La montagna che sfidò gli uomini fu scalata per la prima volta 100 anni fa. Un’impresa pionieristica che ancora oggi alletta la fantasia degli amanti di sport estremo

Prima di essere l’Everest, la montagna più alta del mondo si chiamava Chomolungma, Dea Madre del Mondo in tibetano. L’arco montuoso dell’Himalaya esiste da milioni di anni: è un’area che occupa 2.500 chilometri di terra con montagne che sembrano arrivare a sfiorare il cielo e che, a guardarle da lontano, sembrano poter esistere solo nei dipinti.

Il mondo occidentale scoprì l’Everest quando nel 1830 i cartografi inglesi del Survey of India raggiunsero le frontiere del Nepal e osservarono una montagna altissima che i locali chiamavano Sagaramāthā, Dio del cielo, e che loro ribattezzarono con il toponimo Peak XV. Due anni dopo, gli studiosi le assegnarono un’altezza di 8.839 metri, 258 in più rispetto al K2, e la classificarono come la più alta del mondo. Fu a questo punto che il mito nacque e, come spesso accade quando ci sono di mezzo gli occidentali, Chomolungma scomparve per lasciare il posto all’Everest, così chiamato in onore di Sir George Everest, direttore del Survey of India.

Sono passati 100 anni da quando i primi pionieri hanno affrontato la scalata della Montagna. All’inizio degli anni ’20 la Royal Geographical Society organizzò tre spedizioni ravvicinate: nel 1921, nel 1922 e nel 1924. Vi parteciparono non solo alpinisti, ma anche geografi, cartografi e geologi. Facevano parte della prima spedizione, tra gli altri, il tenente colonnello C.K. Howard-Bury, gli alpinisti George Mallory e Andrew Irvine e il geologo Noel Odell.  A quei tempi l’accesso alla montagna era limitato: occorreva il permesso del Dalai Lama e si poteva accedere solo al versante nord, sul lato tibetano, perché il Nepal, preoccupato di mantenere la propria indipendenza, non ammetteva intrusioni occidentali soprattutto da parte degli inglesi colonialisti. Una curiosità: nell’anno della prima spedizione, il 1921, il tenente colonnello C.K. Howard-Bury avvistò a circa 7 mila metri una figura scura dalle sembianze vagamente umane. Poco dopo, vide delle enormi impronte nella neve: fu la prima volta in cui gli occidentali sentirono parlare dello Yeti.

Ma sulla Montagna non c’è bisogno di mostri per avere paura: che fine abbiano fatto i primi spedizionieri, George Leigh Mallory e Andrew Irvine, rimane ancora oggi un mistero. Mallory era un insegnante ed era stato un ufficiale di artiglieria durante la Prima Guerra Mondiale. Era considerato a tutti gli effetti il più forte e completo scalatore della sua epoca e leggerne il profilo oggi fa pensare neanche troppo velatamente all’immaginario archeologo Indiana Jones, il connubio ideale fra letterato e uomo d’azione. È passata alla storia la risposta che Mallory diede a un giornalista americano durante un giro di conferenze negli Stati Uniti nel 1923, quando gli chiese perché volesse così ardentemente scalare l’Everest: «because it’s there», disse, «perché è là», in un mix di humor britannico e introspezione. Per l’ultima spedizione, quella che sarebbe stata la più importante, drammatica e controversa e che avrebbe consacrato per sempre il suo nome nella leggenda, Mallory scelse di portare con sé Andrew Irvine, detto Sandy. Uno studente di ingegneria di 22 anni, campione di canottaggio e buon arrampicatore ma con scarsissima esperienza alpinistica vera e propria. Compensava con una grande abilità manuale: si era dimostrato capace di riparare l’attrezzatura nelle condizioni più disperate ed era l’unico in grado di garantire il funzionamento dei respiratori. La spedizione decisiva partì l’8 giugno 1924: i due avventurieri lasciarono il Campo VI e furono i primi in assoluto a tentare l’approccio dalla Cresta Nord Est. In mattinata Noel Odell si incamminò verso il Campo VI e vide intorno alle 12:50 George ed Andrew procedere spediti. Verso le 14, Odell raggiunse il Campo VI e si trattenne in attesa di vedere i compagni sulla via del rientro, ma Mallory e Sandy non sarebbero mai più tornati.

La salita di Mallory e Irvine è ancora oggi avvolta in un mistero tanto fitto da rendere impossibile chiudere la diatriba sulla data effettiva della conquista dell’Everest. Se i due alpinisti fossero o meno arrivati in cima forse non lo sapremo mai: resta il dubbio che i due possano aver perso la vita in discesa, al ritorno dopo aver conquistato la vetta, non in salita. Il corpo di Mallory venne ritrovato nel 1999: giaceva a faccia in giù sulla ghiaia, con l’altimetro e l’orologio rotti, la corda di canapa a cui era legato tagliata a qualche metro dal corpo. La tibia e il perone destri erano spezzati, la gamba sinistra poggiata sull’altra. C’è dell’altro: addosso gli fu trovato tutto tranne la foto della moglie, quella che aveva giurato avrebbe lasciato sulla cima dell’Everest per celebrare la riuscita dell’impresa. Peter Firstbrook, il produttore del film che aveva finanziato quell’anno la ricerca dei due cadaveri, concluse la sua ricostruzione in questo modo: «tutto suggerisce che Mallory sia caduto in discesa e che Irvine lo abbia tenuto prima che la corda si spezzasse». I            l corpo di Irvine invece non si trovò affatto e nemmeno la sua macchina fotografica, che avrebbe potuto risolvere il mistero. Sarebbe occorso il 2009 perché un altro alpinista, l’americano Tom Holzen, affermasse di averlo visto sulle foto aeree, in una spaccatura tra due massi, ma nessuno è ancora riuscito né a confermare né a recuperare il cadavere. In occasione del centenario dalla scomparsa dei due avventurieri verrà costruita una statua in bronzo a grandezza naturale che verrà installata nella contea del Cheshire in Inghilterra.  

Ma cosa ha trasformato l’Everest, cinicamente solo una montagna molto alta, in un limite da superare, una sfida, un simbolo?  Affrontare la scalata non è da tutti: servono non solo abilità specifiche ma anche una grande disponibilità monetaria, perché l’impresa costa circa 30 mila dollari. Tra le sfide più grandi ci sono le temperature molto rigide, l’aria rarefatta, che dagli 8 mila metri in poi rende impossibile la respirazione e le 10 settimane che sono necessarie per arrivare in vetta. Una delle papabili risposte la dà, forse involontariamente, Margaret Thatcher: «un uomo può scalare l’Everest per sé stesso forse, ma al vertice pianterà la bandiera del suo Paese». Ed è quello che simbolicamente fa Edmund Hillary, il primo uomo ad arrivare in cima al mondo se non si vuole tener conto della leggenda di Mallory. Raggiunta la vetta insieme all’alpinista nepalese Tenzing Norgay nel 1953, Hillary dedicò l’impresa all’incoronazione della regina Elisabetta II che avveniva proprio in quell’anno e trasformò il suo successo in un evento storico per il Regno Unito ma gli diede anche una valenza politica importante.

Nel corso degli anni, in molti hanno tentato l’impresa e in diversi ci sono riusciti. Tra gli avventurieri di casa nostra non possiamo non citare l’italiano Reinhold Messner, che nel 1978 è stato il primo a scalare l’Everest senza ossigeno insieme all’austriaco Peter Habeler. Messner è stato fautore di un tipo di alpinismo basato sulla responsabilità individuale e su pochi mezzi. Alla base c’è una sfida: mettere lo scalatore di fronte ai rischi della montagna, alla responsabilità delle proprie scelte e all’ineluttabilità dei propri limiti. Due anni dopo, nell’agosto del 1980, tentò l’impresa in solitaria e arrivò in cima senza ossigeno e completamente da solo: fu la più grande impresa di sempre sull’Everest. Esemplare anche il caso dell’alpinista giapponese Junko Tabei, che fu la prima donna a scalare la vetta e qualche anno dopo la prima a completare le Seven Summits, le montagne più alte di ciascuno dei 7 continenti. E ancora, da citare, lo sherpa Kami Rita, che ha scalato la vetta per ben 24 volte.  

Raccontata da coloro che l’hanno affrontata, è evidente che la scalata dell’Everest è un’esperienza che trascende dall’esistenza umana. Si tratta di cercare di infrangere il limite imposto dalla natura e formare un immaginario nuovo, proprio come andare sulla Luna. Forse addirittura di più: per tornare a citare George Mallory, la vetta dell’Everest diventa un simbolo del desiderio umano di conquistare l’Universo, dando una concezione infinita a una vita che, per sua stessa definizione, è racchiusa in uno spazio finito.

BOX 1: Everest da incubo, il lato oscuro della montagna

Nell’ultimo secolo sono morti scalando l’Everest più di 305 alpinisti. E lassù, tra neve e crepacci, con il vento burrascoso che ulula nelle orecchie, è facile imbattersi in cadaveri dimenticati. Questa è tra le cose più spaventose della scalata, secondo l’esploratore britannico Matthew Dieumegard-Thornton: quando si parte per conquistare la vetta, si è così in alto che è impensabile portare carichi pesanti. Perciò se qualcuno muore, è difficile riportare il cadavere a valle: e rimane lì, con la pelle talmente ghiacciata da essere imbalsamata, come una statua di cera. Nei racconti di chi lo ha scalato, l’Everest acquisisce sfumature umane: la Montagna sembra essere senziente, dotata di vita propria. «È quasi come se la montagna si nascondesse alla vista», spiega Dieumegard-Thornton, perché è impossibile concepirla realmente nella sua interezza. Le dimensioni dell’Everest diventano un incubo, un problema enorme da superare mentalmente perché non si riesce a credere che la montagna sia uno spazio finito. Inoltre, a causa del riscaldamento globale e delle nevicate ridotte, cadono spesso strati di rocce e ghiaccio: «dovete affrontare un terreno che cerca di lanciarvi addosso parecchi detriti», prosegue l’alpinista rafforzando la sensazione che la Montagna sia dotata di coscienza. Anche quando, infine, si raggiunge la vetta, l’Everest riserva delle sorprese: la cima è ventosa e ostile, è estrema, dà una profondità nuova al concetto di isolamento. Fisicamente e moralmente si è così lontani dagli altri esseri umani che la mancanza di ossigeno non basta a dimenticare che nessuno sarà in grado, in caso di bisogno, di effettuare un salvataggio. 

BOX 2: Gli Sherpa e la leggenda dello Yeti

Gli Sherpa sono un popolo originario del Tibet insediatosi in Nepal dopo aver attraversato i valichi Himalayani. Risiedono principalmente nella regione del Khumbu a sud dell’Everest e nella valle Rolwaling e sono diventati famosi nel mondo come i portatori che accompagnano le grandi spedizioni alpinistiche verso le vette più alte della catena. Inizialmente si trattava di un popolo agricolo: per secoli hanno strappato alla montagna terreni atti a coltivare verdure e allevare bestiame. Ma sono persone abituate alle alte quote, resistenti, in grado di tollerare il clima rigido e l’aria rarefatta e da circa 30 anni, da quando cioè è diventata consuetudine la presenza del capo Sherpa esperto, il Sirdar, nelle spedizioni, queste sono diventate la prima fonte di sostentamento per le popolazioni sherpa.

Tra le curiosità più affascinanti su questo popolo non si può non citare, naturalmente, la nativa leggenda dello Yeti, l’abominevole uomo delle nevi. Il termine “Yeti” deriva da yeh-teh, letteralmente “uomo delle rocce” un’espressione tipica usata dagli Sherpa per indicare la creatura mitica. Il primo avvistamento dello Yeti da parte di un occidentale risale al 1921, esattamente 100 anni fa, mentre uno degli ultimi si è verificato nel 1970, sull’Annapurna. Oggi questa creatura è ancora un mistero: per molti è solo un orso, per altri un essere umano cresciuto allo stato selvaggio, per altri ancora una specie sconosciuta di scimmia. E poi, ovviamente, c’è l’ipotesi del paranormale: ma riguardo a questo non ci crederemo fino a che Stephen King non farà in modo di convincercene.