“Il ragazzo di Tavullia” oltre lo sport, tra la VR46 Academy e le derapate

Valencia, 14 novembre 2021. Il cielo cristallino e il sole che scalda l’asfalto del circuito Ricardo Tormo. «Dopo il semaforo scatenate l’inferno» esclama concitato Guido Meda durante la cronaca del Gran Premio del Campionato Mondiale di MotoGP. Una giornata campale, storica, non solo per la vittoria di Pecco Bagnaia, ma anche per l’ultimo spettacolo di Valentino Rossi. Il “Dottore” ha disputato la sua ultima gara, chiudendo la carriera nel segno del46”, ovviamente. Rossi scende dalla moto durante la 46esima settimana dell’anno, lasciando in testa l’allievo Bagnaia, che nel casco riporta la scritta “Che spettacolo”, affiancata dal numero fortunato. Insomma, Vale ne ha fatta un’altra delle sue, rendendo il suo commiato una festa, tra pubblico, squadre e piloti – anche i suoi rivali – intenti ad applaudire e gioire. Una conclusione che rispecchia il suo stile, scanzonato e goliardico.

Con l’annuncio del suo addio, Valentino Rossi ha scatenato migliaia di reazioni e commenti che, nel bene e nel male, mostrano la caratura del “ragazzo di Tavullia” che ha avuto il merito di portare il motociclismo a un livello di notorietà mai raggiunto prima.

Il fenomeno Rossi è stato raccontato in centinaia di modi diversi. Vale ha vinto tutto, è amato da tutti (o quasi). Ma cosa lo fa amare? Cosa lo rende “così campione?” Le sfide vinte, sì, – e parliamo di 9 titoli iridati – ma anche le sfide perse, come i Mondiali sfumati nel 2006 e nel 2015. Senza contare l’innata capacità comunicativa, le gag memorabili a fine gara, la vicinanza alla “sua” gente e ai “suoi” ragazzi attraverso la VR46 Academy, la scuola per  giovani piloti che ha fondato nel 2013.

E pensare che l’avventura sportiva del pilota che ha fatto la storia del Motociclismo negli ultimi 26 anni è partita da un dubbio. «Siamo sicuri che sia proprio questo ciò che dobbiamo fare?». È questa la domanda che papà Graziano, anch’egli pilota motociclistico, si pone alla fine della prima fase della carriera del figlio, dopo una gavetta fatta di go-kart e Minimoto. Se riavvolgiamo il nastro e torniamo indietro al 1981, vediamo un piccolo Valentino di appena due anni già in sella a una moto con le rotelle. Che, però, non servono. «Un po’ spinto dalla paura del genitore, e per evitare che si facesse male da subito montai sulla moto delle rotelle laterali. Ma mi accorsi ben presto che ne potevamo fare tranquillamente a meno; lo vedevo abbastanza sicuro in sella e comunque arrivava bene a toccare con i piedi per terra. Quello fu l’inizio» ricorda Graziano in un’intervista a Moto Sprint. Difficile tenere a bada quel baby uragano,e le coronarie di mamma e papà, quindi i genitori optano per le quattro ruote dei go-kart, con i quali Valentino fa il suo esordio nelle gare a 8 anni. I go-kart, però, cominciano a pesare sulle finanze della famiglia, così si ritorna alle due ruote, quelle delle Minimoto. Il debutto sulle 125 SP è in perfetto stile Rossi, pieno di cadute e di risalite. Valentino cade dopo 150 metri, alla prima curva del tracciato che svolta a sinistra. Si rialza e dopo un paio d’ore è già di nuovo in sella, ma poi, prima curva a sinistra ed è di nuovo a terra. Da qui il punto interrogativo di Graziano. Sarebbe banale dire che quel quesito ha trovato risposta ma in questo piccolo sunto degli esordi del “Dottore” è racchiuso uno dei motivi per cui è tanto amato: Valentino Rossi non è nato “Dottore”, non è nato campione, quando ha iniziato era un ragazzino come tanti. E forse lo è rimasto, con quell’espressione da eterno bambino un po’ simpatico, un po’sornione, un po’ da prendere a schiaffi, un po’ da proteggere.

Nell’immaginario collettivo c’è il pilota che corre veloce e che ottiene il primo successo iridato a 17 anni a Brno, nel Gran Premio della Repubblica Ceca del 1996 e che l’anno seguente, sullo stesso circuito, vince il suo primo titolo mondiale nella classe 125. Ci sono i duelli con gli avversari illustri come Casey Stoner, Jorge LorenzoMarc Márquez, ma soprattutto Max Biaggi, con cui si è punzecchiato parecchio dentro e fuori la pista, fino al clou in Giappone, quando  i due diedero vita a uno scontro oltre i limiti del regolamento tra sorpassi e controsorpassi e un dito medio mostrato da Rossi dopo l’ultimo contatto.

Anche nelle contese rimane l’ironia, la leggerezza e la sfrontatezza che Valentino mostra nelle sue ormai celebri gag a fine gara, quelle che gli hanno permesso di imporre il suo estro creativo e hanno contribuito ad alimentare la sua popolarità anche al di fuori dei confini nazionali. Come quella del 1997, a Donington, non lontano dalla foresta di Nottingham, dove si è vestito da Robin Hood con tanto di arco, dopo aver vinto la gara delle 125 nel GP di Gran Bretagna. O  ancora, la scenetta del pit stop al bagno chimico riservato ai commissari a Jerez, in Spagna, in occasione del secondo titolo mondiale, replicata dieci anni dopo. Anche se la “messa in scena” più nota rimane quella nata per celebrare il secondo alloro iridato, con l’Angelo Custode munito di casco che sfreccia sull’Aprilia insieme a Rossi al grido di “Do volt vord cienpion” (“Due volte campione del mondo”). Una scelta che mostra anche il gusto per l’autocitazione di Valentino: per celebrare il primo titolo nel Motomondiale si era presentato in pista con la sagoma di un gigantesco numero 1 giallo con la scritta “Rossifumi Vord Cienpion”.

Già, “Rossifumi”. Come dicevamo, il Dottore non è nato Dottore. “Rossifumi” è stato il primo soprannome del pesarese, ispirato al pilota Norifumi Abe che nel 1994, a soli 18 anni, riuscì a iscriversi al Gran Premio del Giappone solo come wild card, un permesso di partecipazione a una competizione sportiva accordato a concorrenti che normalmente non ne avrebbero diritto. Ma il giovane sorprese tutti: in qualifica si piazzò settimo e durante la gara combatté strenuamente con i veterani Mick Doohan e Kevin Schwantz. Ma poi scivolò a due giri dalla fine. Si capisce perché il pilota italiano si è affezionato tanto alla figura del giapponese, al quale ha dedicato la vittoria al Campionato MotoGP del 2008, avvenuta proprio in terra nipponica un anno dopo la scomparsa di Norifumi Abe, morto a causa di un incidente stradale. Un inizio e una fine che non rispecchiano la narrazione epica dell’eroe senza macchia e che fanno breccia nel cuore di Valentino, che però ha vinto tanto. Sta qui il dualismo di Rossi: il ragazzo di provincia, il combinaguai un po’ troppo avvezzo al rischio, lo scavezzacollo che a un certo punto, inaspettatamente,  prende il mondo in mano e lo rigira a suo piacimento, fino a sbaragliare la concorrenza. Fino a dare la possibilità ad altri ragazzi come lui di fare quello che ha fatto lui.

Nel 2013 insieme all’amico d’infanzia Alessio “Uccio” Salucci e ad Alberto “Albi” Tebaldi, Valentino Rossi dà vita alla VR46 Riders Academy, una scuola per far crescere le leve del motociclismo. La location è l’ormai celebre Ranch di Rossi, situato nella periferia di Tavullia, nelle Marche, nato come sorta di luna park in cui diversi piloti si divertivano a derapare (far “scivolare” la moto di lato) sulle strade sterrate del pesarese. Da lì, l’idea di dare concretezza a quel vivace movimento che si era creato intorno al ranch partendo da un assunto molto semplice, così sintetizzato dallo stesso campione: «adesso vediamo se quello che facciamo per me funziona anche per gli altri». Lo step successivo è del 2014, quando dall’unione di intenti di Sky Italia e il pilota marchigiano nasce lo Sky Racing Team VR46.Ad oggi, i piloti dell’Academy sono presenti in tutte e tre le classi del Motomondiale. Tra questi,  Francesco “Pecco” Bagnaia, Franco Morbidelli e Luca Marini, fratello minore di Rossi, sono in MotoGP. Morbidelli nel 2017 si è laureato Campione del Mondo Moto2 (la classe intermedia nata in sostituzione della 250), mentre Bagnaia ottiene lo stesso titolo nel 2018. Insomma, qualcosa deve aver funzionato.

Il personaggio “Valentino” è sicuramente controverso, segnato dalla strafottenza della velocità e dalle goliardate da eterno guascone, ma su una cosa ha messo d’accordo tutti. È stata lui la vera rockstar delle due ruote degli ultimi anni, l’unico pilota ad aver vinto in tutte e tre le categorie. Rossi sembra far finta di non sapere di essere considerato una “leggenda vivente”, e invece lo sa e lo faceva notare anche in pista con quelle curve, taglienti e pericolose come lame, prese come se la vertigine non facesse paura. Ma sono soprattutto il talento, il sacrificio, la destrezza e il coraggio che lo hanno fatto amare e lo hanno reso un mito trasversale ed esportabile all’estero. Che gli sono valse quel soprannome, “The Doctor”, perché, come disse lui una volta, in Italia ti chiamano “Dottore” quando sei bravo a fare qualcosa. Il Dottore ha fatto la “festa a tutti”, fino al ritiro, quando ha chiosato, laconico, «sono triste ma mi sono divertito».

di: Francesca LASI

Box – Tutti i numeri di Valentino Rossi

Nei suoi 26 anni di carriera, Valentino Rossi ha disputato 432 gare, di cui 115 vinte. Ha conquistato 235 podi e collezionato 96 giri veloci in gara. Nove i titoli Mondiali ottenuti. Il primo nel 1997 nella classe 125 su Aprilia, il secondo due anni più tardi, nel 1999, in classe 250. Il terzo arriva nel 2001 nella classe 500 in sella alla Honda. Sempre con la Honda vince per due anni di fila, nel 2002 e nel 2003, nella categoria MotoGP. Del 2004 è il primo mondiale vinto con la Yamaha nella classe regina: il successo si ripeterà nel 2005, nel 2008 e nel 2009. Nessuna vittoria, invece, nei due anni passati con la Ducati, dal 2011 al 2012. Anche quando ha avuto la possibilità di sfoggiare il numero 1 in quanto campione in carica, il Dottore è sempre rimasto fedele al 46: questo era il numero utilizzato nel Motomondiale prima dal padre, poi dal pilota giapponese Norifumi Abe, di cui è sempre stato grande fan.