Combattere le emissioni di CO2 ha un costo che non si può ignorare: lo sfruttamento del lavoro nei Paesi poveri

Ancora una volta, nella storia dell’umanità, il Terzo Mondo è chiamato a pagare per gli errori del Primo. Mentre la parte ricca del pianeta, infatti, lavora a ritmo serrato – tra vertici, incontri e discussioni – per trovare una soluzione efficace e veloce al cambiamento climatico, la vera cifra distintiva del XXI secolo, a fare le spese maggiori non solo delle conseguenze dell’emergenza ma anche delle possibili risposte sono i Paesi più poveri. Un solo esempio varrebbe su tutti: le auto elettriche.

Presentate come la vera alternativa ai veicoli a combustione, additati come i responsabili dell’inquinamento atmosferico, le auto elettriche hanno vissuto negli ultimi anni un vero e proprio boom: se nel 2020 sono stati venduti 3,2 milioni di esemplari tra veicoli elettrici ibridi plug-in (PHEV) e veicoli elettrici a batteria (BEV), nel 2021 il numero è più che raddoppiato sfiorando i 7 milioni. Sul mercato globale, questi hanno raggiunto una quota del 10,3% che, secondo le stime, si sposterà al 72% entro il 2030 e al 100% entro il 2040.

In termini economici, nel 2021 la cifra media richiesta a un cittadino europeo per acquistare una vettura elettrica è stata di 42.568 euro. Sebbene il costo sia aumentato del 28% nell’arco di 10 anni (dai 33.292 precedenti), per favorire l’acquisto, e quindi una mobilità considerata più sostenibile, i Governi europei hanno messo in campo diversi incentivi per venire incontro ai cittadini. L’incremento di costo ha riguardato anche il mercato statunitense che ha registrato, nello stesso periodo, un +38% da 26.200 a 36.200 euro.

Un ulteriore incentivo all’acquisto delle vetture elettriche sono stati i numerosi studi scientifici che hanno provato che sì, le auto elettriche comportano minori emissioni di CO2. Sebbene rientri tra i gas presenti nell’atmosfera terrestre, in quantità maggiori rispetto a quanta ne viene smaltita dalla fotosintesi clorofilliana, l’anidride carbonica è indicata come responsabile del surriscaldamento della Terra e delle conseguenze che tutti conosciamo. Secondo una ricerca pubblicata nel 2021 dall’Icct (International Council on Clean Transportation) che analizza l’intero ciclo di vita dei mezzi di trasporto – produzione, uso e smaltimento -, una vettura alimentata a gas naturale CNG comporta in media emissioni di CO2 superiori ai 250 g/km, mentre poco sotto questo dato si attesterebbero i veicoli a combustione interna. L’elettrico, invece, comporterebbe il 20% in meno di emissioni nel caso dei full hybrid, del 25-27% nel caso dei plug-in e del 66-69% nel caso dei modelli a batteria.

Dati, dunque, che farebbero ben sperare. Per valutare la reale sostenibilità di questa nuova modalità di trasporto, tuttavia, è necessario dedicare la giusta attenzione a molteplici punti di vista. Se è vero che l’elettrico comporta meno emissioni, è anche vero che la produzione di energia elettrica rappresenta un altro grande nodo della lotta al cambiamento climatico. L’elettricità prodotta da fonti non rinnovabili, infatti, ha una sua impronta di carbonio rilevante, più alta in certe zone del pianeta che in altre. Secondo i report di Climate Transparency, nel 2020 la produzione di un kWh di elettricità in Europa ha comportato l’emissione di 238 grammi di anidride carbonica, 383 grammi negli Stati Uniti, 556 grammi in Cina e rispettivamente 476 grammi e 470 in Corea del Sud e Giappone. Per far sì che i veicoli elettrici siano davvero sostenibili, dunque, bisognerebbe rendere ecosostenibile al 100% anche la loro fonte principale di alimentazione.

Il tema ha già ottenuto una discreta attenzione da parte non solo delle organizzazioni ambientaliste ma anche del grande pubblico, soprattutto nell’ambito del cosiddetto “greenwashing”, ovvero la tendenza delle grandi compagnie a presentarsi come “green” a fronte di attività tutt’altro che sostenibili. L’ultimo grande caso ha riguardato la compagnia energetica italiana Eni, di cui lo Stato detiene il 30% delle azioni. Secondo la denuncia presentata da una serie di associazioni ambientaliste al Punto di contatto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) di Roma, infatti, la compagnia si vanterebbe di un certo impegno verde continuando tuttavia a basare i suoi profitti su petrolio e carbone, in totale disaccordo con gli impegni presi con il piano climatico. La polemica è arrivata anche sul palco dell’Ariston di Sanremo in occasione della 72esima edizione del Festival della canzone italiana per cui Eni, con la campagna “Plenitude”, ha svolto il ruolo di sponsor. «Eni continua a investire sul gas e sul petrolio, è il principale emettitore italiano di gas serra e una delle aziende più inquinanti del Pianeta. Il mondo della musica, della cultura, dello sport e dell’istruzione dovrebbero essere liberi dalla dannosa propaganda dell’industria dei combustibili fossili» – è stata a tal proposito la denuncia di Greenpeace Italia.

Ancora, considerando il già citato ciclo di vita dei veicoli elettrici, e in particolare del loro cuore propulsore, non si può poi non porre sul piatto della bilancia anche lo smaltimento delle batterie che li alimentano. Le batterie più diffuse nel mercato delle auto elettriche sono le cosiddette NMC, batterie a litio (componente che caratterizza tutti i tipi di batterie ricaricabili) e ossido di nickel-manganese-cobalto (LiNiMnCoO2). A differenza delle più classiche batterie a piombo e acido, queste sarebbero più difficili da smaltire e riciclare, tanto che al momento non è stata avanzata nessuna vera proposta in merito. L’Unione europea ha già più volte espresso la sua volontà di varare una normativa che obblighi le case automobilistiche a garantirne il riciclo al 100% ma attualmente solo il 5% delle batterie viene ripristinato. Lo smantellamento e il ripristino dei materiali che le compongono, infatti, comporta un processo meccanico e chimico lungo e complesso che molto spesso si rivela essere più faticoso dell’estrazione di nuovi componenti. D’altro canto, man mano che la domanda aumenta, a fronte di un’offerta come vedremo naturalmente limitata, sempre più big del settore percepiscono l’urgenza di trovare una risposta al problema.

Un ulteriore punto di vista, forse “il” punto di vista, da prendere in considerazione quando si parla di auto elettriche e di batterie, è quello della sostenibilità umana: mentre cerchiamo di curare il pianeta, quanto ci preoccupiamo di cosa comporta per gli esseri umani l’aumento dell’elettrico in circolazione? Negli ultimi tempi, in particolare, è balzato agli onori della cronaca come le stesse batterie utilizzate per far funzionare i veicoli elettrici (e non solo) lascino dietro di loro una scia insanguinata fatta di sfruttamento del territorio e del lavoro minorile e di impoverimento di Paesi in cui il tasso di povertà è già altissimo.

L’estrazione del litio – presente nella maggior parte delle batterie ricaricabili diffuse nel mondo e il cui fabbisogno è aumentato in modo esponenziale nell’ultimo decennio – che avviene nelle saline diffuse soprattutto in Cile e Argentina, ad esempio, è stata indicata tra le cause della siccità, con gravi conseguenze sulla vegetazione e sugli allevamenti di bestiame oltre che sulla popolazione. Il processo, infatti, avviene tramite evaporazione forzata di acqua salata e, secondo le stime, comporta il consumo di 2.000 litri d’acqua per un chilo di litio estratto.

Ben più grave è, invece, il panorama per quanto riguarda il manganese e il cobalto. Il primo, indispensabile anche per la produzione di ferro e acciaio e per le turbine eoliche tanto care alla transizione ecologica, si trova soprattutto in Sudafrica che detiene il 75% della disponibilità globale. Nonostante gli alti livelli di esportazione del minerale – stimata in quattro miliardi di dollari nel 2019 -, tuttavia, il Paese soffre di gravi livelli di povertà, disoccupazione, istruzione, malattie respiratorie legate alla presenza di amianto e disponibilità di acqua potabile. Segno che dei proventi dell’estrazione e dell’export ben poco contribuisce al Pil nazionale.

Ancora più grave è il contesto che prevede l’estrazione del cobalto, il cui maggior produttore è la Repubblica Democratica del Congo. Necessario non solo per la produzione di batterie utile ai veicoli elettrici ma anche per accumulatori di energia, materiale per le turbine e i motori aerei, utilizzato ancora come super-conduttore negli apparecchi tecnologici e per la realizzazione di impianti protesici e di macchinari per le risonanze magnetiche nel settore sanitario, il cobalto è un materiale con basse prospettive di riciclo: secondo le stime, infatti, entro il 2030 la domanda supererà l’offerta rendendo necessario l’approvvigionamento dalle riserve. A preoccupare ancora di più è quanto questo influenzerà gli operatori della filiera, in larga parte minori. Secondo le stime di Unicef, infatti,circa 40 mila bambini sono costretti a lavorare nelle miniere del Katanga meridionale anche per 12 ore consecutive con conseguente abbandono della scuola, spesso a rischio di morte o di infortuni a causa dei frequenti crolli e continuamente esposti a esalazioni tossiche. Il processo di estrazione del cobalto, infatti, è altamente energivoro e richiede continue esplosioni. Il risultato è il rilascio nell’aria di sostanze tossiche considerate causa di malattie respiratorie e malformazioni congenite, oltre che di aborto spontaneo nelle donne in gravidanza. Ancora, il Congo è un ulteriore esempio di Paese povero “ricco”: detiene il 60% del cobalto in un’era in cui il cobalto è tra i minerali più richiesti ma figura tra gli Stati più poveri del pianeta.

Considerando questi e molti altri fattori, dunque, attualmente è impossibile dire se le auto elettriche possano davvero essere una soluzione. Quel che è importante fare, invece, è unirsi agli appelli lanciati dalle ong e dalle associazioni ambientaliste e umanitarie, ovvero che la lotta al cambiamento climatico avvenga nel rispetto e nella tutela dei diritti umani e ricordarsi che non sarà possibile curare la Terra senza curarsi dell’Uomo, laddove è l’Uomo a definire la Terra.