La storia di uno dei tanti capolavori dell’artista che ha rivoluzionato la musica mondiale

Hauptstraße, n. 155, Berlino. Un edificio giallo sbiadito. Un appartamento fatiscente, perdite d’acqua dal soffitto. È in questa casa che arriva l’ispirazione per uno dei dischi più belli del rock, di cui quest’anno celebriamo il 45esimo anniversario. Si tratta di “Heroes”, il secondo e più noto album della “Trilogia Berlinese” di David Bowie, che proprio quest’anno avrebbe spento 75 candeline (l’8 gennaio).

La Trilogia crea un prima e un dopo nella carriera e nella vita di David Robert Jones e segna uno dei momenti emblematici e rappresentativi dell’evoluzione musicale degli anni Settanta e dei decenni a seguire.

La Guerra Fredda separa il mondo in due blocchi, in due ideologie e a dividere l’Europa (e una città) c’è una fortezza imponente: il muro di Berlino. La stessa città in quegli anni si muove tra decadenza e sperimentazione artistica, grazie al krautrock (o Kosmische Musik) di Kraftwerk, Neu!, Can e Tangerine Dream che influenzano massicciamente il lavoro di Bowie per gli album della triade: Low (1977), “Heroes” (1977) e Lodger (1979).

Proprio grazie all’arte, i giovani berlinesi riescono a intravedere una fuga, ancora intrappolati tra le macerie di una guerra (calda) e la tensione costante verso il futuro. Ed è proprio in questo contesto che l’artista inglese cerca la sua evasione e la sua cura. Alla fine degli anni Settanta Bowie vuole liberarsi della “cultura della droga” e dello “star system” di Los Angeles e della sua dipendenza dalla cocaina così, complice anche il matrimonio sull’orlo del fallimento con Angela Barnett (Angie Bowie) il cantautore decide di spogliarsi, almeno in parte, dei panni del “Duca Bianco” (“Thin White Duke”, il personaggio che caratterizza l’album Station to Station) e volare dall’altra parte del globo per sfuggire a quello che lui stesso definisce “il periodo più buio della mia vita”. A Berlino il cantautore affronta gli abissi della sua psiche quasi spezzata, tentando di liberarsi dei demoni sempre più pressanti e compone le tre parti di un progetto musicale che farà da pietra angolare per il rock da lì in poi.

Il primo approccio del “Duca Bianco” con l’Europa è lo Château d’Hérouville, vicino Parigi, dove produce un altro disco fondamentale di un altro artista fondamentale, The Idiot (1977) di Iggy Pop. In preda al tormento e alla paranoia, l’Alieno e l’Iguana si trasferiscono nell’ormai famoso appartamento di cui sopra nel quartiere Schöneberg insieme all’assistente personale e amica di Bowie, Coco Schwab, e trovano una creatività mai raggiunta prima.

Il ’77 è, infatti, un anno prolifico. Oltre al gemello Low, Bowie inizia a registrare “Heroes”, che uscirà il 14 ottobre. Si tratta del secondo capitolo della Trilogia e anche il più paradigmatico, in quanto l’unico realmente inciso nella città tedesca, agli Hansa Tonstudio, ex tetra sala da ballo che durante la Repubblica di Weimar ospita party nazisti, situata proprio vicino al Muro nella parte Ovest. Ad accompagnarlo in questo viaggio ci sono Tony Visconti, uno dei produttori più influenti di sempre, e altre due figure centrali per la musica del XX secolo: Brian Eno, colui che ha inventato l’ambient music e riscritto il linguaggio sonoro, e Robert Fripp, fondatore e chitarrista dei King Crimson.

I synth ossessivi di Eno e l’architettura delle chitarre di Fripp si snodano sotto la vocalità tagliente, sofferta e a tratti beffarda di Bowie che, rispetto al disco precedente, esprime in modo più diretto il dubbio e il dolore. L’album è diviso in due parti: il lato A va dalla combinazione sgangherata di piano, elettronica e voce in crescendo di Beauty and the Beast fino alle atmosfere proto-industrial di Blackout, mentre il lato B si apre con la quasi interamente strumentale V-2 Schneider, dedicata al cofondatore dei Kraftwerk Florian Schneider, e si chiude con The Secret Life of Arabia, quasi un’anomalia tra ritmi dance e suoni mediorientali.

La title track, che si trova nella prima parte, è però il vero snodo dell’album, esplosione al contempo di angoscia ed empatia, grazie all’incredibile prova vocale di Bowie, che parte dalle note più basse per poi detonare in un urlo intimo. “Heroes” non è un inno ottimista o una canzone d’amore in senso stretto come spesso si è portati a pensare pensando al verso più famoso del ritornello, «We can beat them for ever and ever/Oh, we can be heroes just for one day», ma rappresenta l’exploit della sensazione di frammentazione e disorientamento che permea tutta l’opera. Lo stesso titolo, “Heroes”, è ironico (per questo viene sempre citato tra virgolette), descrive quell’illusione di “poter essere eroi almeno per un giorno”.

Certo, l’amore ha un ruolo cardine nella scrittura del brano. Dalla finestra degli Hansa Studios, il “Duca Bianco” scorge due figure abbracciarsi e baciarsi all’ombra del Muro: sono Visconti e Antonia Maas, corista dell’album, impegnati in una relazione segreta: all’epoca, infatti, il produttore era sposato. Un’immagine perfetta per raccontare le vicissitudini di due amanti che si incontrano nonostante una barriera di ferro e cemento alta quattro metri. A sostenere il tutto il lamento straziante della chitarra di Fripp, incisa in poche ore, che aggiunge portato emotivo al pezzo. «Arrivai con una Les Paul al collo e un grande Marshall stack, il suono della chitarra fu prodotto semplicemente dai feedback» ricorda il fondatore dei King Crimson.

10 anni dopo, durante lo storico concerto davanti al Reichstag a Berlino Ovest, David Bowie fa orientare le casse verso la parte Est della città, in modo che anche le persone dall’altra parte del Muro possano ascoltare la sua musica. Quando parte “Heroes” dal pubblico si leva un grido: «Abbattete il muro!» e decine di persone tentano di scavalcarlo. Una canzone che racconta di una storia e di una speranza destinate a perire, schiacciate dal potere, diventa simbolo di rivolta e rinascita.

Il disco, così come l’intera Trilogia, rappresentano sicuramente un rinnovamento, un risveglio per il Camaleonte, anche nel look. O non-look. Questa volta Bowie abbandona tutti gli alter ego che hanno segnato la sua carriera fino a quel momento: i fasti glam di “Ziggy Stardust” e “Halloween Jack” e l’aurea algida del “Thin White Duke” lasciano il posto a jeans, maglietta e bomber. Per la prima volta Bowie diventa Bowie e rappresenta le persone comuni, senza fronzoli. Anche nell’iconica copertina dell’album, liberamente ispirata al dipinto Roquairol del pittore tedesco Eric Heckel, il polistrumentista britannico ha una mano alzata vicino al viso, come a volersi togliere la maschera.

Da lì in poi David Bowie sarà ancora uno, nessuno e centomila per i 40 anni successivi e continuerà a sperimentare, a reinventare e mescolare i generi fino alla scomparsa avvenuta nel 2016. “Heroes” è un passo fondamentale nell’ibridazione tra rock ed elettronica e con la sua atmosfera surreale e la sua struttura sonora coesa, solo apparentemente disomogenea, è uno dei capolavori dell’art rock e dell’artista inglese. Perché, come recitava lo slogan di lancio del disco: «C’è la Old Wave, c’è la New Wave e poi c’è David Bowie».

BOX – Il mistero dell’uomo che cadde sulla Terra

David Bowie è stato attivo anche al cinema. Il suo esordio sul grande schermo avviene nel 1976 con L’uomo che cadde sulla Terra, film di fantascienza diretto da Nicolas Roeg e tratto dall’omonimo romanzo di Walter Tevis, in cui interpreta un alieno atterrato casualmente sul nostro pianeta. In prima battuta viene affidato proprio a Bowie il compito di comporre la colonna sonora, ma così non è stato. Il musicista, come raccontato anche dal Guardian, si sarebbe messo al lavoro finite le riprese, riuscendo però a completare solo cinque o 6 brani giudicati “bizzarri” dal regista, che quindi decide di scartarli. Ma dove sono finite queste canzoni? Non c’è la certezza, ma sembra che alcuni spezzoni delle tracce siano disseminati in Low. Alcuni fan sono convinti che la soundtrack sia stata registrata per intero e che l’album sia “nascosto da qualche parte”.