Mentre si prepara l’alleanza ERC-PSC, il kingmaker Puigdemont torna a Barcellona. Bardolet: “avanti con l’indipendenza. Torneremo nelle piazze”. L’analisi di Pallarès-Domènech
«Non può passare per la porta sul retro o per le cucine… Magari cercherà di farsi trasportare come Cleopatra, dentro a un tappeto: con lui tutto è possibile». Così un ex membro del Governo catalano, in anonimo, scherzando sull’imprevedibilità di Carles Puigdemont, alla vigilia del suo annunciato ritorno in Spagna. Cleopatra, convocata da Giulio Cesare dopo la morte di Pompeo e temendo un agguato di re Tolomeo, si fece trasportare nel palazzo avvolta in un tappeto. Puigdemont non teme un agguato mortale, ma sulla sua testa pende un mandato di arresto attivo per il reato di appropriazione indebita. È proprio questa fattispecie, non ricompresa nella legge sull’amnistia concessa da Sanchez agli indipendentisti, ad aver trattenuto in Francia per così tanto tempo il leader di Junts che però, se non è tornato per le elezioni, non perderà anche l’occasione di guastare le feste agli ex alleati.
«Non so quanto tempo passerà prima che ci rivedremo, ma qualunque cosa accada spero che potremo gridare di nuovo: lunga vita alla Catalogna libera!» sono le prime parole che Puigdemont pronuncia a Barcellona, dove mancava da 7 anni. Passeggiando per Calle de Trafalgar, con il presidente del Parlamento Josep Rull e altri esponenti di Junts, ripete ancora il suo mantra: «non abbiamo diritto a rinunciare, perché il diritto all’autodeterminazione è dei popoli».
L’arrivo di Puigdemont non è causale: l’ex presidente della Generalitat entra infatti a gamba tesa proprio nel giorno in cui si sigla l’accordo fra la sinistra indipendentista di ERC e i socialisti. Che il suo arresto possa creare scompiglio tanto da bloccare i negoziati? Dopo un comizio nel Passeig Lluís Companys, di Puigdemont si perdono le tracce nonostante mentre la polizia abbia attivato l’Operazione speciale Cage di controllo delle strade e dei varchi di accesso alla città.

Sono passati 10 anni dalla prima volta che una “consultazione non referendaria” attestava la volontà del popolo catalano di rendersi indipendenti dalla Spagna. In occasione di questo voto, la cui importanza rimase puramente simbolica, votarono sì l’80% degli accorsi, ma con appena il 35% di partecipazione. Erano già evidenti le contraddizioni di un popolo che si è sempre ritenuto tale – a differenza di quanto avviene in moltissimi Stati – ma che non ha mai ceduto ai ricatti del potere. Tre anni dopo ci riprovarono. Andò meglio alle urne, ma i rapporti fra Barcellona e Madrid si sarebbero inevitabilmente deteriorati, in modo irreparabile. O almeno così sembrava qualche mese fa. Il voto del 12 maggio ha però ribaltato gli equilibri aprendo nuovi interessanti scenari nel processo di indipendenza. E in effetti la storia dell’indipendentismo catalano è fatta più di sconfitte che non di conquiste, di autonomia normativa ma anche di occupazione, di discrezionalità politica e costrizione.
Qui il nostro resoconto post-voto in Catalogna e un recap sulle puntate precedenti
Verso l’accordo
Il 12 maggio la Catalogna è andata a elezioni anticipate e da allora i negoziati alla Generalitat de Catalunya (così si definisce l’apparato istituzionale catalano) non si sono mai fermati. Per la prima volta la galassia secessionista ha perso la maggioranza, strappata dai socialisti del PSC guidati dall’ex ministro della sanità Salvador Illa che sfiorano il 28%. I principali partiti indipendentisti sono tre: la coalizione di Junts, Partito dell’ex presidente catalano Carles Puigdemont, seconda al 21%; l’Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) che tracolla al 13% (pagano tre anni non proprio facili di Governo con Pere Aragonès) e gli indipendentisti di estrema sinistra radicale e antiborbonica del CUP (Candidatura di Unità Popolare).

«L’indipendenza comincia dai binari – spiegava il presidente dell’ANC, il cantautore catalano Lluís Llach. – I disinvestimenti nelle nostre strutture e la de-nazionalizzazione del nostro Paese […] non dipendono solo dalla lingua, ma anche dalle strutture che ci indeboliscono come società». Ripartire dal basso, insomma, per riportare la battaglia da un terreno di feroce antagonismo a uno più concreto e negoziale. «L’epica indipendentista degli anni passati è passata a miglior vita a favore di una nuova narrazione politica, abbastanza trasversale a tutti i partiti, che si concentra sulla gestione: educazione, sanità, trasporti, siccità, energia, crisi abitativa. Un ritorno al pragmatismo» osservava anche la politologa Paola Lo Cascio.
E in effetti è così che si è giunti all’accordo fra ERC e il PSC, che si riscoprono ideologicamente vicini ma dovranno scendere a patti su molte cose. A partire dalla fatidica autonomia fiscale. Stando al pre-accordo siglato dai due Partiti, sarà l’Agenzia Fiscale catalana a “gestire, riscuotere, liquidare e controllare tutte le imposte che gravano sulla Catalogna e aumentare in modo sostanziale la sua capacità normativa in coordinamento con lo Stato e l’Unione Europea“. Il tutto con una “maggiore capacità fiscale” della Generalitat. La Catalogna, sempre stando al primo testo condiviso, sarebbe poi tenuta al pagamento di due contributi, il primo per i servizi forniti dall’amministrazione centrale e il secondo in solidarietà con il resto delle Regioni spagnole, entrambi da negoziare bilateralmente. Si parla di circa 1,5 milioni di euro destinati alla creazione di una Tesoreria catalana, fondi che confluiranno innanzitutto nel potenziamento dei trasporti ferroviari, ma anche nella ricerca e nel diritto allo studio. Senza parlare del condono dei 15 miliardi di debiti del Fondo Autonomo di Liquidità richiesto a Sanchez. Si tratterebbe, se fosse tutto vero, di un deciso passo avanti nel procès, in cui però non credono proprio tutti, e non solo per scaramanzia. Lo abbiamo chiesto direttamente a loro: ci siamo fatti raccontare cosa sta succedendo in Catalogna dal politologo e analista geopolitico catalano Narcís Pallarès-Domènech, membro dell’Associació de Catalans a Roma, e da Jaume Bardolet, responsabile per la coordinazione internazionale dell’ANC (Assemblea Nazionale catalana).

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Al netto degli ultimi sviluppi processuali, la legge sull’amnistia ha marcato un punto di svolta nella politica catalana. La mia prima impressione è che il merito più importante di Sanchez sia stato quello di affermare che il procés non è più (solo) una questione giuridica nelle mani di giudici e giustizieri, ma andrebbe invece re-inserito in una dimensione politica. La mia seconda impressione è che questa concessione, pur marcando una vittoria per gli indipendentisti, potrebbe aver anche indebolito il loro appeal nei confronti dell’elettorato (la sfida rivoluzionaria si sta lentamente evolvendo in un compromesso negoziabile). Voi cosa ne pensate?
JB – «È certo che la legge sull’amnistia suppone un cambio di atteggiamento da parte del Governo spagnolo, ma non risolve il tema di fondo. Il governo socialista di Sánchez ha più volte dichiarato di voler porre fine alla repressione e tornare al campo politico, da cui dice che non avrebbe mai dovuto uscire, e questo cambiamento è stato possibile attraverso un negoziato tra il Partito socialista e i partiti indipendentisti. Va detto che questi ultimi hanno agito separatamente, in contrapposizione come sono per l’egemonia del movimento indipendentista. Così tutti hanno dovuto fare concessioni, abbassando il livello delle loro richieste, e questo ha causato un certo livello di delusione e frustrazione da parte di alcuni dei loro elettori, delusi dalla manifesta incapacità di questi partiti di avere una strategia condivisa e di guidare un progetto credibile per andare verso l’indipendenza».

NPD – «Bisogna innanzitutto dire che, senza il procés, forse Pedro Sanchez non sarebbe mai arrivato ad essere presidente del Governo spagnolo, e anzi il fatto che sia diventato premier è stato un effetto collaterale del terremoto politico catalano. Bisogna anche dire che Sanchez è il primo premier della storia della Spagna che governa senza aver vinto le elezioni. Ecco perché per lui sono fondamentali sia ERC a livello locale sia Junts a livello nazionale, con Puigdemont che è diventato il kingmaker di questa legislatura. Sono d’accordo anche io che uno dei grandi meriti di Sanchez sia stato capire che bisognava tornare sui binari della politica e dei negoziati per correggere l’errore strategico del PP, che aveva invece scelto i binari della giustizia (quella deviata peraltro, anche note come “cloacas del estado”, ma questa è un’altra storia). Sanchez ha avuto quindi la necessità ma anche il coraggio di affrontare questa decisione sapendo che avrebbe avuto anche una parte della vecchia guardia del suo partito contro (Gonzalez, Alfonso Guerra) e qualche barone regionale
Uno degli errori più gravi della classe dirigente indipendentista ma anche degli attivisti è stato non fare i conti con la geopolitica. Sbagliata era anche l’idea di una sorta di “indipendentismo magico”, per cui sarebbe bastata la sola volontà popolare espressa in maniera unilaterale con la legittimità politica del referendum per far nascere un nuovo Stato in Europa. È un’idea che ha ripreso ingredienti da altri movimenti e scenari politici come la Scozia, i Baltici o la Slovenia. Ma la Catalogna non è la Scozia e la Spagna non è il Regno Unito, mentre dietro ai Baltici e ai Balcani c’era uno scenario geopolitico di enormi interessi strategici delle grandi potenze.
Dal 2010 al 2017 lo spazio politico catalanista ha ha sofferto una mutazione verso l’indipendentismo, un cambiamento accelerato e frettoloso (“tenim pressa”, “abbiamo fretta”) che si è tradotto in anni politici trepidanti, tappe bruciate e legislature, ma senza mai arrivare al culmine del processo. Questo sforzo ha generato fatica sociale nei confronti delle promesse non mantenute, tanto che l’indipendentismo si è trasformato in resistenzialismo. La lawfare, i prigionieri politici e gli esiliati sono stati un costo enorme anche a livello di leadership. Oggi gran parte di quelli che avevano fretta sono tornati sulla realpolitik dei negoziato de della politica istituzionale. Tutto sommato, la grinta si è sgonfiata e molta gente delusa si è astenuta per protesta».

Ancora: l’accordo siglato con il Governo centrale potrebbe essere un’arma a doppio taglio: gli indipendentisti saranno decisivi per la sopravvivenza del Governo, ma allo stesso tempo sono legate alle autorità centrali e in un certo senso ne riconoscono ufficialmente il potere, indebolendo così la loro battaglia contro le catene madrilene. Pensa che una nuova stagione di negoziati possa aiutare il procés o danneggiarlo?
JB – «Questo tipo di simbiosi tra il governo centrale e i partiti indipendentisti non fa che perpetuare lo status quo. É la vecchia storia delle piccole concessioni per far dimenticare ciò che è essenziale, il diritto all’autodeterminazione del popolo catalano. Questo non aiuta affatto il processo, al contrario, sono manovre di distrazione che impediscono il riconoscimento del diritto dei catalani a decidere democraticamente del loro futuro».
NPD – «Per spiegare la dimensione della Catalogna mi piace citare Franco (…Battiato!) La questione catalana è stato il grande centro di gravità permanente della politica spagnola. Questo, anche perché più volte il sostegno catalano ha consentito alla ruota politica di girare anche quando il Parlamento non trovava una maggioranza. Storicamente il catalanismo ha dato sostegno ai Governi di tutti i colori, in cambio di avanzamenti nel processo di una Spagna federale, un progetto previsto da leggi firmate dal Re di Spagna in persona. Questo equilibrio, però, si è rotto con la svolta anticatalanista del PP di Aznar prima e di Rajoy dopo, con una politica di assedio permanente alla lingua e cultura catalana su tutti i fronti.
Oggi il procès per come era pensato ha fallito negli obiettivi massimalisti, ma ha dato dei risultati che non dobbiamo dimenticare: innanzitutto, ha reso l’indipendentismo un pilastro per le istituzioni catalane. Oggi potremmo dire che i Partiti indipendentisti sono di massa e pragmatici, per usare un’espressione di Giovanni Sartori, ossia ideologicamente trasversali e strutturati, ma soprattutto politicamente rilevanti. Essi godono di un potenziale di coalizione e di intimidazione/ricatto. Gianfranco Pasquino li definirebbe “i partiti che contano”.
Negli anni ’80, quando l’indipendentismo era extraparlamentare, di tendenza comunista e di estrema sinistra e socialmente marginale, tutto questo era impensabile. Quella degli indipendentisti sembrava una messa in scena, un mix fra Lotta Continua e l’Armata Brancaleone, un tutti frutti di riferimenti internazionali, dai sandinisti ai sahraui, dalla rivoluzione cubana alla sinistra basca fino al Sinn Fein, con certe simpatie per i movimenti armati baschi e irlandesi. Il fatto che oggi non sia più così è un grande successo per il procés che, possiamo dirlo, per come lo abbiamo visto 10 anni fa è morto. Da un lato ha esaurito il suo ciclo, dall’altro perché le sfide di oggi hanno riscritto le priorità internazionali».

È vero che nella società catalana ci sono sempre stati due assi (indipendentisti/centralisti e destra/sinistra), ma ci sembra che in questa nuova fase negoziale il Governo voglia spostare la discussione verso un più tradizionale asse ideologico (destra/sinistra) e che i Partiti stessi stiano seguendo questo solco. Ce lo fa pensare in qualche modo anche il fatto che le formazioni indipendentiste siano sempre più riluttanti a partecipare ad un comune fronte secessionista, sembrando invece più impegnate a contrastarsi a vicenda su questioni ideologiche, ma anche pragmatiche. L’ANC ha chiesto a queste formazioni di fare sistema e unirsi in una “Entesa per la República” ma per il momento il progetto non prende quota…
JB – «È vero che c’è stata molta riluttanza a creare un fronte comune per l’indipendenza. La mia impressione è che le difficoltà siano tradizionalmente derivate più dalla lotta per il potere che da questioni ideologiche o pragmatiche. Non credo che in questo momento uno dei due assi domini sull’altro. L’ANC ha invitato i Partiti indipendentisti all’unità strategica, e devo dire che stiamo riscontrando un atteggiamento molto ricettivo, sia da parte delle organizzazioni della società civile che dei partiti. Non sto dicendo che sia un percorso facile, ma sempre più persone lo vedono come l’unico coerente»
NPD – «I due assi variano in base al contesto. Durante il procés l’asse prevalente era quello nazionale, oggi, con le tensioni identitarie più calme di prima, riemerge quello ideologico. cco la strategia di ERC di dare precedenza agli accordi su base ideologica rispetto a ricostituire un fronte catalanista in chiave indipendentista.
Non dimentichiamo che ci sono molte tensioni interne fra le culture di sinistra catalane (ERC, CUP e PSC). Persino dentro il Partito socialista ci sono molti catalanisti in senso culturale e politico, o addirittura federale o linguistico. Uno dei grandi temi di questa legislatura catalana, spagnola ed europea è proprio che il catalano possa diventare lingua ufficiale in Europa. Questo potrebbe essere possibile anche grazie a una parte dell’elettorato indipendentista predisposto a votare in chiave pratica o nell’ottica dei costi-benefici».

L’Unione europea ha avuto un ruolo ambiguo nella questione catalana, da un lato condannando la repressione violenta di Madrid, compresi gli arresti perpetrati nella stagione del referendum, dall’altro revocando l’immunità parlamentare e dicendosi “preoccupata” dal varco aperto dall’amnistia. Dopotutto si tratta di un’unione di Stati sovrani ed è difficile immaginare l’Ue al fianco di moti secessionisti che aprirebbero precedenti in terreni mai esplorati… Anche il supporto del diritto internazionale è ondivago, fra diritto all’autodeterminazione e principio di sovranità degli Stati. Eppure, la “proiezione internazionale” della causa è ancora una sfida importantissima per molti secessionisti. Come mai?
JB – «Sì, il ruolo dell’UE è stato ambivalente, ma non dimentichiamo che continua ad essere un club di Stati: ciò che meno desidera sono i cambiamenti e quindi evita tutto ciò che potrebbe alterare lo status quo. Ma l’UE è anche protettrice dei diritti fondamentali dei suoi cittadini e non può accettare che i conflitti politici si risolvano con la violenza e la repressione. Il diritto all’autodeterminazione non dovrebbe costituire un problema, anzi, spesso nel corso della storia esso è stato la soluzione a conflitti molto gravi. E poi, cosa c’è di più democratico ed europeo che decidere votando, come chiedono i catalani? La Catalogna è sempre stata un Paese molto europeista, ci sentiamo europei, contribuiamo nettamente alle finanze europee e abbiamo fiducia nelle istituzioni europee. L’UE è un’entità molto pragmatica, e spesso è stata in grado di trovare soluzioni a problemi molto complessi, mettendo sempre al primo posto i diritti dei suoi cittadini».

NPD – «L’equilibrio europeo è dettato dalla somma degli interessi degli Stati membri, ma anche delle sue mille declinazioni politiche in partiti, posto che spesso ci si nasconde dietro al capello delle istituzioni UE per promuovere i propri interessi politici. Un conto è non riconoscere e prendere le distanze da un referendum di indipendenza unilaterale, cosa che ha una sua logica dal punto di vista della diplomazia. Un altro conto è compromettere i diritti di rappresentanza, elettorali e di suffragio passivo, come è stato il caso dei Parlamentari UE di Junts per Catalunya (Puigemont e Comín), o come nel caso Junqueras, europarlamentare eletto a cui non hanno mai permesso di prendere il seggio. Cosa che non è successa con la parlamentare Ilaria Salis, rilasciata automaticamente dalle autorità ungheresi. Puigdemont e Comin sono stati eurodeputati anche grazie a politici di grande spessore e taglia, come il presidente David Sassoli, persone che hanno avuto il coraggio di applicare la legge e di far parlare l’Europa con voce propria, mantenendo i principi e i valori fondanti dell’Unione, senza soccombere alla pressioni partitiche degli Stati».
di: Marianna MANCINI
FOTO: Marc Asensio Clupes/ZUMA Press Wire