Il 9 maggio segna la morte di Aldo Moro e Peppino Impastato, vittime di due fenomeni lontani che condividono una matrice comune, quella della violenza

Come due binari che corrono insieme, paralleli, senza incontrarsi mai, eppure condividendo un percorso comune, così viaggiano due degli eventi che hanno segnato in modo indelebile la storia della Repubblica italiana. È il 9 maggio del 1978 quando nel bagagliaio di una Renault 4 rossa in Via Caetani, a Roma, viene rinvenuto il corpo, ormai freddo, del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro. Poche ore prima un altro corpo ha incontrato la morte: è quello di Giuseppe Impastato, detto Peppino, adagiato sui binari della ferrovia Palermo-Trapani e fatto saltare in aria con 6 chili di tritolo.

Le due vittime hanno 31 anni e un intero background di differenza. Anche la loro morte avverrà con modalità e per motivi diversi; ad accomunarli, oltre la data, ci pensano la violenza e i risvolti che la loro fine avrà sulla storia italiana. Moro muore a 61 anni dopo 55 giorni di prigionia, crivellato da 12 colpi di proiettile calibro 7,65. Alle sue spalle ha una carriera politica vissuta attraverso i corridoi delle sedi delle più importanti istituzioni italiane: Palazzo Chigi, Montecitorio, la Farnesina, Palazzo Piacentini, sebbene la sua casa sarà sempre Palazzo Cenci-Bolognetti al numero 46 di piazza del Gesù a Roma, sede del partito di cui fu fondatore nel 1943 insieme ad Alcide De Gaspari, Mario Scelba, Giovanni Gronchi, Giulio Andreotti e altri esponenti politici provenienti dal disciolto Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo e dell’Azione Cattolica.

Ancora prima di intraprendere il suo percorso da statista, Aldo Moro nasce in provincia di Lecce nel 1916 da famiglia borghese. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Bari – che oggi porta il suo nome – dove insegna diritto penale dal 1948 al 1964, anno in cui si trasferisce nella Capitale per prendere la cattedra di istituzioni di diritto e procedura penale.

Impastato, invece, di anni ne ha 30 quando la cosca mafiosa che “comanda” Cinisi, Palermo, decide che la sua attività giornalistica con la radio libera autofinanziata da lui fondata nel 1977, Radio Aut, nonché la sua candidatura alle elezioni comunali dello stesso anno con Democrazia Proletaria, hanno superato il limite. Sarà lo stesso capo clan, Gaetano Badalamenti, “Zu Tanu”, più volte preso di mira nel programma radiofonico satirico Onda pazza a Mafiopoli e smascherato nelle sue attività illecite, ad essere riconosciuto come mandante del suo omicidio e condannato all’ergastolo nel 2002. Morirà due anni dopo, all’età di 80 anni.

Quella di Peppino alla mafia non è una lotta mossa esclusivamente dall’impegno civile, la questione per lui è personale. Peppino, infatti, nella mafia ci nasce: il padre, Luigi Impastato, è colluso con Cosa Nostra, così come lo zio Cesare Manzella, boss locale fatto esplodere sulla sua Alfa Romeo Giulietta nel 1963 e succeduto proprio da Badalamenti. Non a caso nel 1986, per denunciare i retroscena della morte del figlio, Felicia Bartolotta Impastato pubblicherà La mafia in casa mia, curato da Anna Puglisi e Umberto Santini, fondatori nel 1977 del primo centro studi sulla mafia trasformato in associazione culturale nel 1980, il Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo.

Tornando al 1978, il 16 marzo la Camera dei deputati è chiamata a votare la fiducia al quarto Governo guidato da Giulio Andreotti, un partito monocolore ma sostenuto da tutti i partiti, mediato da Aldo Moro dopo la caduta del terzo Governo Andreotti, quello detto “della non sfiducia” o del “compromesso storico” tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano. Quel giorno Moro lascia la sua abitazione nel quartiere romano di Trionfale a bordo di una Fiat 130. All’incrocio tra via Mario Fani e via Stresa, di fronte al bar Olivetti, la vettura viene intercettata da quattro componenti delle Brigate Rosse – verranno poi identificati come Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari e Franco Bonisoli – che uccidono i cinque uomini della scorta, Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, e sequestrano lo statista, nascondendolo in uno stabile di via Montalcini 8 e rivendicando l’“attacco al cuore dello Stato”. Lì, a controllarlo per 55 giorni, ci saranno, oltre i già citati esponenti dell’organizzazione terroristica di estrema sinistra, il dirigente Mario Moretti, Germano Maccari e Anna Laura Braghetti, intestatari dell’appartamento rinominato la “prigione del popolo”, fino al tragico epilogo.

In quei 55 giorni il Parlamento, nel clima di cosiddetta “solidarietà nazionale”, vota la fiducia al nuovo Esecutivo. Andreotti premier per la quarta volta si rifiuta, con il sostegno del segretario del PCI Enrico Berlinguer e dell’esponente del Partito Repubblicano Italiano Ugo La Malfa, di trattare con i brigatisti, nonostante i tentativi di questi ultimi. L’unico a spingere per un negoziato sarà Bettino Craxi, segretario del Partito Socialista Italiano, che rimarrà inascoltato. Le autorità intanto mobilitano 13 mila agenti di polizia che eseguono 40 mila perquisizioni domiciliari e 72 mila blocchi stradali. Nulla aiuta a scoprire dove viene tenuto l’onorevole: si dovrà attendere una chiamata, ricevuta dal suo assistente, Franco Tritto, quell’infausto martedì di maggio, per rivelare dove si trova, ormai cadavere.

In quegli stessi giorni Moro affida a carta e penna il suo testamento morale: da una parte scrive 86 lettere indirizzate a familiari ed esponenti del partito democristiano – alcune secretate dal Parlamento durante il primo processo per la sua morte, molte raccolte in Lettere dalla prigionia -; dall’altra redige i verbali dei lunghi interrogatori – il cosiddetto Memoriale Moro – a cui lo sottopone il dirigente della colonna romana Moretti, lo stesso che nell’ottobre del 1993 ammetterà di aver mortalmente premuto il grilletto contro di lui («Non avrei permesso che lo facesse un altro»). Nel primo caso punta il dito contro i compagni e gli esponenti comunisti con cui aveva mediato nei momenti di stallo politico («Non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente ad una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata accettando anche lo scambio dei prigionieri. […] Resta, pur in questo momento supremo, la mia profonda amarezza personale. […] Il mio sangue ricadrà su di loro» e «I comunisti non dovevano dimenticare che il mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava alla Camera per la consacrazione del Governo che mi ero tanto adoperato a costruire»), ma scrive anche a Papa Paolo VI, suo amico personale, a cui anche la moglie si rivolgerà invano («Il papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo» – scrive Moro a Eleonora Chiavarelli). Nel secondo caso, invece, i presunti interrogatori – di cui i brigatisti si erano premurati di dar notizia – varranno il fiato sospeso del mondo e delle principali potenze mondiali: in piena Guerra Fredda, infatti, Moro aveva ricoperto più volte il ruolo di primo ministro e ministro degli Esteri, venendo a conoscenza di segreti e affari di Stato che andavano ben al di là dei confini del Belpaese.

Per questo e per tanti altri punti bui de “l’affaire Moro” (come Leonardo Sciascia intitolerà il suo libro sulla vicenda), la famiglia del segretario e l’opinione pubblica – la stessa che alla notizia del rapimento era scesa in piazza, dimostrando come riferirà Berlinguer altissima maturità politica e civile alla nuova provocazione del terrorismo” – non vedranno mai di buon occhio l’operato del Governo in quei giorni di tensione. Verranno rifiutati i funerali di Stato, cosicché in onore di Moro si terrà solo una solenne commemorazione funebre senza feretro il 13 maggio successivo al suo ritrovamento e a cui prenderanno parte tutti i personaggi che lui aveva indicato – e condannato – nelle missive.

Per decenni, nonostante le indagini, le inchieste, i processi e le condanne, il numero di domande rimaste senza risposta non ha fatto che aumentare, insieme alla sensazione che dietro ci fosse di più. Neanche le commissioni parlamentari d’inchiesta, l’ultima istituita con Legge nel 2014, hanno saputo far luce sui dubbi. In una relazione datata 21 dicembre 2016 della “Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro”, presieduta da Giuseppe Fioroni, si evidenzia come durante i lavori siano emersi “profili di criticità che appaiono caratterizzare la gestione politica e le indagini”. L’anno successivo, nella relazione finale del 7 dicembre 2017 si legge: «dalla rilettura sistematica dei cinque processi e dell’attività delle precedenti Commissioni […] emerge il fatto che la ricostruzione storico-politica e giudiziaria di uno dei momenti più drammatici della storia repubblicana è ancora fortemente condizionata da una ‘verità’ […] legata alle interazioni tra le culture politiche all’epoca prevalenti e ad una diffusa volontà di voltare rapidamente pagina rispetto alla stagione del terrorismo».

Di quella stagione, infatti, la morte dell’onorevole è il culmine di una serie di attacchi armati e attentati terroristici messi in atto da organizzazioni di estrema sinistra e di estrema destra (il cosiddetto terrorismo rosso e nero) che andranno avanti fino agli anni ‘80, volti a bipolarizzare il dialogo politico e a destabilizzare l’equilibrio delle istituzioni. E proprio per un attentato sarebbe potuta passare anche la morte di Peppino Impastato, o almeno questo era stato l’intento dei suoi assassini.

È di nuovo il 1978. Peppino ha soli 30 anni ma ha già militato nel Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (vi aderisce nel 1965, a 17 anni, l’anno successivo alla scissione dal PSI. Nella sua biografia scriverà: «arrivai alla politica […] a partire cioè da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare ormai divenuta insostenibile. […] con la rabbia e la disperazione di chi, al tempo stesso, vuole rompere tutto e cerca protezione»), ha lavorato come giornalista per il manifesto e Lotta Continua, oltre che per la sua radio, Radio Aut. Quell’anno decide che è il momento di scendere in campo: dopo averne denunciato per anni i legami corrotti, combatterà i politici locali e la mafia da dentro. Si candida con Democrazia Proletaria, un cartello elettorale nato nel 1975 che unisce sotto la sua egida diverse realtà della sinistra extraparlamentare, tra cui il Partito di Unità Proletaria per il Comunismo, il Movimento Studentesco, Avanguardia Operaia e la stessa Lotta Continua. Peppino, però, ai seggi non ci arriva mai perché la mafia lo uccide prima e nel farlo decide di fare a pezzi con il tritolo non solo il suo corpo ma anche la sua reputazione. Coerentemente con l’ondata di violenza che sta colpendo il Paese, chi lo vuole morto – e successivamente chi indagherà sulla sua fine – farà in modo che Impastato venga considerato un esponente del terrorismo rosso, deceduto durante un presunto attentato suicida sui binari che attraversano il territorio cinicense. Mentre a livello nazionale la morte di Peppino passa in sordina – il Paese è fermo in via Caetani – a livello locale le modalità del suo omicidio non basteranno alla comunità per cambiare idea su una persona che ha così ben imparato a conoscere per la sua lotta civile. A dimostrarlo ci pensano i risultati dei seggi: il suo nome verrà simbolicamente indicato da 199 persone che lo eleggeranno a candidato più votato della tornata. Il suo seggio, l’unico ottenuto da Democrazia Proletaria, andrà ad Antonino La Fata.

La stessa comunità combatterà per anni per far sì che Peppino venga riconosciuto come una vittima della mafia ma il percorso sarà lungo: nel maggio del 1984 il Tribunale di Palermo riconosce la matrice mafiosa del delitto; nel 1992 il caso viene archiviato perché viene esclusa la possibilità di individuare dei colpevoli; verrà riaperto solo nel 1996 dopo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Salvatore Palazzolo, lo stesso che nel 2001 verrà riconosciuto colpevole insieme a Badalamenti, condannato l’anno successivo. Per trovare i responsabili, dunque, ci vorranno 20 anni, lo stesso arco di tempo che Felicia Bartolotta Impastato, in prima fila a combattere perché suo figlio avesse giustizia, impiegherà per vedersi consegnare il 7 dicembre del 2000 la relazione finale del comitato interno alla Commissione Parlamentare Antimafia, istituito nel 1998, in cui viene riconosciuto il ruolo dei magistrati e delle alte cariche delle forze dell’ordine nelle attività di depistaggio.

Se la morte di Aldo Moro avviene sul finire di un periodo, quello degli anni di piombo, l’omicidio Impastato, invece, un periodo lo apre: quello delle stragi di mafia. Il giornalista, infatti, sarà uno dei primi a pagare con la vita per aver rotto quel clima di omertà che fino a quel momento era stato assoluto nei contesti permeati dalla criminalità organizzata, ma non l’ultimo. Nella sentenza che ha condannato i suoi assassini, i giudici scrivevano: «il pericolo costituito da tanta irriverente ed irritante rottura del muro dell’omertà era vieppiù palpabile da far ritenere che la soluzione del problema fosse necessaria ed anche impellente, stante peraltro che il giovane di lì a poco, secondo attendibili previsioni, sarebbe stato eletto consigliere comunale». Tale “pericolo” e tale “soluzione” saranno le stesse che caratterizzeranno, pochi anni più tardi, l’operato di altri personaggi passati tristemente alla storia come vittime della mafia. Pier Santi Mattarella (1980), Carlo Alberto dalla Chiesa (strage di via Carini, 1982), Rocco Chinnici (strage di via Pipitone, 1983), Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (strage di Capaci e strage di via D’Amelio, 1992) sono solo alcuni dei nomi più noti che oggi si ricordano di quella stagione. Una stagione di violenza che segue alla violenza, in un clima che è ancora di paura e sospetto, di diffidenza verso le istituzioni e le autorità, come se in quel 1978 terrorismo e mafia avessero deciso di assumere uno l’aspetto dell’altro, si fossero ispirati a vicenda, si fossero dati il cambio nel tenere sotto scacco un Paese, l’Italia, e il suo popolo, gli italiani.

E forse non è un caso se nel già citato L’Affaire Moro Sciascia scrive: «le Brigate rosse […] sono italiane. Sono una cosa nostra […]. E non che si voglia qui avanzare il sospetto di un rapporto […] con l’altra “cosa nostra” di più antica e provata efficienza: ma analogia tra le due cose ce ne sono. Le Brigate rosse avranno studiato ogni possibile manuale di guerriglia, ma nella loro organizzazione e nelle loro azioni c’è qualcosa che appartiene al manuale non scritto della mafia. […] Per esempio: il sistema per incutere omertà e sollecitare protezione o complicità; sistema in cui ha minima parte la corruzione, una certa parte la minaccia diretta, ma è quasi sempre affidato al far sapere che non c’è delazione o collaborazione di cui loro non siano informati. Il sistema, insomma, di ingenerare sfiducia nei pubblici poteri e di rendere l’invisibile presenza del mafioso (o del brigatista) più pressante e temibile di quella del visibile carabiniere».