Dall’Olimpo a Londra
Marie Phillips trascina le divinità greche ai giorni nostri e scrive un romanzo che vuole essere dissacrante ma si perde in un mare di cliché e scivola in un’ironia stopposa
Ci prova ma non convince Marie Phillips e bisognerebbe scrivere un trattato per distinguere una volta per tutte il concetto di leggerezza da quello di superficialità. Se è vero che, come diceva Italo Calvino, “leggerezza non è superficialità ma planare sulle cose dall’alto“, il romanzo edito da Guanda editore ha preso male le misure. Siamo di fronte a una storia senza pretese che strizza l’occhio nella trama ad American Gods e ai miti classici ma appare da subito meno sagace. Dialoghi inconcludenti, erotismo che non erotizza e personaggi appena accennati, meno profondi di una pozzanghera a Roma.
Alice è una giovane laureata in linguistica che ha scelto di fare la donna delle pulizie e passa da uno studio televisivo decadente alla casa – ancor più fatiscente – delle divinità dell’Olimpo in rovina. Hanno tutte i loro nomi originali ma nessuno si pone nemmeno una domanda. Come protagonista, nella teoria, Alice non sarebbe malaccio: è disegnata fuori dagli schemi, piccola e tarchiatella, con gli occhiali, lontana da qualsiasi stereotipo che il boom di retelling dell’ultimo biennio ci ha fatto detestare. Non fosse che si finisce per cadere nell’altro cliché: zero ambizione, zero personalità, sballottata dagli eventi e dagli uomini, vittima di sé stessa, calca le scene come una zanzara d’estate. Più fastidiosa persino di Afrodite e della sua chat erotica (che inizia sempre nello stesso modo, viene da pensare che invece di infrangere il tabù del porno femminile ne sia vittima).
Apollo ha fatto uno sgarbo alla dea della bellezza e lei per punirlo costringe il figlio Eros (nel frattempo diventato cristiano cattolico ma indeciso perché attratto anche dal buddismo) a colpirlo con la sua freccia per farlo innamorare proprio di Alice. Ma quest’ultima ha una relazione non meglio identificata, fatta perlopiù di friendzone e non detti, con Neal l’ingegnere, inconcludente proprio come lei.
L’unico personaggio realmente degno di nota è Artemide, che – perlomeno nella prima parte del romanzo – si fa simbolo del gap generazionale e della generale perdita di valori a cui non fa seguito una riscoperta di principi nuovi, almeno per quella fascia di popolazione che è troppo arcaica per accettare di avere torto in qualsivoglia ambito. Come gli dei dell’Olimpo, appunto.
Il romanzo ha il colpo di coda circa a metà quando la storia di Neil e Alice si intreccia al mito di Orfeo ed Euridice e i due mortali si trovano ad affondare nei panni di personaggi mitologici quanto quelli che li circondano. Il finale è meno epico e non sorprende ma d’altronde non vuole nemmeno farlo.
L’idea alla base della storia è affascinante e il tentativo di rendere lo stile irriverente e dissacrante si vede, manca però un reale sviluppo della trama, che si allunga senza alcun tipo di base o sostegno. La storia non incalza e annoia in più punti ma bisogna riconoscere che la rivisitazione degli dei in chiave ironica e il linguaggio colorito strappano un sorriso. Nel complesso una lettura che potrebbe andare bene sotto l’ombrellone d’estate tra un giallo in edizione economica e le parole crociate.