell’Universidade Federal do Rio de Janeiro Pedro Mara. Eppure, e a dirlo è lo stesso Lula, “a nessuno interessa vivere in un Paese perennemente in guerra” e “la famiglia va riunita”, dunque “è tempo di deporre le armi”.
77 anni compiuti il 27 ottobre, prima di incarnare il terzo mandato alla Presidenza del Brasile, Lula nasce in una famiglia poverissima e analfabeta. Lavorando nelle fabbriche si avvicina al mondo operaio di cui si fa portavoce, come sindacalista prima e politico poi, quando fonda il Partido dos Trabalhadores con cui entra nel Congresso brasiliano e partecipa alla stesura della Costituzione post-dittatura. Passano anni prima che la burocrazia, gli industriali e i banchieri si convincano a prestare ascolto alle arringhe di Lula, anziché guardare con preoccupazione al suo abbigliamento informale e alla base proletaria di sinistra che ne sostiene l’ascesa lenta ma inesorabile verso Palácio do Planalto. Nel 2003 diventa presidente del Brasile, forte di un sostegno popolare e di sinistra ma intenzionato a superare l’approccio ideologico e divisivo che contraddistingue le leadership latinoamericane. Da un lato, quindi, applica un esteso modello di welfare per sostenere le fasce più deboli; dall’altro mette da parte la lotta di classe che frammenta il Paese e apre anche al dialogo con la vecchia élite conservatrice e finanziaria. Edulcora l’antimperialismo delle prime arringhe per allacciare buoni rapporti con gli Stati Uniti di George W. Bush e ammorbidisce l’ortodossia socialista della gioventù con un approccio più maturo e riformista. È con questo pragmatismo sincero che Lula lancia Bolsa Família, la sua “rivoluzione silenziosa” (una definizione della Banca Mondiale): un programma di supporto alle famiglie che garantivano istruzione e vaccinazioni ai propri figli, che ispirerà molti altri progetti di welfare in tutta l’America Latina. In 10 anni il programma porta il tasso di povertà assoluta della popolazione da 9,7 a 4,3%, aumentando le possibilità per una ragazza di 15 anni di frequentare la scuola del 21%.
È così che nel 2010 Lula chiude due mandati presidenziali con un tasso di gradimento dell’87%. Obama si riferisce a lui come al “politico più popolare del mondo”, il Programma Alimentare Mondiale dell’Onu lo intitola “campione del mondo nella lotta contro la fame”.
Dalla cima più alta della popolarità, però, è facile cadere. È con l’Operação Lava Jato(“operazione autolavaggio”) che Lula finisce fra le trame fangose della macchina giudiziaria impegnata a disvelare il più grande scandalo di corruzione della storia del Paese, quello della compagnia petrolifera Petrobras: un sottobosco da 12 miliardi di dollari cui attingono grandi aziende, gruppi industriali e classe politica, tutti interessati alla spartizione delle ricchezze delle materie prime. La maxi-inchiesta porta all’arresto di 130 persone, ivi compreso l’ex presidente Lula, condannato nel 2017 per corruzione. Giusto il tempo di saltare la tornata elettorale del 2018, poi vinta da Bolsonaro. Dopo un anno di carcere, nel 2021 la Corte Suprema annulla la sua condanna, ritenendo non imparziale il giudice autore della sentenza (dopo le elezioni diventerà ministro della Giustizia di Bolsonaro). Così Lula, che nel frattempo ha affrontato e sconfitto un cancro alla gola, si rimbocca ancora le maniche e torna alle sue origini di sindacalista, scegliendo come secondo battesimo politico una fabbrica Volkswagen, nel cuore industriale dello Stato di San Paolo. Da qui riprende la campagna elettorale, ma le cose sono molto cambiate dal 2001. Nel 2010 gli era succeduta Dilma Rousseff, prima donna presidente del Brasile che ne prosegue gli intenti riformisti ma non ne eredita la popolarità. La sua gestione, soprattutto quella economica, aggrava ulteriormente il clima nel Paese, sfiduciato e affamato di giustizia; Rousseff subisce l’impeachment e dovrà attendere il 2022 affinché il Ministero pubblico federale brasiliano chiudesse le indagini sul suo conto senza individuare alcun illecito.
Dopo la caduta di Rousseff, l’analista politico esperto di America latina Brian Winter scriveva su Americas Quarterly: «la rabbia e la disperazione nella società brasiliana dopo la peggior recessione in 80 anni non è indirizzata a uno o due leader o a un partito, ma all’intera classe politica. Alle prossime elezioni, che siano nel 2016 o nel 2018, ci sarà quasi sicuramente un voto alla “Que se vayan todos” (“via tutti!” ndR)», preconizza facendo riferimento allo slogan con cui qualche anno prima un’Argentina esasperata da scandali e corruzione invocava un ricambio di tutta la classe politica e dirigente. Così è stato: nel 2018 è l’ex capitano dell’esercito, sovranista, conservatore e populista Bolsonaro a vincere le elezioni con il 55% dei voti, attinti dalle regioni più ricche e bianche del Paese, in particolare agricoltori, allevatori ed evangelici. A minare il suo consenso non saranno, però, la sua fama di intransigente cattolico di estrema destra, alimentata da controverse dichiarazioni su donne, comunità LGBTQ+ e neri, né il suo aperto sostegno alla dittatura militare del 1964 al 1985. È la sua gestione della pandemia a fargli perdere credito davanti alla popolazione: un’inchiesta parlamentare lo accusa di 9 reati, fra cui anche crimini contro l’umanità, corruzione e violazione delle misure sanitarie, come nel contestato caso dell’idrossiclorochina che il Governo avrebbe cercato di far passare come una valida cura contro il Covid-19. Il tutto al netto di quasi 700mila morti in tutto il Paese, martoriato dal suo stesso sistema sanitario più che dal virus in sé. La richiesta di impeachment viene respinta e Bolsonaro, affatto intenzionato a lasciare il comando, ribadisce di vedere solo tre possibilità per il suo futuro: «essere arrestato, essere ucciso o vincere». A dispetto di timori sulle posizioni dell’esercito e accuse di brogli scagliate settimane prima dell’apertura dei seggi, la democrazia avanza con il suo corso e riporta Lula al timone.
Tanti i dossier sul suo tavolo, tutti urgenti: fame, povertà, transizione energetica e ambiente, con la tutela della foresta amazzonica e la lotta al disboscamento illegale sotto i riflettori del mondo intero. Basti ricordare che fra il 2020 e il 2021 sono spariti dalla faccia del Brasile 13.200 km2 di foresta, pari a tutto il territorio del Trentino-Alto Adige, il 22% in più rispetto all’anno precedente. Dati su cui Bolsonaro avrebbe consapevolmente mentito in occasione del Cop26 e che ora Lula, che ci ha messo la faccia presentandosi al Cop27, deve controbilanciare con azioni concrete e immediate.
Ad alzare la posta in gioco c’è anche la metastasi della criminalità organizzata che allunga le sue mani avide anche su disboscamento e sfruttamento selvaggio. Giocando sulla loro conoscenza dei bacini idrici e del territorio, i cartelli dei narcotrafficanti infatti diversificano sempre più il loro “business” attingendo a materie prime come oro e legno attraverso punti di estrazione illegale e lo sfruttamento di manodopera schiavizzata. Fra le denunce più recenti basta citare l’indagine di Repórter Brasil ripresa anche dalla polizia che accusa una raffineria italiana (Chimet) e una brasiliana (Marsam) di lavorare materia prima estratta illegalmente da miniere clandestine nelle terre indigene per poi rivenderla a big tech come Apple, Google, Amazon e Microsoft. Secondo uno studio dell’Instituto Socioambiental il 28% dell’oro estratto in Brasile ha origini illegali. L’attività mineraria è anche sempre più uno strumento di riciclaggio, vista la legislazione lasciva che pone il dovere di verificare l’origine della materia prima solo in capo a chi vende e non a chi acquista. Un’inchiesta della Bbc Brasil, confermata dalla polizia federale, rivela anche come i dissidenti delle disciolte Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) si finanzino grazie a questa attività, estorcendo denaro ai minatori delle aree di estrazione illegale al confine, senza risparmiarsi massacri impuniti delle popolazioni indigene.
La tragedia ambientale in corso, incancrenita dalla mano della criminalità, non è che un filo della spessa matassa che il popolo brasiliano ha riconsegnato nelle mani del “presidente operaio”. Il Brasile non ha più tempo di trincerarsi dietro ideologie romantiche e lotte di classe. Per riacquisire la centralità che merita, la politica deve uscire dal campo dell’autoreferenzialità e diventare un sostegno concreto per il popolo, fornendo strumenti contro la povertà, favorendo la scolarizzazione nelle favelas e riprendendo il controllo del bene comune, per fare il bene comune. La missione di trovare un antidoto alla polarizzazione che paralizza il Brasile è affidata, ancora una volta, a Lula, più come traghettatore in tempesta che come leader del Partito dei lavoratori. Ancora una volta, il presidente non potrà che scendere a compromessi, sia internamente sia esternamente, con la portata delle sfide ambientali che ormai hanno acquisito un impatto globale e tengono gli occhi di tutti i leader del mondo puntati su Brasilia. Per dimostrare, una volta per tutte, che la difesa del nostro pianeta e la lotta alla corruzione non attingono al mondo degli ideali politici, ma richiedono il coraggio dell’azione.