I ruoli in politica e nel mondo del lavoro declinati al femminile

Nel 1789, poco dopo la presa della Bastiglia, in Francia, una commissione incaricata dall’Assemblea nazionale costituente pubblicò la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, una solenne proclamazione di tutti i diritti fondamentali. Un paio di anni più tardi la scrittrice Olympe de Gouges rese nota la Dichiarazionedeidirittidelladonnae della cittadina, il primo documento a invocare l’uguaglianza giuridica tra donne e uomini e una decisa critica alla Rivoluzione francese, colpevole di aver dimenticato le donne nel suo progetto di libertà e uguaglianza. Da allora sono trascorsi più di due secoli e la storia è stata contrassegnata da una serie di lotte che andavano tutte in un’unica direzione: la parità sia nella sfera domestica che in quella pubblica e professionale. Una storia, quella dei diritti femminili, che si intreccia con quella del cosiddetto gendergap, ovvero ildivario tra i generi, che pone necessariamente l’attenzione sulla condizione di disparità in cui vivono le donne di ogni Paese.

Molti studi individuano la principale causa del gender gap nelle varie culture in cui spesso la figura femminile è ancora relegata alla dimensione domestica e familiare. Salvo rare e circostanziate eccezioni, le società sono state fortemente maschiliste e lo sono ancora. «Per una donna è difficile emergere perché di default viene considerata più fragile e perciò meno capace e autorevole soprattutto per quei ruoli che richiedano l’esercizio del potere – ci ha spiegato la psicoterapeuta Paola Pompei. – C’è poi il grande tema della conciliazione tra vita e lavoro. Per necessità, ancora prima che per virtù, le donne non esauriscono la loro vita nel lavoro e nella carriera: è inevitabile che si dedichino più degli uomini alla gestione della famiglia, all’educazione dei figli, all’accudimento dei genitori anziani. A lungo questo è stato considerato un ostacolo per la carriera delle donne e un pericolo per la produttività a livello lavorativo. Esiste una sorta di boicottaggio al maschile e un retaggio socio-culturale che continuiamo a portarci dietro. Gli uomini sono abituati storicamente a fare squadra fra sé stessi e non c’è una tradizione di ruoli di potere affidati o cercati dalle donne. Non dimentichiamo che le donne hanno avuto il diritto di voto nel 1946 e questo lasso di tempo è veramente esiguo in termini storici».

La distribuzione delle donne nel mondo del lavoro non è omogenea. Ce lo dice l’esperienza e lo confermano i dati. Sociologi e studiosi delle organizzazioni parlano di “segregazione orizzontale” e “segregazione verticale”. Per “segregazione orizzontale” si intende il confinamento delle donne in determinati settori e ruoli. Ci sono più donne nei servizi che nell’industria ad esempio ed in generale ci sono funzioni aziendali a vocazione spiccatamente femminile, come marketing, comunicazione e gestione delle risorse umane, e altre riservate quasi esclusivamente ai maschi. Nella politica italiana la metà degli incarichi ministeriali assegnati alle donne rientra nell’area dei diritti e dei servizi. Dal 1994 a oggi quasi il 30% degli incarichi ministeriali, in materia di scuola e università, e oltre il 40% di quelli alla salute sono stati affidati a donne. La presenza femminile è invece minore nei ministeri “pesanti”, a partire da quelli cosiddetti “istituzionali” (Difesa, Esteri, Giustizia e Interno) e soprattutto in quelli economici. Tra i dicasteri istituzionali la prima donna ad aver ricoperto l’incarico di ministra è stata Susanna Agnelli, nominata da Lamberto Dini al vertice della Farnesina nel 1995, mentre Federica Mogherini e Roberta Pinotti, nominate da Matteo Renzi, rappresentano l’unico caso nella storia repubblicana in cui i ministeri di Difesa e Esteri sono stati contemporaneamente guidati da due figure femminili. Le donne sono invece praticamente assenti nei ministeri economici e in quelli delle infrastrutture. Nel primo ambito le uniche eccezioni sono state Emma Bonino, alla guida del Commercio estero nel secondo governo Prodi (2006-08), e Federica Guidi, ministra allo Sviluppo economico del governo Renzi (2014-16). Paola De Micheli, titolare del dicastero delle Infrastrutture e dei Trasporti è stata invece l’eccezione in un ministero altrimenti interamente al maschile dal 1946 (anche nelle precedenti denominazioni dei Lavori pubblici e dei Trasporti).

Avere donne in politica non significa affatto aver raggiunto la parità di genere, soprattutto perché il discorso andrebbe indirizzato più verso la qualità che verso la quantità. E si parla spesso di “valore aggiunto” quando a comandare sono le donne. «Avere donne e anche giovani al potere presenta grandi vantaggi, in primis la differenza di angolazione con cui vengono affrontati i problemi e considerate le varie situazioni al lavoro – ci spiega ancora la Pompei. – Le donne, proprio perché storicamente abituate a dover ottenere con fatica ruoli dirigenziali e autonomia economica, hanno menti più pragmatiche e orientate al raggiungimento degli obiettivi, una inflessibile determinazione che viene dall’essere, in natura, quella, nella coppia, ad occuparsi della cura dei figli e della conservazione della specie. Per questo è stato evidenziato da molte ricerche che i CDA che vedono interagire donne e uomini, hanno una poliedricità maggiore e maggiore resistenza alle aggressioni del mercato». Si può raggiungere il massimo da una donna se questa riesce ad assumere una precisa tipologia di atteggiamento. «Il lavoro è la componente simbolicamente maschile di ogni persona, uomini e donne, esattamente come la creatività è la parte femminile di ogni essere umano – continua la psicoterapeuta. – Se una donna riesce ad essere maschile nel lavoro, quindi avere un approccio più razionale, realistico e deciso, piuttosto che di pancia ed emozionale, completandolo con il suo essere femminile, quindi con la sua creatività e capacità empatica, allora si raggiunge il mix perfetto».

Altra cosa è invece la “segregazione verticale”, ovvero la scarsità di donne in posizione di vertice e, più in generale, la difficoltà a fare carriera nel mondo del lavoro. È il famoso “soffitto di cristallo”: un ostacolo apparentemente invisibile ma mai del tutto rimosso. Secondo dati del 2019 al Parlamento europeo siede il 36% di donne. Considerando i 27 Paesi Ue e il Regno Unito solo il 14,3% dei premier è donnae tra i presidenti la quota sale appena al 21,4%. L’Europa conta un 30% di ministri donne contro il 19% su scala mondiale. Su scala globale, su circa 200 Paesi, solo 20 sono guidati da capi di Stato donne, soprattutto al Nord. In Danimarca è primo ministro Mette Frederiksen, già ministro del Lavoro e della Giustizia, mentre in Islanda Katrín Jakobsdóttir è in carica dal 2017. La Finlandia della premier Sanna Mirella Marin ha anche un altro importante primato: classe 1985 è la più giovane leader di governo nel mondo. L’ultima, in ordine di tempo, è Kaja Kallas che ha prestato giuramento diventando la prima donna premier a guidare un governo in Estonia, il primo e il solo Paese al mondo ad avere avuto due donne (l’altra era il presidente del Paese baltico dal 2016 ad ottobre 2021 Kersti Kaljulaid), nelle due principali posizioni di capo dello Stato e capo del governo.

In Italia le donne occupano solo un terzo delle cariche politiche nazionali. Il governo Draghi ha il record di donne, contando ministre e sottosegretarie, ma la storia della Repubblica Italiana ci racconta ben altro, segno evidente che l’uguaglianza politica, garantita dagli articoli 3 e 51 della Costituzione, ancora oggi non è rispettata. Nessuna donna è infatti mai stata eletta presidente della Repubblica o presidente del Consiglio e la prima a presiedere il Senato è l’attuale presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati, eletta nel 2018. Nilde Iotti, invece, fu la prima presidente della Camera dei Deputati tra il 1979 e il 1992. In totale sono 168 le donne che dal 1946 a oggi hanno giurato al Quirinale per ricoprire incarichi di governo. Di queste 58 hanno svolto la funzione di ministra, mentre le restanti 110 sono state viceministre o sottosegretarie. La prima donna a far parte di un governo è stata Angela Maria Guidi Cingolani, sottosegretaria all’Industria nel settimo governo De Gasperi (1951-53). Bisogna aspettare fino al 1976, a 30 anni dall’istituzione della Repubblica, per avere una donna a capo di un dicastero. La prima ministra della Repubblica è stata infatti Tina Anselmi, partigiana di Castelfranco Veneto (Treviso) eletta con la Democrazia cristiana. Nominata inizialmente ministra al Lavoro e alla Previdenza Sociale nel terzo governo Andreotti (1976-78), ricoprì successivamente l’incarico di ministra alla Sanità.

Ma al di là della politica, la discriminazione delle donne ai ruoli di comando è un problema che esiste in qualsiasi ambito lavorativo ed è per questo che dal 2011 in Italia c’è una legge (la Golfo-Mosca) che obbliga le società quotate a riservare un terzo dei posti nei board di controllo alla rappresentanza femminile. E la proroga di questa normativa qualche anno fa ha dato i suoi frutti. Nel 2020 la presenza delle donne nei Cda è cresciuta dal 5,7% al 35,5%, quelle con incarichi dirigenziali hanno visto un leggero incremento dall’11,9% al 17,6%.

Ma tutto questo non basta. Già se si riuscisse a sradicare il cosiddetto gender pay gap, ovvero la differenza tra la retribuzione di uomini e donne a parità di ruolo e di mansione, sarebbe un bel traguardo. Qualche passo in questa direzione l’Italia la sta compiendo. Dal 1° gennaio 2022 è in vigore la certificazione della parità di genere attribuita alle aziende, per attestare le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre i divari su opportunità di crescita, parità salariale e parità di mansioni, gestione delle differenze di genere e tutela della maternità. Le imprese virtuose che ottengono la certificazione hanno uno sconto dell’1% (fino a 50 mila euro all’anno) sui contributi da versare. Ma i dati europei ci dicono chiaramente che la strada da percorrere è ancora tanta per assistere ad un reale cambiamento. Secondo il Global Gender Gap Report la differenza di retribuzione è del 16% e per le pensioni la situazione è ancora peggiore, con una differenza del 39%. In poche parole: stessa professione, stesse responsabilità, stesso orario, ma buste paga diverse. «Una mentalità che consideri “normale” vedere grandi numeri di donne al potere credo sia ancora lontana a venire, perché i grandi cambiamenti hanno bisogno di tempi lunghi. Intanto un ottimo passo sarebbe quello di raggiungere la parità dei salari ed educare le nuove generazioni ad una maggiore cura della collaborazione e dei rapporti. Anche la solidarietà tra donne, così rara e così difficile, potrebbe avere una parte importante nel produrre un cambiamento significativo. Un ultimo aspetto riguarda l’iniziativa personale: grandi donne del passato e del presente hanno conquistato il loro potere costruendolo da solo, senza aspettare di vederselo servito su un piatto d’argento», ha concluso la psicoterapeuta Paola Pompei.

Insomma, è chiaro che le cosiddette “quote rosa” non sono la vera soluzione al problema. C’è infatti qualcosa a monte negli ingranaggi stessi dell’emancipazione femminile, qualcosa di più profondo che ha a che fare con la necessità di un cambiamento radicale di mentalità più che con tutto il resto. Tina Anselmi già negli anni Settanta diceva: «le donne devono lottare per le altre donne. Gli uomini gratuitamente non ci danno nulla».

BOX: Le dirigenti d’azienda nella classifica di Forbes

Nell’ultima classifica di Forbes, quella del 2021 relativa alle 100 donne più influenti e potenti del mondo, si contano 40 Ceo, il numero più alto dal 2015: guidano aziende che mettono insieme 3.300 miliardi di dollari di fatturato. Unica nota dolente, almeno per noi, è che nella lista non compare alcuna italiana. Più in alto di tutte, al numero 4, c’è Mary Barra, ad di General Motors dal 2014. Al sesto posto c’è invece Abigail Johnson, presidente e ceo della multinazionale dei servizi finanziari Fidelity Investments che precede Ana Botìn, presidente esecutivo di Banco Santander, la più grande banca della Spagna. Tra le altre, spiccano dall’undicesimo posto Karen Lynch, nuova ceo di CvsCarol Tomé di UpsEmma Walmsley di GlaxoSmithKline, prima donna a guidare una grande compagnia farmaceutica, Jane Fraser di CitigroupSusan Wojcicki di YouTube che però si piazza al 18° posto, quattro dopo Fraser. Al numero 48 compare poi Özlem Türeci, immunologa che ha fondato BioNTech assieme al marito, Uğur Şahin, e ha avuto un ruolo decisivo nello sviluppo del vaccino anti-Covid in collaborazione con Pfizer. Perdono invece posizioni in classifica molte donne cinesi, a causa delle politiche governative che hanno limitato l’autonomia delle aziende. È il caso di Dong Mingzhu, presidente dell’azienda di elettrodomestici Gree Electric, scesa dalla 47esima alla 58esima posizione, e di Joey Wat, ad del gigante dei fast food Yum China