Il magico potere della moda minimalista

Ad ogni tendenza del momento, i nostri guardaroba lievitano di abiti, scarpe, accessori e non sappiamo più dove metterli – alle volte, ne ignoriamo l’esistenza una volta acquistati, con la targhetta in bella mostra. La “fast fashion”, intesa come produzione seriale e delocalizzata di capi usa e getta a prezzi stracciati, non ci aiuta a selezionare con cura il nostro outfit e siamo il più delle volte ignari delle implicazioni economiche, ambientali, etico-sociali che la fast fashion genera a scapito di migliaia di lavoratori (spesso asiatici) sottopagati e non tutelati a livello sindacale.

Il minimalismo, una parola-baule che racchiude in sé varie interpretazioni in architettura e in molti altri ambiti, è tornato in auge anche nell’abbigliamento con Marie Kondo, l’autrice del celeberrimo manuale per disordinati incalliti Il magico potere del riordino. Tra i concetti sviluppati da Kondo, ne primeggia uno in tutto il testo: sbarazzarsi di ciò che non ci serve più.  Dal 2019, è possibile vedere in streaming su Netflix la serie incentrata sugli insegnamenti dell’autrice giapponese (Facciamo ordine con Marie Kondo): protagoniste sono coppie e famiglie che debbono applicare a casa loro quanto hanno appreso dalle lezioni di Kondo. Il successo è stato tale che ne è succeduta una seconda, Scintille di Gioia, la scienza dell’ordine in ambito lavorativo (2021)  Il mantra minimalismo-eliminazione del superfluo è alla base del documentario, sempre su Netflix, “Minimalismo: Il meno è ora” (2021).

Ma in cosa consiste veramente lo stile minimalista? La rinuncia a qualsiasi orpello che possa deturpare la mise semplice cara a questa tendenza, con colori più sobri come il bianco, il grigio, il blu notte, la scelta di capi unisex ormai ritenuti tali come camicie maschili, maglioni vintage della mamma o del papà. Una proposta per non diventare schiavi delle mode passeggere, nella prospettiva che i capi che indossiamo oggi possano sempre tornare trendy un domani. Una sorta di “slow fashion”in contrapposizione alla moda “mordi-e-fuggi made in Vietnam”. Non è una novità. A Coco Chanel si devono alcune semplificazioni del look femminile: la rimozione del (tanto asfissiante!) corpetto, lo sdoganamento dei pantaloni dal guardaroba maschile. L’icona della moda francese e internazionale non si stancava di ripetere che “l’eleganza è ridurre il tutto alla più chic, costosa, raffinata povertà”. E non solo. Stilisti di rilievo negli anni ‘90 avevano già proposto i loro modelli minimalisti: Martin Margiela, Calvin Klein, Ann Demeulemeester, Helmut Lang, Jil Sander.

Il punto è: la moda minimalista è in grado di liberarci dalla più pesante catena del nostro tempo e cioè quella che ci lega in modo morboso agli oggetti? È possibile porre un argine alla smania dell’accumulo e dell’acquisto compulsivo, corroborata dalla propaganda consumistica? Qui sta il nocciolo del problema a cui se ne associa un altro: come capire se quel capo d’abbigliamento, quel paio di orecchini preziosi e un po’ vistosi della nonna sono da buttare? Soltanto perché li abbiamo riposti in un angolo recondito (e non per questo nel dimenticatoio), in attesa dell’occasione giusta per indossarli?

Forse occorre cambiare il focus del discorso: quale valore hanno per noi? Quali ricordi risvegliano nel profondo del nostro animo? Sono domande a cui è difficile rispondere. E richiedono una porzione del nostro tempo, il grande assente della nostra società. Ma come? Non ci sono le tecnologie più avanzate, dagli smartphone alle casse automatiche, a farci risparmiare tempo? Eppure il tempo sembra scarseggiare per riflettere sul senso delle cose, anche di ciò che indossiamo ogni giorno. Non è sufficiente essere “minimal” per ribaltare un paradigma culturale incancrenito nel tempo. La moda minimalista è quindi una tappa, non il punto d’arrivo, di un lungo e faticoso cammino che mette in gioco, in primo luogo, le nostre abitudini assai dure a morire.

Viviamo infatti in un’epoca frenetica, dove la velocità e la quantità hanno preso il posto della qualità in quasi tutti i settori, dove l’obsolescenza programmata è una virtù e non un vizio. Non si dice di ridurre la sobrietà a un approccio pauperistico, del tipo “un paio di scarpe, un vestito e basta”, non si dice di diventare taccagni e scegliere il capo in offerta per non spendere troppo. Ma neanche di essere degli “yes men”nei confronti della moda, per cui tutto ciò che viene indicato dai suoi decani è messaggio evangelico da tradurre in realtà.

Si tratta di assumere una postura seria quando si parla di ridimensionare il nostro inventario, che siano vestiti, libri, mobili. Non perché siamo stati ammaestrati dall’influencer di turno ad essere misurati negli acquisti, ma solo se crediamo davvero che “less is more” – cioè “il meno è di più”- e ne facciamo una vera e propria chiave di volta della nostra quotidianità, nella quale l’essenziale conta di più dell’avere troppo.

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Rispondono allo spirito minimalista le app di Wallapop e Vinted: basta fare una foto, caricarla sull’app e si guadagnano in contemporanea spazio e denaro senza nessuna commissione. Ma ne esistono molte altre: l’italianissima Depop per vendere vestiti usati – la spedizione è a spese del venditore e la commissione è del 10% sulla vendita; e poi Vestaire Collective, per abiti e accessori vintage di marca (anche qui, è prevista una commissione al servizio di Vestaire Collective pari al 20% dell’importo versato dal cliente), l’arcinota Ebay e Shpock.

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Si pensa che il motto del minimalismo “Less is more” sia stato coniato dall’architetto tedesco Ludwig Mies van der Hohe (1886-1969). In realtà, è il drammaturgo e poeta inglese Robert Browning (1812-1889) a inserirlo per la prima volta in un verso del monologo drammatico Andrea del Sarto (1855): «Well, less is more, Lucrezia». Andrea del Sarto (al secolo, Andrea d’Agnolo di Francesco di Luca di Paolo del Migliore Vannucchi), contemporaneo di Michelangelo, è già citato da Vasari come il pittore “senza errori”. Nel componimento di Browning, del Sarto si rivolge alla moglie Lucrezia del Fede.

di: Maria Ester Canepa