Affinità e divergenze tra Mario Monicelli e Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno intorno alla speranza non come promessa di felicità, ma anelito di lotta
«La speranza è una trappola inventata dai padroni. La speranza è quella di quelli che ti dicono che Dio… state buoni, state zitti, pregate che avrete il vostro riscatto, la vostra ricompensa nell’aldilà. Intanto, perciò, adesso, state buoni: ci sarà un aldilà. Così dice questo: state buoni, tornate a casa. Sì siete dei precari, ma tanto fra due o tre mesi vi riassumiamo ancora, vi daremo il posto. State buoni, andate a casa e… stanno tutti buoni. Mai avere speranza! La speranza è una trappola, una cosa infame inventata da chi comanda» sosteneva nel marzo 2010 Mario Monicelli.
Una visione della speranza non dissimile, per certi aspetti, da quella di Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno. Il filosofo tedesco – con una visione fortemente influenzata dagli orrori del nazismo e dalla sua decisa critica alla società capitalistica – valuta la speranza in chiave dialettica.
Secondo Adorno la speranza è residuale, una potenzialità non ancora soppressa completamente dalla logica della distruzione e dalla reificazione (secondo György Lukács, pensatore centrale per la Scuola di Francoforte, il superamento della reificazione intesa come trasformazione delle persone in oggetti, merci, è possibile solo tramite la coscienza del proletariato) e la speranza offerta come ideologia, con la promessa di una redenzione religiosa, è utile solo a trasformare la realtà, a rendere le persone più passive e pronte ad accettare supinamente lo status quo senza combattere.
Uno dei più famosi aspetti della speculazione di Adorno è, non a caso, la sua dialettica negativa in aperta critica alla dialettica hegeliana e che pone al centro il residuo che sfugge alla concettualizzazione che modella la comprensione della verità come intrinsecamente frammentata e resistente a sistemi di pensiero totalizzanti. Inoltre, la “negazione determinata” nel pensiero di Adorno mette in luce le contraddizioni e i limiti stessi dei concetti e delle realtà esistenti. Il filosofo critica la tendenza di ridurre il particolare all’universale e nella sua dialettica si riflette la visione di speranza, una visione che va di pari passo con lo scetticismo riservato alle nozioni semplicistiche di progresso e alla fiducia di un futuro migliore derivante da avanzamenti tecnologici o sociali, tesi che viene esposta cristallinamente nel suo Minima Moralia – volume pubblicato nel 1951 ma iniziato a scrivere nel 1944. Secondo Adorno questo ottimismo miope spesso maschera forme sottostanti di dominazione e sofferenza, in uno scenario del genere le nozioni tradizionali e affermative di speranza possono diventare ideologiche, servendo a pacificare gli individui e a riconciliarli con una realtà ingiusta. La critica riservata a una speranza così ingenua e strumentalizzata si pone al centro della critica della società capitalistica e in questa analisi risuona l’eco del divario tra le promesse della modernità e i suoi risultati effettivi di chi vive la società borghese post-rivoluzione industriale.
Non solo, però.
Secondo alcuni studiosi quella di Adorno è una “speranza radicale”, la critica alla società e alla speranza presente non inficia una fiducia in una speranza futura che non sia fiducia incondizionata e ottimista in senso più convenzionale, ma una speranza che riguarda una trasformazione fondamentale della società, del mondo. Riconoscere la natura catastrofica del presente, dunque, potrebbe contenere anche un solo barlume di speranza, questo perché la negatività adorniana non è nichilismo e vede il potenziale rivoluzionario di una seppur fragile speranza.
L’ultimo aforisma di Minima Moralia, il numero 153, recita: «la filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana la redenzione del mondo: tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a posteriori e fa parte della tecnica. Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le due fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica». Si tratta dell’unica prospettiva possibile per comprendere il mondo e la sua potenziale trasformazione, uno sguardo redentivo che non deve essere inteso teologicamente, ma come atteggiamento critico e utopico in grado di disvelare il mondo per quello che realmente è.
La speranza dunque in Adorno è un risveglio delle coscienze, una speranza scevra da ingenuità e ottimismo, scevra di passività, ma una speranza di lotta, che non può che partire dal riconoscimento dell’ingiustizia e della sofferenza. Non una promessa di felicità, dunque, ma un auspicio di ribellione. Come per Monicelli che, in quella stessa intervista del 2010, auspicava “quello che in Italia non c’è mai stato: una bella botta, una rivoluzione che non c’è mai stata in Italia. C’è stata in Inghilterra, c’è stata in Francia, c’è stata in Russia, c’è stata in Germania, dappertutto, meno che in Italia. Quindi ci vuole qualche cosa che riscatti veramente questo popolo che è sempre stato sottoposto. Sono 300 anni che è schiavo di tutti e, quindi, se vuole riscattarsi. Il riscatto non è una cosa semplice: è doloroso, esige anche dei sacrifici, se no vadano in malora, come già stanno andando da tre generazioni”.
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