A oltre vent’anni dall’evento che ha segnato la storia contemporanea non resta solo il ricordo di violenze e soprusi. Ci sono anche temi e idee di grande attualità, che abbiamo ripercorso con Vittorio Agnoletto

La storia è una maestra severa: all’alunno che non apprende ripropone sempre le stesse lezioni (e punizioni) finché non impara. Le conseguenze del perseverare, d’altronde, potrebbero essere catastrofiche.

È forse il caso di quanto sta accadendo a oltre 20 anni dai fatti di Genova nel luglio del 2001 quando, in occasione del G8 – il vertice tra i Capi di Stato e di Governo delle 8 potenze mondiali – i manifestanti contro l’allora modello capitalistico (non molto mutato nel frattempo) si riunirono nella città ligure per far sentire la propria voce, in un crescendo di tensioni che portò agli scontri con le forze dell’ordine e ad alcune delle pagine più buie della storia italiana nel nuovo millennio. Cercare dei parallelismi tra ieri e oggi, ora, è necessario, se non doveroso, per riconoscere con quanta forza gli sbagli reiterati nel tempo portano sempre con loro un cartellino con il prezzo. Al di là degli schieramenti politici, al di là degli errori fatti prima, durante e dopo, al di là di come le cose potevano essere fatte meglio, è innegabile che molti temi all’ordine del giorno due decenni fa siano tornati, prepotentemente e con urgenza, più attuali che mai.

Per comprendere meglio in che modo questo stia accadendo e da quale punto di vista analizzare al meglio il presente, lo scorso luglio (a pochi giorni dal ventennale) abbiamo parlato con Vittorio Agnoletto, nel 2001 portavoce della delegazione italiana al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre e del Genoa Social Forum in occasione del G8 e autore, insieme a Lorenzo Guadagnucci, del libro L’eclisse della democrazia – Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova, oggetto nel 2021 di una riedizione con il sottotitolo Dal G8 di Genova ad oggi: un altro mondo è necessario. Gli abbiamo chiesto cosa rappresentasse allora il GSF e cosa rappresenta tutt’oggi, perché in quei giorni i manifestanti erano a Genova e come le cose siano cambiate o meno. «Allora i media dissero di noi che eravamo un movimento no-global, ma noi eravamo l’esatto opposto. Genova, infatti, faceva parte di un grande movimento globale diffuso in tutto il mondo, il Forum Sociale Mondiale, il più grande della storia umana. Prima di Genova c’era già stata Seattle, dove nel novembre del 1999 studenti e sindacati contestarono l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), poi nel gennaio del 2001 a Porto Alegre, in Brasile, si riunirono decine di migliaia di persone da tutti i Continenti: attivisti, sindacalisti, intellettuali. Da lì il movimento dei forum social si diffuse poi in tutto il globo: India, Bangladesh, Kenya, Stati Uniti, Sud America, Australia. Il nostro obiettivo era discutere di un altro mondo possibile, un’alternativa al precipizio verso cui stavamo correndo. Eravamo più propositivi che contestativi, tanto che anche a Genova i nostri eventi iniziarono prima del G8, già il 16 luglio, con decine di incontri che erano vere e proprie lezioni in cui cercavamo una proposta ad un mondo che non andava bene».

L’agenda all’ordine del giorno di quel luglio 2001 non era tanto diversa da quella di oggi: abbiamo analizzato insieme ad Agnoletto quelli che sono i punti di contatto tra ieri e oggi, quali erano gli aspetti che il GSF contestava e come siano criticabili anche nel presente. «Allora contestavamo un mondo in cui il 20% della popolazione possedeva l’80% della ricchezza mondiale. Oggi è l’8% della popolazione a detenere l’80% della ricchezza, il gruppo dei ricchi, quindi, è diventato non solo più ricco ma anche più ristretto. Allora dicevamo: ‘attenzione, se questo modello in cui la finanza domina sull’economia reale andrà avanti dovremo fronteggiare una crisi economica e sociale mai vista’. Fu quello che avvenne». Solo qualche anno dopo, infatti, arrivò la ribattezzata “grande recessione”, la crisi economica globale del 2007-2008 iniziata negli Stati Uniti e dovuta ad una crisi di liquidità e di solvibilità sia a livello di banche e Stati. Crisi che poco più tardi, nel 2010, ha fatto da sfondo alla crisi della zona euro (o crisi del debito sovrano europeo) all’interno dell’Unione Europea. Come ci fa notare Agnoletto, inoltre, il divario tra ricchi e poveri del mondo è andato sempre più allargandosi nel corso di questi ultimi 20 anni: secondo il Global Wealth Report 2021 redatto dall’istituto bancario Credit Suisse, “le differenze di ricchezza tra gli adulti sono aumentate nel 2020. […] Ora un adulto ha bisogno di più di un milione di dollari per appartenere al top 1% globale” mentre nel 2019 “il requisito per un’iscrizione all’1% superiore era di 988.103 dollari”.

Una disuguaglianza preesistente, quindi, acuita dall’arrivo della pandemia. L’emergenza sanitaria ha, infatti, messo in luce più che mai le differenze tra primo e terzo mondo, con particolare rilevanza nell’ambito dell’accesso alle cure sanitarie. Un altro punto che già 20 anni fa il GSF discuteva. «Nel 2001 contestavamo un mondo in cui il Sud Africa, dove il 30% delle donne tra i 18 e i 40 anni era positivo all’HIV, non poteva ricevere i farmaci contro l’AIDS perché i medicinali erano coperti dai brevetti registrati delle multinazionali del farmaco. In quegli anni ero presidente della Lila (Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS) e appoggiavamo Nelson Mandela nella richiesta dei farmaci, ma proprio a Genova i potenti dissero ‘no, sui brevetti non cediamo, ma possiamo fare la carità’. Così venne creato il Fondo globale per la lotta all’Aids, la tubercolosi e la malaria. I ricchi donavano soldi e farmaci ma il diritto non può essere sostituito con l’elemosina. Oggi ci troviamo nella stessa situazione e di mezzo c’è ancora il sud del mondo: l’India, infatti, chiede la sospensione dei brevetti sui vaccini anti-Covid e la Wto è chiamata ad esprimersi e decidere. Siamo nella stessa situazione di allora con l’unica differenza che questa volta è il destino dell’intera popolazione mondiale ad essere nelle mani di un piccolo gruppo di aziende farmaceutiche. Abbiamo visto come il virus sia molto mutato nel corso di questi mesi, con l’avanzare di nuove varianti, l’unica possibilità che abbiamo è quella di sospendere i brevetti per aumentare la produzione e permettere a tutti, in tutti gli angoli del mondo, di vaccinarsi. Come dice il farmacologo Silvio Garattini, si tratta di sano egoismo: senza i vaccini il virus si replica e si modifica con nuove varianti, magari più aggressive, che prima o poi arriveranno anche da noi».

Non sembra finire qui, perché di paragoni, tra quel 2001 e l’oggi, sembrano essercene ancora molti: i cambiamenti climatici, le migrazioni, la privatizzazione dei beni comuni. «Il 16 luglio del 2001, in assemblea di apertura, il leader dei movimenti nelle Filippine Walden Bello ci mise in guardia dai rischi del modello di sviluppo portato avanti in quegli anni: l’aumento degli eventi climatici estremi, zone del pianeta completamente sommerse e intere popolazioni costrette a migrare». Mentre il pianeta viene tormentato da piogge sempre più forti, temperature sempre più alte, tifoni, incendi e, in generale eventi di natura climatica sempre più violenti (solo nel 2021 e solo in Italia sono stati registrati 187 eventi climatici estremi), pensare a queste parole sembra quasi profetico. «La situazione attuale, compresa la pandemia, è il risultato di un modello di sviluppo basato sulla deforestazione massiccia e sugli allevamenti intensivi che contribuiscono, tra l’altro, ad abbattere ogni barriera tra le specie favorendo la diffusione degli agenti infettivi e che rendono meno sicuro l’habitat naturale» – ci dice Agnoletto che ci racconta, ancora, di come 20 anni fa divenne di uso frequente il termine “bene comune” per indicare risorse indispensabili alla sopravvivenza umana e il cui accesso, di conseguenza, dovrebbe essere garantito a tutti senza barriere in entrata. Durante il GSF del 2001 il bene riconosciuto come più importante di tutti di cui doveva essere garantita la natura pubblica e mai privata fu l’acqua, la stessa acqua che nell’aprile del 2021 è stata quotata in Borsa da CME Group in collaborazione con il Nasdaq. Il future, che ha come sottostante il Nasdaq Veles California Water Index, è rappresentativo del prezzo e degli scambi sui diritti sull’acqua e definisce un mercato dal valore di 11 miliardi di dollari. Ecco qual è, dunque, il prezzo dato alla vita.

Allora il GSF aveva riunito a Genova 1187 realtà firmatarie, di cui 86 genovesi, 929 nazionali e 172 internazionali, ed era nato dalla consapevolezza che il singolo non avrebbe potuto vincere senza allearsi con chi combatteva per le stesse cause. Anche oggi come allora, secondo Vittorio Agnoletto, i movimenti globali portati avanti soprattutto dalle giovani e giovanissime generazioni hanno bisogno di unirsi, di “abbattere i muri e costruire ponti di comunicazione perché solo con la giustizia sociale si potrà raggiungere la giustizia ambientale e viceversa. Un percorso di convergenza, dunque, tra piattaforme locali e globali è fondamentale per portare avanti un progetto generale” di parità e uguaglianza globale.

di: Alessia MALCAUS

BOX 1 – Il G8 di Genova e il reato di tortura

Nonostante il reato di tortura fosse già previsto a livello sovranazionale a partire dalla Convenzione di New York del 1984 delle Nazioni Unite, questa fattispecie è entrata a far parte dell’ordinamento giuridico italiano, nella sezione penale, solo nel 2017. Per la prima volta nella storia della Repubblica, lo scorso anno (precisamente il 15 dicembre 2021) ha avuto inizio il primo processo in cui viene contestato tale reato, quello per gli episodi di violenza avvenuti il 6 aprile 2020 nell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere.

Tornando alle sue origini, i fatti storici che hanno reso necessario riempire un vuoto normativo, con conseguenti margini di impunità, risalgono proprio ai giorni del G8 di Genova. Dopo giorni di scontri violenti tra le forze dell’ordine e i manifestanti contro il vertice, causati da black bloc infiltrati tra le fila della protesta, la sera del 21 luglio, poco prima della mezzanotte, gli agenti di polizia, insieme al Sco di Roma (Servizio centrale operativo), al Reparto Mobile sempre di Roma, alla Digos di Genova, alle squadre mobili di La Spezia, di Roma, di Napoli e di Nuoro per un totale di 350 uomini, fecero irruzione nel comprensorio scolastico Diaz, nel quartiere genovese di Albaro. L’obiettivo dell’operazione, secondo le fonti ufficiali, era quello di scovare all’interno dell’istituto manifestanti violenti e armi ma, al contrario, all’interno c’erano ragazzi e ragazze del GSF.

Quello che avvenne lì dentro, ciò che il funzionario di polizia Michelangelo Fournier definì successivamente “macelleria messicana”, oggi lo conosciamo tutti grazie alle foto di alcuni giornalisti che in quella notte occupavano la scuola. Sta di fatto che da lì uscirono quasi tutti in barella, moltissimi feriti in modo grave. Ma a pochi di loro venne garantito il primo soccorso perché la maggior parte, insieme a molti altri manifestanti arrestati nei giorni precedenti, venne trasferita alla caserma Nino Bixio di Bolzaneto dove le violenze da parte degli agenti si fecero, secondo le ricostruzioni e le testimonianze, ancora più cruente.

Per quanto successo in quei giorni, decine di persone tra agenti, funzionari e dirigenti vennero indagate, imputate e, infine, condannate. Tuttavia, fu Arnaldo Cestaro, all’epoca tra le vittime del pestaggio alla scuola Diaz, a denunciare alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo l’assenza, in Italia, di una legge che prevedesse il reato della tortura. Il 7 aprile 2015 la Corte CEDU ha condannato lo Stato italiano ad un risarcimento di 45 mila euro nei confronti di Cestaro e, il 22 giugno del 2017, di altri 29 occupanti della Diaz. Nello stesso periodo il Parlamento discuteva la legge sulla tortura che avrebbe poi visto l’approvazione definitiva alla Camera il 5 luglio dello stesso anno. La legge numero 110 del 14 luglio 2017, dunque, prevede che l’articolo 613-bis del Codice Penale punisca il delitto della tortura, mentre, all’articolo 613-ter, viene descritto e punito il delitto di istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura.

BOX 2 – La guerriglia urbana e perché Genova è stata una pessima scelta

Quanto accaduto a Genova nel 2001 è un esempio di cosiddetta guerriglia urbana, un fenomeno non nuovo nella storia ma sempre più in crescita nel nostro millennio, in Europa e nel mondo. Una guerriglia urbana è un tipo di guerra definita asimmetrica, ovvero che non si combatte tra due eserciti nazionali ma tra un esercito nazionale e un soggetto non statale, come ribelli, movimenti o milizie. Per la sua natura labirintica, fatta di piccoli spazi di manovra, cunicoli, sotterranei e in genere scarsa visibilità con conseguente possibilità di attacchi molteplici e imprevisti, la città è un luogo di combattimento in cui la strategia la fa da padrone, insieme alla conoscenza approfondita dell’ambiente. In questo contesto i combattimenti devono adattarsi di volta in volta all’ambito urbano specifico. La guerra urbana contemporanea prevede tre livelli di combattimento: alto, nello spazio aereo; medio, nello spazio urbano tra i palazzi; basso, nella strada urbana e sotterranea. In tal senso uno scontro cittadino è totale: non ci sono barricate e il concetto di sicurezza perde completamente di valore soprattutto perché molto spesso i nemici che si scontrano non indossano divise ben riconoscibili e, dunque, anche i civili sono esposti e coinvolti nei combattimenti.

Quando Massimo D’Alema, presidente del Consiglio fino al 2000, indicò la città di Genova come teatro del G8 del luglio 2001, non tenne probabilmente conto della sua natura geografica e strutturale così come il suo successore, Silvio Berlusconi, che gestì la sicurezza dell’evento e l’arrivo dei leader, sottovalutò la portata dell’evento (pur avendo più volte criticato la scelta del capoluogo ligure). In quei giorni, nel centro cittadino, venne creata la “Fortezza Genova”, una zona rossa delimitata da barricate e cancelli sorvegliati dalle forze dell’ordine all’interno del quale tutto doveva essere in ordine per il vertice e gli eventi collaterali. Intervistato in occasione del ventennale di quello che Amnesty International ha definito la “più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale”, l’allora ministro dell’Interno Claudio Scajola ha ammesso come la città di Genova fosse “topograficamente inadatta alla gestione dell’ordine pubblico”: «non era la città adatta per ospitare l’incontro perché la conformazione urbanistica complica la gestione dell’ordine pubblico».

Una topografia già inadatta, dunque, resa ancora più complicata da zone blindate e dispiegamenti di forze dell’ordine impreparate: fu questo il mix letale in cui andarono in scena gli scontri tra gli agenti e i manifestanti violenti, pochi rispetto ai pacifici ma che causarono comunque il degenerare di una situazione poi divenuta irrecuperabile.