Nel 1949, Pannunzio decise di pubblicare su Il Mondo alcuni stralci di “1984”, l’ultimo romanzo di Orwell. Le reazioni furono potenti, da Croce a Togliatti
Quando George Orwell pubblicò 1984 nel 1949, il romanzo scosse il mondo con una lucida e inquietante denuncia dei totalitarismi, che spaziava ben oltre la critica ai regimi esistenti. Non si trattava solo di un attacco al comunismo sovietico o al fascismo, ma di una riflessione universale sul controllo delle masse, la manipolazione della verità e l’annullamento dell’individuo di fronte a uno Stato onnipotente. Era un’opera destinata a risuonare profondamente anche in Italia, un Paese che, dopo il fascismo e nel clima teso della Guerra Fredda, stava cercando la sua identità culturale e politica.
Non sorprende quindi che Il Mondo, la raffinata rivista culturale fondata da Mario Pannunzio nel 1949, abbia scelto di pubblicarne alcuni estratti. Il Mondo rappresentava un punto di riferimento per l’intellettualità liberale italiana, impegnata nella difesa della democrazia e nella critica dei totalitarismi, sia di destra che di sinistra. L’obiettivo di Pannunzio era chiaro: offrire ai lettori un’occasione per riflettere sulle derive autoritarie che potevano minacciare anche le democrazie, specialmente in un’epoca segnata dalla contrapposizione tra blocco occidentale e sovietico.
In quel periodo, la cultura italiana era attraversata da vivaci discussioni sul ruolo della libertà e della democrazia. Benedetto Croce, filosofo e senatore, era uno degli intellettuali più influenti e aveva fatto della libertà il perno del suo pensiero politico. Croce vedeva nell’opera di Orwell una potente allegoria di ciò che accade quando l’autorità soffoca la libertà dell’individuo. Nell’anno di pubblicazione del libro, Croce firmò una lunga nota intitolata La nuova disciplina del pensiero, pubblicata nel 1950, prima su Il Mondo, poi nei Quaderni della Critica e, infine, nella sezione intitolata “Dispute di teoria della storiografia e di filosofia in generale” dell’ultima edizione del primo volume delle Nuove pagine sparse.

Occupandosi del tessuto dottrinale del libro, Croce scorge un sistema di affinità tra il romanzo e una sua tesi politico-storiografica. Indotto a credere che la macchina totalitaria orwelliana sia stata modellata sul sistema sovietico (vero solo in parte), in questo stato totalitario in cui «l’ultimo uomo d’Europa» diventa «l’ultimo dei liberali», Croce scorge una conferma della sua tesi secondo la quale non c’è alcuna relazione tra l’ideale del comunismo e la rivoluzione bolscevica che ha portato alla nascita dell’Unione sovietica. Per Croce, la pubblicazione di 1984 su una rivista come Il Mondo rappresentava un atto culturale di grande valore: la dimostrazione che la letteratura poteva essere un’arma contro l’oppressione, capace di svelare i pericoli nascosti dietro le promesse di ordine e progresso che i regimi totalitari spesso proclamavano.
Di tutt’altro avviso era Palmiro Togliatti, leader del Partito Comunista Italiano e figura centrale del dibattito politico del tempo. Togliatti non vedeva di buon occhio l’attenzione riservata a Orwell, considerandolo uno strumento della propaganda anticomunista. Il PCI, all’epoca allineato con Mosca, interpretava 1984 come un attacco frontale all’Unione Sovietica e al suo modello di governo. Nell’articolo (uscito sulla rivista ideologica del PCI, Rinascita, nel 1950) Hanno perduto la speranza, Togliatti sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, svelò la natura di classe dell’opera letteraria di Orwell e demolì uno dei maggiori miti alimentati dal capitalismo: «siamo giunti ancora una volta al romanzo di avvenire, ma a un romanzo di avvenire che è precisamente l’opposto di quelli che furono pensati e scritti nei secoli trascorsi, nell’antichità, nel Rinascimento, ai tempi dell’illuminismo, del primo socialismo. Quelli erano la parola – o il sogno, se volete – di un mondo in cui regnava, o rinasceva, dopo secoli di oscurità, la fiducia nell’uomo, la fede nella ragione umana. Erano espressione fantastica di una grande e giustificata speranza. Questo è la parola di chi ha perduto qualsiasi speranza, di chi è intento a spegnerla là dove ne sia rimasta traccia alcuna. È il punto di arrivo della sfiducia nella ragione degli uomini e nelle sorti stesse del genere umano», scriveva Il Migliore.
La pubblicazione di estratti del romanzo su Il Mondo suscitò quindi reazioni contrastanti: da un lato, entusiasti liberali come Pannunzio e Croce; dall’altro, i comunisti italiani, che leggevano in quella scelta editoriale un messaggio politico ostile. La scelta di Mario Pannunzio di dare spazio a Orwell non fu solo un atto editoriale, ma un gesto profondamente politico. Il Mondo non era una rivista di grande diffusione popolare, ma parlava a un’élite intellettuale capace di influenzare il dibattito pubblico. Per Pannunzio, proporre 1984 significava mettere sotto i riflettori i pericoli del conformismo e della propaganda, che non erano prerogative esclusive di regimi dittatoriali, ma potevano insinuarsi anche nelle democrazie occidentali.
Il romanzo di Orwell, con la sua celebre descrizione del “Grande Fratello”, della “Neolingua” e della manipolazione della verità, colpì profondamente i lettori italiani. La pubblicazione su Il Mondo contribuì a far conoscere Orwell al pubblico italiano e aprì la strada alle traduzioni complete del libro, che iniziarono a circolare nel decennio successivo.
Fu un’occasione per parlare di temi universali come la libertà, la verità e la resistenza all’oppressione, ma anche per riflettere sulle tensioni ideologiche che attraversavano l’Italia dell’epoca. La pluralità di reazioni testimonia la forza di 1984: un libro che, al di là del contesto in cui fu scritto, continua a sollevare domande fondamentali su ciò che significa essere liberi. E, con l’avanzare dell’intelligenza artificiale, sempre più di grande attualità.