Breve storia e profondi risvolti di come un ventennio possa diventare polvere in pochi giorni
Un uomo di cui l’identità non verrà mai confermata si getta da uno dei piani più alti della Torre Nord del World Trade Center di New York per fuggire dal fuoco e dal fumo che hanno invaso l’edificio, colpito da un Boeing 767. L’immagine (“The Falling Man”) verrà ricordata come il simbolo dell’evento che ha cambiato il volto del mondo e del XXI secolo, insieme ad un’altra: quella che ritrae l’allora presidente Usa George W. Bush nella scuola elementare Emma E. Booker di Sarasota, Florida, mentre il capo del suo staff, Andy Card, gli comunica che “l’America è sotto attacco”. Gli accadimenti di quel settembre 2001 scateneranno le cosiddette “guerra al terrorismo” e “dottrina della guerra preventiva”, la guerra più lunga mai intrapresa dagli Stati Uniti, oltre che il più grande tentativo – fallito – di esportazione della democrazia.
Quasi 20 anni dopo è un’altra l’immagine che segna la storia: l’ambasciatore Usa Ross Wilson e il generale Chris Donahue sono gli ultimi due statunitensi a lasciare l’Afghanistan imbarcandosi sul volo in decollo da Kabul. Quel giorno, il 30 agosto 2021, è già cosa nota che la guerra contro i talebani, accusati nel 2001 di fornire supporto al movimento islamista al-Qaida, responsabile dell’attacchi terroristici alle Torri Gemelle e al Pentagono, è andata in fumo, insieme a molto altro nel mezzo.
È il 7 ottobre 2001 quando ha inizio l’operazione Enduring Freedom in Afghanistan. In realtà, come si saprà successivamente, il primo obiettivo della “guerra al terrorismo” era un altro Paese, l’Iraq. Questo verrà invaso solo due anni più tardi con l’accusa di nascondere armi di distruzioni di massa (mai trovate), dando avvio alla seconda guerra del Golfo. I due conflitti, avvenuti dal 1990 al 1991 e dal 2003 al 2011, avranno un comune denominatore: la figura di Dick Cheney. Segretario della difesa sotto l’amministrazione di Bush padre e, sorprendentemente, dopo un calo di popolarità, vicepresidente negli anni della guida di Bush figlio, Cheney verrà considerato tra i principali promotori (e forse artefici) dei conflitti in Medio Oriente e Asia meridionale, complici la sua figura di spicco nell’ala neocon repubblicana e la sua “dottrina dell’un per cento” sulle presunte minacce all’America. Entrambi gli interventi militari costeranno agli Stati Uniti e a molti altri Paesi alleati ingenti perdite, in termini economici e di vite umane. Nel solo caso dell’Afghanistan, gli Usa sborseranno in totale, nell’arco di due decenni, 785 miliardi di dollari sacrificando la vita di 2.461 soldati, oltre che di 3.846 contractor e 1.144 soldati di Paesi alleati, tra cui 53 italiani. Le vittime totali saranno 172.403. E ancora, tra le perdite italiane, nel caso dell’Iraq, non si possono non ricordare gli attentati di Nassiriya, il più grave dei quali, nel 12 novembre 2003, portò alla morte di 19 concittadini, tra militari e civili.
Giunti in Afghanistan, dunque, l’obiettivo degli statunitensi, prima, e anche degli alleati, dopo, è quello di far cadere il regime talebano, cosa che almeno apparentemente accade a distanza di soli due mesi, il 9 dicembre successivo, e sostenere l’impegno antiterroristico addestrando le forze locali, parallelamente all’instaurazione di un sistema democratico.
Il Paese, tuttavia, in piena crisi, non riesce davvero a vivere un periodo di transizione perché gli studenti coranici operano la loro influenza ancora in gran parte delle regioni afghane e il capo di al-Qaeda, il celeberrimo Osama bin Laden, fuggito dal suo nascondiglio a Tora Bora prima della resa di Kandahar, continua a inviare messaggi alla popolazione mentre gli attentati suicidi e gli attacchi esplosivi continuano ad aumentare. In questi anni, nel frattempo, l’intervento dell’Occidente in Afghanistan comincia a mostrare i suoi lati oscuri: molti Paesi alleati non fanno segreto delle loro intenzioni di ritirarsi mentre la popolazione locale comincia a non vedere di buon occhio il bilancio delle morti civili. Alla fine del ventennio saranno in totale 47.245.
Nel 2010 un vertice della Nato, entrata a far parte della missione nel 2003, stabilisce la data entro la quale gli Usa dovranno interrompere la loro influenza sul traballante Governo afghano e cominciare il ritiro delle truppe: il 2014. Nel 2015, dunque, come già anticipato, entra in forze la seconda operazione, quella di sostegno alle forze di sicurezza locali, un’operazione che impiegherà 6 anni per mostrare la sua natura fallimentare. Dopo aver raggiunto il numero massimo di oltre 100 mila, nel 2017 i militari statunitensi presenti sul territorio scendono a 9 mila, numero che diminuirà sempre di più a partire dal maggio del 2021 con le partenze dei contingenti stranieri. Ad esempio, è l’8 giugno quando si svolge la cerimonia dell’ammaina bandiera del contingente italiano nell’Head Quarter della Task Force Arena, a Herat. In quell’occasione il ministro della Difesa italiano, Lorenzo Guerini, disse: «abbiamo accompagnato [il popolo afghano e le sue istituzioni] nel percorso di costruzione di un Paese più sicuro, più libero e più democratico». Ci penseranno i fatti a smentirlo.
Dopo le partenze, infatti, i talebani iniziano la loro avanzata, conquistando capoluogo dopo capoluogo, finché il 16 agosto, dopo essere entrati a Kabul (a detta della stampa senza incontrare resistenza), dichiarano la nascita del nuovo Emirato Islamico. La notizia darà il via all’evacuazione degli stranieri, grazie ai già citati ponti aerei, e degli afghani collaboratori, oltre che a uno stato di massima allerta all’interno dell’intera comunità internazionale, stato che varrà anche la richiesta dell’Italia di indire un G20 straordinario per discutere della crisi afghana. Un incontro virtuale, tenutosi lo scorso 12 ottobre, a cui parteciperanno i principali leader del mondo – eccezion fatta per i presidenti russo e cinese, Vladimir Putin e Xi Jinping – insieme a Spagna, Paesi Bassi, Qatar e i rappresentanti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca mondiale.
Ad occupare il posto al centro del ciclone sarà il presidente statunitense Joe Biden. Alla presa di Kabul, il Wall Street Journal commenta: «la resa dell’Afghanistan di Biden». Il New York Times parla di “improvvisa caduta di Kabul per opera dei talebani mette fine all’era U.S. in Afghanistan”, mentre la Cnn scrive: «l’uscita fallimentare dall’Afghanistan di Biden è un disastro in patria e all’estero». Il Guardian titola: «la caduta di Kabul: 20 anni di missione collassati in un giorno solo». E sulla stessa linea si mantengono le principali testate del mondo. Sarà El Pais a riportare uno dei tentativi di giustificazione dell’inquilino della Casa Bianca, che nel frattempo continua a perdere consensi: «Joe Biden prova a giustificare il disastro degli Usa in Afghanistan: ho ereditato questo accordo di pace».
Il ritiro delle truppe, da concludersi entro il 31 agosto del 2021, era infatti previsto dal già citato accordo di Doha, firmato in Qatar il 29 febbraio 2020 dalla fazione afghana dei talebani e l’allora presidente Usa, Donald Trump. L’intesa, volta a “portare la pace in Afghanistan” si è poi rivelata una débâcle diplomatica. Tuttavia, come sottolineato dagli esperti, il fallimento era già scritto nelle carte, letteralmente. L’accordo infatti era stato raggiunto tra gli Stati Uniti e il “the Islamic Emirate of Afghanistan which is not recognized by the United States as a state and is known as the Taliban”. Una dicitura che avrebbe potuto solo preannunciare quello che alcuni definiscono un vero e proprio golpe nei confronti del Governo afghano in essere al momento della presa di Kabul. D’altro canto, in vista delle elezioni presidenziali, non può essere totalmente esclusa la possibilità che il tycoon alla guida dell’America avesse costruito ad arte una “bomba ad orologeria” politica, pronta tuttavia a esplodere in mani di altri.
Alla conclusione di un anno di tumulti, solo l’ultimo di una lunga serie, e dell’inizio di un nuovo anno caratterizzato dal timore per i diritti umani, dalla carestia, da una profonda crisi economica e delle istituzioni, due sono le domande a cui più di tutte si rivela urgente rispondere. Da un lato, potrebbe essere lecito chiedersi quanto profondamente si sia spinta la propaganda talebana nei confronti della popolazione per rendere possibile l’avanzata così veloce e repentina al ritiro delle truppe occidentali. Dall’altro, cosa sia andato male nel tentativo di rendere l’Afghanistan un Paese libero e democratico..
Al primo quesito si può replicare sottolineando come nell’ultimo ventennio i talebani abbiano montato una campagna mediatica volta a screditare i Governi occidentali e le loro azioni utilizzando gli strumenti che più di tutto l’Occidente ama: i social network e Internet. Dal primo sito web ufficiale, Al Emarah, aperto nel 2005, a Youtube, Facebook e Twitter, senza dimenticare Telegram. Il tutto gestito da un’equipe di comunicazione (di cui faceva parte anche il noto portavoce odierno, Zabihullah Mujahid) mentre in Afghanistan aumentava in milioni il numero delle persone con accesso a Internet. Al secondo, invece, sarebbe complesso rispondere, per via dell’influenza di innumerevoli fattori che hanno determinato il fallimento della missione di democratizzazione (occidentale), ma basterebbe ricordare che nel 1978 l’Afghanistan venne effettivamente dichiarata una Repubblica democratica, dopo il colpo di Stato del partito socialista filo-comunista (la cosiddetta “rivoluzione di aprile”), prima di diventare una pedina sul tavolo da gioco della Guerra Fredda ed essere contesa dall’allora Urss e gli Stati Uniti. O anche solo riprendere le parole del politologo Sergio Fabbrini quando su Il Sole 24 Ore scrive che la caduta dell’Afghanistan ha comportato il “fallimento dell’idea […] che si potesse usare la forza militare per esportare la democrazia in quel Paese”.
di: Alessia MALCAUS
BOX 1: Un neonato simbolo della disfatta
Il 19 agosto 2021 i coniugi afghani Ahmadi si trovano insieme ai figli all’aeroporto Hamid Karzai di Kabul nel tentativo di riuscire a salire su un aereo e fuggire dalla nuova Afghanistan dei talebani.Come proverà una foto che ha fatto il giro del mondo ed è diventata simbolo della concitazione di quei giorni, la signora Ahmadi decide di affidare il più piccolo della sua progenie ad un marine statunitense che si trova al di là dei cancelli dell’Abby Gate. Mentre la famiglia riesce a lasciare il Paese, arrivando in Texas, del piccolo Sohail, di 6 mesi, si perdono le tracce. Solo a dicembre si scoprirà che era stato preso in cura da un tassista che lo scorso gennaio l’ha poi riaffidato al nonno. La storia tragica ma a lieto fine di Sohail Ahmadi, purtroppo, è destinata a rimanere un’eccezione, mentre le organizzazioni umanitarie continuano a mettere in guardia dai rischi del conflitto per i più piccoli. Malnutrizione, mancanza di acqua potabile e medicinali, le rigide condizioni del clima invernale e la diffusione delle malattie, senza contare i residui bellici, mettono a rischio secondo le stime circa 12 milioni di bambini. Uno scenario per cui, come dichiara Abdul Kadir Musse, rappresentante dell’Unicef in Afghanistan, “non c’è tempo da perdere”.
BOX 2: Shariʿah e fiqh: quando la religione incontra la giurisprudenza
Il ritorno dei talebani al potere in Afghanistan ha comportato anche un ritorno a quella che viene definita la “legge islamica”, la Sharia (Shariʿah). Questa serie di “principi etici e morali ad ampio raggio” dedotti dai testi sacri islamici (in particolare il Corano e la sunna), si traduce nella giurisprudenza del “fiqh”, considerata lo strumento principale di repressione individuale durante il primo regime talebano. Tale legge divide le azioni umane in cinque categorie: obbligatorie (“farḍ”), raccomandabili (“mustahahh”), lecite (“ḥalāl”), sconsigliate (“makruh”), proibite (“harām”). Tra le azioni ritenute obbligatorie rientrano i cosiddetti cinque pilastri dell’Islam, delle azioni proibite, invece, fanno parte, oltre atti come l’omicidio, l’abuso e il furto, ad esempio anche il consumo di una serie di alimenti e bevande, come gli alcolici e la carne di maiale (in riferimento al vino la legge vieta anche di produrlo, importarlo, esportarlo e venderlo). Il ripristino della Sharia, nonostante le rassicurazioni, ha messo in allerta la comunità internazionale su quale sarebbe stato il destino delle donne afghane e delle minoranze. Un quadro i cui bordi appaiono ancora estremamente frastagliati, mentre dal Paese arrivano notizie di nuovi divieti che mettono sempre più a rischio istruzione, vita sociale, politica e familiare di migliaia di individui.