Un viaggio alla scoperta della band-rivelazione: perché sono diventati i “prescelti” per esportare la musica italiana nel mondo?

«Hello Las Vegas! È un onore essere qui ed avere la possibilità di suonare sul palco della band più grande di sempre». Eccoli i Måneskin, tra le luci dell’Allegiant Stadium di Las Vegas; il pubblico è in delirio. Loro sono pronti ad aprire il concerto dei Rolling Stones. Quella del 6 novembre 2021 non è solo una data del No Filter Tour degli Stones, ma un’altra giornata storica per i quattro ragazzi di Roma, un’altra giornata di ricchi premi e cotillon da portare a casa. Dall’Urbe verso l’infinito e oltre. Un infinito che ha preso la forma inaspettata, prima, della 71esima edizione del Festival di Sanremo, dove hanno trionfato a sorpresa con Zitti e Buoni, poi dell’Eurovision Song Contest, che ha permesso loro di entrare nelle classifiche mondiali. Da allora hanno continuato a vincere tutto (o quasi), come la categoria “Best Rock” agli Mtv Europe Music Awards – battendo gruppi notissimi come i Foo Fighters – fino all’incetta di nomination ai Grammys e ai Brit Awards, previsti per l’8 febbraio.

Il percorso per arrivare a mondi lontanissimi come Rotterdam, Budapest e Los Angeles è partito – come spesso accade – dai banchi di scuola. Prima Victoria De Angelis, bassista, incontra il chitarrista Thomas Raggi alle scuole medie, poi il cantante Damiano David dopo anni incontra di nuovo casualmente Victoria, e alla fine arriva Ethan Torchio alla batteria grazie a un annuncio pubblicato su Facebook. Il primo concerto ufficiale arriva nel 2016 a Faenza, in occasione del Meeting delle etichette indipendenti (MEI). L’anno dopo, ancora teenager, sono subito sul palco dell’undicesima edizione di X Factor dove conoscono il mentore Manuel Agnelli. Il resto è storia, si potrebbe dire.

Damiano, Victoria, Thomas e Ethanhanno fatto una cosa strana, hanno avuto successo ancora prima del boom. Lo dimostra il docu-film This is Måneskin (2018), che svela il processo creativo che ha portato alla realizzazione del loro primo album Il ballo della vita. Siamo abituati a vedere documentari di band in tour, di band che si raccontano, ma è particolare la scelta di proporre una produzione simile ancora prima della pubblicazione del primo disco. Insomma, se c’è un docu-film, c’è qualcuno interessato a vederlo. E oggi quel numero di persone è aumentato esponenzialmente, dimostrando come il “fenomeno” Måneskin abbia assunto una dimensione globale.

Un fenomeno, appunto. Verrebbe da chiedersi come hanno fatto in meno di quattro anni, qual è il segreto del successo. L’esplosione di un fenomeno, da definizione, è il risultato dell’incrocio di fattori e circostanze complesse da afferrare, che non può prescindere dall’analisi della realtà in cui viviamo. Ed è proprio il caso dei Måneskin. Non è solo trovarsi al posto giusto al momento giusto, non è solo bravura, non è solo carisma, non è solo arrivare secondi a X Factor e poi esplodere, come nelle migliori tradizioni. Il merito dei quattro giovani è certamente quello di essere così ostentatamente hard rock nel 2021, di aver riportato l’estetica glam e androgina in un momento storico in cui c’è bisogno, sì, di freschezza, ma anche di rassicurazione. La band, composta da giovanissimi nati tra il 1999 e il 2001, ripropone una rivisitazione curatissima degli stilemi del classic rock, con un impianto sonoro e visivo che richiamano direttamente gli anni Settanta. Forse è proprio questo uno dei segreti, il saper agire su due livelli distinti. Da un lato, c’è la capacità di riportare in auge un immaginario e un linguaggio musicale che si è perso nel tempo – con annesse critiche degli estimatori d’antan – dall’altro l’abilità di colpire le generazioni più giovani che non hanno mai avuto contatti con il genere e percepiscono come nuovo uno stile codificato già da decenni. Il quartetto capitolino si inserisce in quella ondata di revival hard rock che ha all’estero esponenti come Greta Van Fleet e The Struts: gruppi giovani che attingono a piene mani dall’universo glam-rock sia nel suono, sia nel look. Una sorta di retromania – per dirla con le parole del critico musicale Simon Reynolds – che nutre la nostra passione per il passato e la nostalgia e cristallizza il tempo e i gusti. C’è, però, un altro fattore che rende i Måneskin un unicum nell’attuale panorama discografico internazionale. Oltreoceano e oltremanica, critica e pubblico sono avvezzi ai gruppi rock, ma non a quelli italiani, per questo i Måneskin suscitano una fascinazione quasi aliena, perché segnano una cesura con la percezione della musica leggera italiana al di fuori dei confini italici. Ma anche all’interno. Checché se ne dica, i ragazzi di Roma sono riusciti a portare una rottura nella musica mainstream italiana – l’underground è un discorso a parte – proprio perché propongono un rock accessibile, “per tutti”, scevro dalle inclinazioni politiche del cantautorato impegnato e più stratificato. Ci sono, invece, energia, potenza, sfrontatezza, e uno spirito “simpaticamente ribelle”. Caratteristiche considerate ingenue da qualcuno, ma che, complice il bilinguismo dei testi, colpiscono e danno, all’estero, un’immagine se non inedita, fresca e sbarazzina dell’Italia.

Semplici e diretti anche nel sostegno a cause sociali, i Måneskin non si sono mai risparmiati nell’appoggiare i diritti della comunità LGBTQIA+ e nel condannare omofobia, razzismo e sessismo. Un messaggio che è arrivato anche sul palco nazionalpopolare di Sanremo, dove hanno sbancato al televoto. Certo, il meccanismo alla base dei social, ossia quello di rendere tutto virale, ha aiutato, e non poco, a far conoscere la band anche al pubblico sanremese, lontano dalle chitarre elettriche e dalle zeppe di bowieniana memoria. A questo ha contribuito molto questo approccio dal basso alla musica, sincero e spontaneo, lontano da particolari sofisticatismi, che arriva senza filtri e non ha bisogno di spiegazioni.

Il ritrovato successo di un’italianità tanto bistrattata all’estero quanto in patria è, forse, da attribuire anche al particolare periodo storico che stiamo vivendo. Il nostro Paese, inizialmente, è stato uno dei più colpiti dalla pandemia, e il trionfo cosmico di un gruppo “tutto nostro” diventa a tutti gli effetti un segnale di ripresa, così i Måneskin sono assurti, forse inconsciamente, forse loro malgrado, a simbolo della volontà di rinascita del settore musicale e artistico italiano, messo in ginocchio dal Covid.

Alla fine di questo viaggio le domande e le risposte sono tante, ma una cosa è certa. I Måneskin non si curano di risultare sopra le righe, spregiudicati, giovanissimi eppure così spudoratamente rock ‘n roll “vecchia maniera”. D’altronde, come ha detto Damiano durante la conferenza stampa per la presentazione del loro ultimo album, Teatro d’ira – Vol I :«sarà un disco fuori dai canoni, ne siamo consapevoli ma ce ne siamo fottuti per donarvi la versione più sincera e reale di noi stessi, perché la musica è l’unica cosa che conta, e questa volta sarà soltanto lei a parlare. Per ora mettetevi comodi sulle poltrone, il Teatro d’ira sta per alzare il suo sipario».

di: Francesca LASI

Box – La discografia dei Måneskin

L’esordio discografico dei Måneskin avviene nel 2017 con Chosen, certificato doppio disco di platino dalla FIMI (Federazione Industria Musicale Italiana). Tra le tracce dell’EP, il singolo omonimo, presentato alle audizioni di X Factor 2017, e la cover Beggin’, brano originariamente interpretato dai Four Season nel 1967. Il primo album ufficiale, Il ballo della vita, è stato pubblicato nel 2018 e contiene i singoli Torna a casa e Morirò da Re. Il secondo disco, Teatro d’ira – Vol. I è uscito il 19 marzo 2021: nella tracklist i successi Zitti e Buoni, I Wanna Be Your Slave e Vent’anni.