Nasceva 100 anni fa il segretario più amato dalla sinistra e rispettato dagli avversari politici. Perché per lui la politica era una vera questione morale

Strada per strada, casa per casa”. Sono le ultime parole del comizio che Enrico Berlinguer conclude a fatica a Padova. Dalle registrazioni si percepisce la difficoltà e la tenacia che il segretario del Partito Comunista Italiano mette per scandire quelle che saranno le sue ultime parole pubbliche, per portare a termine l’impegno della campagna elettorale a pochi giorni dalle elezioni.

Quello che colpisce delle immagini che ritraggono gli ultimi minuti del comizio sono le grida che si alzano dal pubblico. “Basta Enrico!” si sente ripetere a più riprese. Enrico. Perché per i militanti comunisti il segretario, che a prima vista può sembrare un serio e austero borghese, è Enrico. Un sentimento che spiegherà bene il presidente della Repubblica Sandro Pertini quando non sentendo ragioni decise di trasportare il feretro sul volo di Stato: «lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta».

Enrico. Come cantato da Antonello Venditti, come impresso nella memoria e nella cultura di massa, il volto umano dietro il ruolo politico. Un’umanità e una lealtà politica che faranno varcare per la prima e unica volta la porta di Botteghe Oscure anche a Giorgio Almirante, allora segretario del Movimento Sociale Italiano

La folla che si radunò per salutarlo un’ultima volta era sicuramente piena di comunisti, ma non era composta di soli comunisti. Erano due milioni di persone, una marea di bandiere rosse e pugni chiusi, di lacrime e commozione. Come documenta il servizio Rai il giorno del funerale la risposta che si sente ripetere più spesso alla domanda “cos’era per lei Berlinguer?” è “una brava persona”. Come cantato da Giorgio Gaber, come detto scherzosamente da Roberto Benigni poco prima della foto iconica in cui lo tiene in braccio.

La lealtà politica e umana di Enrico Berlinguer lo fanno aderire perfettamente alle sue parole “io non ho fatto la scelta della politica, io ho fatto la scelta della lotta per la realizzazione degli ideali comunisti”. La vera matrice della questione morale, una politica fatta di ideali e non di affari, di sentire comune e non di arrivismo, di pluralismo e non di dittatura.

Una politica dimostrata con i fatti, con lo strappo dal comunismo sovietico e l’intuizione della terza via necessaria per governare l’Italia, con gli accordi con Moro

In un’intervista Gianni Minoli chiede al segretario del PCI: «qual è la cosa che le dà più fastidio sentir dire di lei?». La risposta di Berlinguer dopo pochi attimi di riflessione, sorridendo: «che sarei triste, perché non è vero». Perché quella che sembrava serietà era timidezza, come racconta Alfredo Reichlin, membro della direzione del Partito: «quest’uomo è un mistero, perché è un uomo che ha una struttura psicologica e caratteriale per cui dovrebbe fare il bibliotecario e invece assume, per dovere morale, il compito di diventare il leader di un grande partito popolare di massa, che parla a milioni di persone. È uno sforzo gigantesco che lui fa, continuamente, su sé stesso».

Berlinguer nasce nel 1922, anno della marcia su Roma, e scopre la causa comunista da giovanissimo. A poco più di 20 anni finisce in carcere per la rivolta del pane, quando a Sassari vengono assaliti e saccheggiati i forni, indicato come istigatore della rivolta, finirà per scontare 100 giorni di carcere e poi essere prosciolto per non aver commesso il fatto. Il carcere sarà il punto di svolta nella vita di Enrico Berlinguer, qui deciderà di abbandonare gli studi universitari di giurisprudenza e dedicarsi al Partito. È il 1944. Tramite il padre, che era un suo ex compagno di scuola, conosce Palmiro Togliatti. Nel 1964 Berlinguer trova nuovi spunti politici significativi nel Memoriale di Yalta scritto negli ultimi giorni di vita del segretario Togliatti, dove vengono espresse critiche pesanti nei confronti dell’Unione Sovietica.

Arriva il ‘68 e porta con sé la contestazione globale, nello stesso anno Berlinguer si trova di fronte alla prima vera campagna elettorale e il comunismo deve affrontare una crisi scatenata dall’invasione sovietica di Praga e la soppressione sanguinosissima delle rivolte. Nel 1969 Berlinguer, alla Conferenza Internazionale dei Partiti Comunisti a Mosca, terrà uno dei discorsi più significativi e critici nei confronti dell’Unione Sovietica, ponendo le basi di quel percorso di affrancamento del PCI dal comunismo sovietico.

L’elezione a segretario arriva nel 1972, in quegli anni ‘70 contraddistinti da attivismo e strategia della tensione, mentre a livello mondiale è la notizia dell’omicidio di Salvador Allende, primo presidente di sinistra eletto in Cile, e la presa di potere del generale anticomunista Augusto Pinochet a tenere banco. Sarà da questo quadro che il segretario inizierà a pensare alla possibile alleanza dei tre principali partiti: PCI, PSI e DC, il cosiddetto compromesso storico, per evitare ascese militari e colpi di Stato.

Nel 1976, al XXV congresso del Partito Comunista in Russia, Berlinguer di fronte a 5.000 delegati parlando di democrazia e pluralismo, tiene uno dei più duri discorsi mai fatti in URSS, sottolineando l’autonomia del Partito Comunista Italiano e condannando le azioni sovietiche di ingerenza negli altri Stati. Si delinea sempre più lo strappo dal comunismo russo anticipato nel ‘69.

Nel frattempo in Italia il Partito Comunista si avvicina ai suoi massimi storici, mentre la Democrazia Cristiana affronta una crisi e, pur rimanendo il primo partito, sente di perdere il contatto con il Paese. Il Governo della “non sfiducia” di Andreotti scuote la base del partito, portando a una prima vera rottura tra il PCI e i militanti, la crisi di governo sarà aperta dai comunisti solo a seguito della manifestazione dei 100 mila metalmeccanici che lamentano i sacrifici e l’aumento dei prezzi di benzina, sigarette e tariffe.

Berlinguer, dopo la rottura con la DC mantiene i contatti con Aldo Moro che è impegnato sia nel fronte interno al partito sia nel fronte estero, cercando di convincere gli americani che osteggiavano un Governo comunista in Italia, sembra essere l’interlocutore giusto per portare il Partito Comunista all’Esecutivo. Dopo il rapimento e l’assassinio di Moro da parte della Brigate Rosse ogni trattativa possibile tra i due schieramenti viene meno. Un segnale importante dalla base del partito arriva poi dalle elezioni del 1979, quando per la prima volta il PCI vede diminuire i voti. Un milione e mezzo di voti in meno sono un segnale chiaro e Berlinguer torna a fianco degli operai, ma dopo aver sostenuto i 24 mila operai in cassa integrazione e i 13 mila licenziati dalla Fiat che stanno scioperando a oltranza, la manifestazione dei 40 mila tra dirigenti e impiegati dell’azienda che chiedono la riapertura vanifica gli sforzi finendo in una resa senza condizioni di Partito e Sindacati.

Negli anni ‘80 Berlinguer condanna l’invasione sovietica in Afghanistan e dibatte sulla questione morale, denunciando affarismo e corruzione che stanno devastando la politica italiana. A seguito del terremoto in Irpinia e della gestione disastrosa degli aiuti ai cittadini colpiti Berlinguer denuncia, sulle pagine de l’Unità, “un sistema di potere, una concezione e un metodo di governo che hanno generato di continuo inefficienze e confusioni nel funzionamento degli organi dello Stato, corruttele e scandali nella vita dei partiti governativi, omertà e impunità per i responsabili. La questione morale è divenuta oggi la questione nazionale più importante”. Sono i prodromi della denuncia vera e propria della questione morale. L’anno successivo, infatti, sulle pagine di Repubblica il segretario del PCI, intervistato da Eugenio Scalfari, definisce i partiti come “macchine di potere e di clientela” con “scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero”.  Secondo il segretario comunista è problematica tutta la gestione degli interessi che sono “talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani”. Berlinguer lamenta lo scollamento e la distanza tra i partiti e le masse popolari, con i partiti impegnati a occupare “gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali”. Secondo il segretario la questione non è semplicemente sgominare i ladri e i corrotti, denunciarli e metterli in prigione, la questione deve essere risolta con il superamento dell’occupazione di tutti questi spazi. Un anno dopo, partecipando alla Tribuna Politica, Berlinguer torna quella questione morale e si dice convinto che la soluzione possa essere conseguita mettendo fine alla “commistione tra funzioni di partito e funzioni statali”.

Di nuovo, nell’ultima intervista televisiva, concessa poche ore prima del comizio a Padova, Berlinguer pone l’accento sull’importanza di aprire la strada a Governi che puntino agli interessi generali e non fossero “caratterizzati dalla conflittualità continua tra i partiti e tra le loro fazioni”.

Roberto Benigni in un articolo uscito in occasione dei funerali di Berlinguer spiegò perché volle prendere in braccio il segretario: “per ricambiare tutte le volte che mi ero sentito sollevato da lui, volli sollevare fisicamente Berlinguer in braccio” e spiega bene il sentimento che militanti, ma anche avversari politici, provavano di fronte a Enrico e il motivo per cui è così rimpianto.

La serietà, la caratura morale, l’impegno politico erano un sollievo. Per chiunque.