Le elezioni consegnano la vittoria al pluripremier Netanyahu, ma il vero vincitore è il partito di estrema destra confessionale di Ben Gvir. Che gioca su terrorismo e tensione sociale
I suoi seguaci ballano abbracciati, si alzano cori nazionalisti carichi di retorica e di rivalsa. La sua kippa sormonta il viso rotondo e soddisfatto, i caratteristici occhiali dalla montatura tonda. Un mese prima era stato ripreso mentre minacciava con la pistola in pugno una manifestazione palestinese a Gerusalemme. Ma la violenza, gli atti plateali, teatrali e aggressivi sono il lessico di Itamar Ben-Gvir, da quando strappò nel 1995 la statuetta della Cadillac di Yitzhak Rabin affermando che “siamo arrivati alla sua macchina, arriveremo anche a lui” (Rabin sarebbe stato ucciso pochi mesi dopo da un ultranazionalista sionista). È Gvir l’uomo immagine dell’ultranazionalismo religioso, il membro della Knesset che per poter correre alle elezioni tolse dal proprio soggiorno il ritratto del terrorista ultraortodosso Baruch Goldstein, responsabile di un attacco feroce in cui uccise 29 palestinesi. E ora è anche il volto dell’Israele che esce dalle urne nel giorno di Ognissanti.
Ma guardando dentro il tessuto sociale di Israele, davvero tutto è rimasto immobile come sembra? E quali sono le motivazioni dietro questo voto? Secondo Sergio Della Pergola, statistico e demografo italiano naturalizzato israeliano che insegna all’Università ebraica di Gerusalemme, parte della responsabilità è da attribuire al senso di pericolo accresciuto da recenti attacchi palestinesi: «più si cerca di fare un atto aggressivo contro lo stato di Israele e peggio è; non è che da ciò esca un maggiore pacifismo, ma si verifica esattamente il contrario. In questo senso è un atto autolesionista. Il voto raccolto da questo partito ha avuto un successo clamoroso e inaspettato per via degli atti violenti verificatisi negli ultimi mesi. Si tratta quindi di una reazione emotiva e di impazienza, di insofferenza di fronte a questi atti di terrorismo». Come commentano alcune fonti, tra cui il quotidiano israeliano Haaretz, il problema è che è cambiato l’antagonista, ma le Forze di Sicurezza (Idf) non hanno cambiato strategia. «La novità di questo nuovo gruppo è che non è organizzato ma spontaneo, si tratta di persone singole che compiono azioni lampo come accoltellamenti senza rientrare in un’organizzazione già nota come Hamas o Jihad»,spiega Della Pergola. Al 23 novembre 2022 sono stati uccisi due membri dell’Idf e almeno 26 civili, di cui tre bambini. Escludendo i casi che coinvolgono militari, le vittime derivano in larga parte o dall’aumento della tensione tra l’enclave di Gaza (detta anche Striscia di Gaza) e Israele (ad esempio durante l’operazione anti Jihad “Breaking Dawn”) o da aggressioni con arma bianca.

Il nuovo gruppo in questione si chiama Fossa dei Leoni. Secondo l’intelligence israeliana sarebbero responsabili di diversi attacchi, di cui alcuni nella zona calda di Hebron, un’area già ostica da controllare a causa dei frequenti attriti tra la popolazione e i coloni israeliani, che spesso non rispondono nemmeno all’autorità dell’Idf e creano continui motivi di tensione con i palestinesi delle alture. In risposta a questi attacchi la strategia dell’Idf è stata simile a quella adottata per altri: bloccare i check point, chiudere i campi profughi e le città e rastrellarli alla ricerca dei complici. Una metodologia illegale sotto parecchi aspetti, in primo luogo il fatto che buona parte degli arresti sono arbitrari e agli indagati spesso non vengono garantite le più elementari norme di tutela del sospettato e dell’indagine: presunzione di innocenza, diritto a un equo processo con una giuria di pari, tempi certi e accuse formulate e dichiarate. Non solo, i numeri degli attentati e dei morti palestinesi causati da questi rastrellamenti raccontano tutto il danno di questa metodologia fallimentare: sarebbero almeno 136 i palestinesi uccisi in Cisgiordania, di cui meno di un quarto trovato effettivamente responsabile di atti terroristici o di favoreggiamento di eventi terroristici. La chiusura dei campi profughi rende la vita in queste “città nelle città”, già di per sé difficile, insopportabile.
Il target di queste azioni speciali è cambiato, ma non la strategia di contenimento; e questo è stato un grosso errore. Se una volta l’Idf si trovava davanti gruppi consolidati, come la resistenza vicina al partito Fatah prima e quella del partito Hamas dopo, oggi le forze di difesa si trovano davanti una nuova “organizzazione disorganizzata”. I Leoni agiscono come gruppi di cani sciolti, senza un nucleo centrale coordinato. Ai funerali dei martiri e alle manifestazioni indossano ora la maschera di Guy Fawks, ora la keffiah; sono secolaristi e non promuovono l’Islam locale come Jihad. Anche modalità e provenienza geografica sono diverse: Hamas e Jihad, la costola più estrema del partito, effettuano lanci di missili generalmente dalla Striscia di Gaza, o utilizzano il metodo dei “palloni incendiari” per dare fuoco a vaste aree secche oltre il muro dell’enclave. I leoni della Fossa invece vengono in larga parte dai campi profughi di Nablus, Jenin e Shuafat, in Cisgiordania; luoghi molto più vicini ai confini e quindi più prossimi a colonie e avamposti.
Nablus è la più importante di queste zone, insieme a Hebron. Chi ha camminato sul selciato lisciato dai passi lo sa che cos’è Nablus per la storia della resistenza palestinese. Città del sapone, che viene tagliato in parallelepipedi precisi e mescolato con essenza di rosa, spezie, fango del Mar Morto. Nablus, botteghe di commercianti su strade strette dove giocattoli di plastica made in China si mescolano all’olio, al cumino, a keffiah di ogni colore, un ordito e una sfumatura diversi per ogni città palestinese. Nablus, soprattutto, città ferita: crocevia di culture e popoli rasa al suolo dai bombardamenti, che annientarono le fabbriche di sapone (ne sopravvivono due su 30); una signora circondata da una cintura di campi profughi abitati dai mille cognomi della Nakba, un luogo dove in qualsiasi strada, a qualsiasi crocicchio, se alzi lo sguardo incontri quello di un ragazzo o una ragazza, che ti risponde sorridente da un manifesto funebre. A volte erano affiliati a un gruppo terroristico, a volte erano dissidenti; a volte solo passanti sfortunati, al posto sbagliato nel momento sbagliato. Sono i volti dei morti di Nablus che continuano a guardarla cambiare sotto i loro occhi, che restano come un monito silenzioso sulle teste di chi passa tra le bancarelle di legni intarsiati e il profumo del knafeh. Dove altro poteva nascere, un movimento di ragazzi disillusi – anagraficamente parlando i Leoni sono giovani – cresciuti a rabbia e rassegnazione?
Ma non sono solo i Leoni a preoccupare il bacino elettorale al di là del muro; allora cosa ha spinto gli elettori, nelle urne delle comunità ebraiche, a questa scelta estremamente conservatrice? La risposta potrebbe arrivare osservando la composizione della popolazione ebraica ultraortodossa e le sue oscillazioni da un partito all’altro del ramo destro della Knesset; soprattutto indagando le intenzioni di voto della sua componente più giovane. «Una parte della popolazione ultraortodossa e con un forte credo religioso – spiega Della Pergola – fa parte di famiglie molto numerose. A un certo punto i ragazzi diventano elettori e la loro presenza nel tessuto elettorale aumenta più che proporzionalmente. C’è da dire che questi gruppi votano per partiti che riflettono molto ideali e bisogni di questa popolazione; ma molti giovani oggi tendono a non votare più per i partiti tradizionali religiosi – continua – ma per questo partito ultranazionalista, “Il sionismo religioso”, che si ammanta di una certa religiosità e si definisce sionista. Anche se su entrambe le definizioni, religioso e sionista, ci sarebbe da discutere». In seno alla comunità ultraortodossa israeliana ci sono infatti diversi partiti che fanno riferimento alla costellazione delle correnti confessionali ebraiche; Otzma Yehudit, o appunto “Il sionismo religioso”, riesce a far convergere su di sé gli elettori che non si riconoscono più in questa galassia di micropartiti. «Così, questi voti, che nascono in seno ai movimenti e partiti di stampo ultra ortodosso, convergono verso la destra ultra nazionalista».
Oltre alle componenti confessionali, che determinano le differenze tra questi partiti cui una volta si rivolgevano gli ultraortodossi (c’è ad esempio chi si definisce sionista e chi no, chi rifiuta una lettura secolare della Torah e chi invece vorrebbe che la Parola trovasse parte nella legislazione) sussistevano una volta anche profonde differenze di tipo geografico. Riassumendo grossomodo la miriade di identità converse in queste territorio, si poteva dividere la popolazione in ashkenaziti (ebrei della diaspora europea, tra cui anche quelli dei paesi russofoni e dell’ex blocco sovietico), sefarditi (ebrei della diaspora mediterranea, quindi provenienti anche dai paesi del Maghreb) e ultimi in ordine di tempo i mizrahi (ebrei della diaspora medio orientale, che provengono ad esempio dai Paesi del Golfo e in parte sono profughi della Guerra del Golfo e della Rivoluzione degli ayatollah iraniana). I quotidiani israeliani ancora in queste elezioni davano per scontato che molto avrebbero fatto queste differenze, e Haaretz dava per certo che ago della bilancia sarebbe stato ancora una volta il partito del ministro del Tesoro uscente, Avigdor Lieberman. Il suo partito Israel Beytenu (Israele Casa Nostra) ha di solito raccolto una buona fetta del voto degli ashkenaziti russofoni, e più volte è stato a lui che Netanyahu è ricorso per formare un nuovo governo, scontrandosi però con il rifiuto di Lieberman di convivere con partiti non secolari (Israel Beytenu vuole l’obbligo di leva per gli ultraortodossi, misura a cui i partiti più religiosi si oppongono). A dispetto delle proiezioni, non è stato così.
«I russofoni sono una grossa fetta della popolazione israeliana – spiega Della Pergola, – rappresentano il 20% della popolazione ebraica, un grosso nucleo, hanno effettivamente un partito che è quello di Liebermann che ha raccolto una buona fetta degli immigranti proveniente dalla ex Unione Sovietica. Ma poi con l’integrazione dei migranti della diaspora non si rende più necessaria una lega etnica». In pratica, spiega il professore: «il cittadino non rimane tutta la vita un immigrante, anche se c’è un residuo che ancora vota per Liebermann: infatti ha ottenuto almeno 6 deputati, ma va detto che in precedenza aveva ottenuto anche 20 seggi quindi è in costante calo. Questo perché si assottiglia la necessità di sentirsi immigrato straniero». Anche Lieberman se n’è accorto e ha cercato di correre ai ripari con un’“offerta” elettorale più ampia: «oggi anche il suo partito è trasversale, con linee in parte nazionaliste in parte liberali a seconda del tipo di argomenti -maanche- molto antireligioso: si pone come contrappeso rispetto a quelli ultra religiosi».
«In generale – conclude Della Pergola – più russi e più immigranti votano per la destra più che per la sinistra, ma non per un partito in particolare. È completamente sfumata – la differenza tra ashkenaziti e sefarditi – anche se la componente sefardita è più orientata verso la destra, mentre altre correnti di provenienza europea o americana sono più orientate per il centro e per la sinistra. Esistono ancora delle differenze, molto visibili, legate alla classe sociale». In questo senso nei cambiamenti del corpo elettorale israeliano sembrano riecheggiare quelli di altri Paesi. «Likud raccoglie voti tra i ceti medio bassi, mentre il centro e la sinistra, come ad esempio Meretz, attingono voti del ceto medio o medio alto. Anche se sembra un paradosso, oggi è esattamente il contrario di quello che si potrebbe pensare: una volta, normalmente, un industriale votava a destra, un operaio a sinistra. Oggi le cose sembrano invertite». Le similitudini con il voto italiano però finiscono qui. «La situazione è differente – puntualizza Della Pergola, – le persone votano le politiche, votano i personaggi. Netanyahu su alcuni esercita un certo fascino: c’è chi lo consiglia il migliore leader possibile, altri lo detestano; ci sono diverse sensibilità politiche». Al primo posto nelle preoccupazioni degli israeliani, secondo il demografo: «il costo della vita, oltre appunto alla sicurezza personale dei cittadini di fronte agli attacchi». Due temi che coinvolgono profondamente le comunità ultraortodosse in generale, e gli ultranazionalisti delle colonie in particolare; considerato anche che sono le comunità che vivono nei contesti di più alta tensione sotto questo profilo.
Il sole dei Morti tramonta sulla Terra Santa, e l’ombra si allarga sul volto sorridente di una martire a Nablus, sulle spalle curve di un pastore di AtWani; ma anche sulla soglia delle sinagoghe, dal Yad Vashem fino alla Via Dolorosa e al quartiere armeno di Gerusalemme. E un’altra ombra cala su una terra occupata e contesa tra due popoli sconfitti dalla Storia. Un’ombra che non è detto che sarà cacciata dal sole.