Un racconto del nostro Paese nel tempio newyorkese del Moderno

Nell’incessante tributo pagato all’arte italiana dai musei del globo, non tutti gli espositori esteri hanno l’audacia di riscoprire il contributo nostrano al di fuori dei pilastri classici e degli sfarzi rinascimentali, andando al cuore della Modernità italiana. Il Novecento artistico in Italia è infatti denso di personalità dalla caratura internazionale ma richiede una lettura accorta fra le intricate trame di contraddizioni e commistioni che uniscono, senza necessariamente fondere, i vari puntini.

Questa Modernità italiana trova una rinnovata gloria nei corridoi del Museum of Modern Arts di New York, dal 1929 fra i luoghi sacri dell’arte mondiale, che abbraccia con curiosità esponenti e correnti dal 19esimo secolo ad oggi. Basta una passeggiata fra i suoi corridoi per respirare l’euforia post-bellica, la lotta politica e la critica sociale del contesto italiano, tradotte in sperimentazioni dei materiali, riscrittura dei canoni formali e nuovi linguaggi figurativi.

È proprio al Moma che ritroviamo uno dei più rappresentativi apprezzamenti internazionali di una figura emblematica dell’Arte Povera e Concettuale insieme a Fontana e Manzoni come Alighiero & Boetti, che sdoppia il suo nome così come fa con la realtà, sospesa fra pensiero e materia. Qui troviamo ad esempio il suo Dossier Postale, ostico ma denso della sua “grammatica”; si tratta di cartellette grigie contenenti fotocopie di buste inviate dall’artista a indirizzi volutamente errati, rispedite indietro e re-inoltrate a mittenti fittizi. Più che un’opera d’arte: un contenitore asettico per un’esperienza della mente che, scorrendo l’elenco, irrora i codici postali di valenze umane, in un viaggio sentimentale nel tempo e nello spazio.

Sempre al Moma ci sono anche le sue Mappe, che ricalcano i confini politici sostituendo le linee continue, a tratti rette, con i ricami di un arazzo. Un pregiato manufatto realizzato nei laboratori afghani che non è solo un tributo alla sapienza artigianale, ma smaschera i limiti della prospettiva umana. La materia, in questo caso, è la vera foriera del messaggio: povero e concettuale.

Eppure sulla Sixth Avenue c’è spazio anche per Pasolini che dal concettualismo, così come da altre mode dei suoi tempi, si distanziava guardingo e che per la modernità nutre una passione quantomeno conflittuale. Nel 2012 il Moma ha dedicato ai film dell’intellettuale un’intera retrospettiva con installazioni immersive di alcuni dei suoi capolavori più visionari e potenti, compreso il controverso Salò o le 120 giornate di Sodoma. Nel suo crudo realismo, la povertà non evoca un concetto, bensì un’accorata critica, sempre sociale, con lo scopo di smascherare ma anche comprendere.

L’interesse del Moma per il realismo modernista italiano emerge anche dall’accurata ricostruzione oltreoceano dello sguardo severo di Morandi, de Pisis e Guttuso. Proprio il pittore di Bagheria, esponente di spicco del Fronte Nuovo delle Arti che ha segnato gli anni ‘70, trova nel museo un ampio tributo. Il pennello di Guttuso rifiuta i formalismi accademici e i canoni tradizionali in favore di un prorompente intento sociale. Del resto, l’impegno politico pervade la vita di molti artisti dell’epoca, compreso il pittore siciliano che per due volte fu senatore della Repubblica con il Pci di Berlinguer. Guttuso è stato protagonista di diverse esposizioni al Moma, a testimonianza di come il suo messaggio politico intrinsecamente radicato nel panorama italiano del fascismo abbia attraversato anche l’Atlantico.

La connotazione sociale della sua arte trova espressione in un colore denso e puro, slegato dai vincoli delle forme, libere nello spazio. «Esprimersi con assoluta sincerità ed in comunità di spirito – scriveva nei suoi Discorsi sulla sinceritàprimitivi, per necessità, perché nati in un’epoca di inizio». Una politica nella quale si ritrovano diversi suoi coevi ed estimatori, da Pasolini a De André a Sciascia, e una lettura che attraversa tutta la corrente realista intersecando pittura, letteratura e politica.

Similmente, spicca fra le collezioni permanenti del Moma anche Emilio Vedova. Precursore di diversi linguaggi artistici, il ribelle veneziano ha un respiro tutt’altro che “domestico”: le sue figure si ispirano al manierismo del conterraneo Tintoretto ma prendono poi forma all’interno di in un continuum che attinge all’Espressionismo tedesco e ammicca a un alfabeto geometrico picassiano.

L’unicità del suo stile, cui la definizione spesso attribuitagli di “fratello italiano di Pollock” non rende sufficiente giustizia, è anche in questo caso fortemente radicata nel contesto politico italiano; anche Vedova, come altri esponenti di Corrente prima e del Fronte Nuovo delle Arti poi, vive in prima persona i tumulti dei suoi tempi, dalla Resistenza ai moti Sessantottini. Al Moma c’è spazio tanto per il Vedova più politico, come quello del ciclo dedicato alla Spagna di Franco, quanto per quello più informale e astratto degli Spazi inquieti.

La sensibilità del Moma matura anche un nutrito interesse per Modigliani. Se infatti non dovrebbe stupire che firme italiane dal calibro internazionale trovassero posto nel Museo, non è altrettanto scontato pensare all’interesse mostrato, fin dagli anni ‘30, per l’arte di Amedeo Modigliani che fino a pochi anni prima veniva censurata nelle gallerie europee per l’impiego spregiudicato del nudo. Lo sfortunato scapigliato non ebbe infatti grandi riconoscimenti in vita, anche a causa di una morte precoce a soli 35 anni. È proprio al Moma che troviamo una ricca selezione delle sue opere – fra tutte, il Nudo sdraiato del 1919.

Fra i corridoi espositivi non manca poi un sincero tributo ad Alberto Burri, con uno dei 6 elementi di grandi dimensioni della serie Nero Plastica del 1963: è l’unico museo straniero a vantarne l’esposizione. Qui l’astrazione dell’artista tocca forse il suo apice. Affascinato dalla plastica, Burri prende in prestito al consumismo di massa il suo materiale prediletto e lo tratta con una fiamma ossidrica. Le contorsioni del film polimerico, reso docile e allo stesso tempo libero di muoversi, escono così dalla tela ed entrano nello spazio con moto anarchico e irregolare, per poi fissarsi in brillanti giochi di luce. Un omaggio dovuto, vista l’influenza dell’estetica polimaterica di Burripoi emersa in vari artisti statunitensi, fra tutti il pittore e fotografo Robert Rauschenberg.

È anche attraverso questi percorsi espositivi che l’arte novecentesca italiana diffonde ancora oggi il suo verbo. Per comprendere in pieno il suo messaggio, però, è necessario squarciare il velo di perplessità che molte di queste opere suscitano e proiettarsi nella loro dimensione, tragicamente ostile all’uomo moderno e ostinatamente devota al valore dell’immaginazione.

Box

Oltre ai Concetti spaziali, i celeberrimi tagli con i quali Fontana ha “costruito, non distrutto”, il Moma ospita anche la sua Crocifissione del 1948. Qui lo squarcio moderno apre anche una superficie tridimensionale come quella di una statua, lasciando che sia la materia organica, viva e non finita.

Al quinto piano del Moma è custodito anche un cimelio della scuola Metafisica italiana di Giorgio de Chirico: è il Canto d’amore, già pienamente surrealista nella sua sovrapposizione senza soluzione di continuità di due realtà. Il messaggio del quadro è tutto da cogliere: il vero stupore è scoprire che il senso di quest’arte è più racchiusa nel percorso mentale di esplorazione che non nella tela stessa.