L’eterogeneo universo dell’indipendentismo, dove ragioni economiche, revisionismo storico e orgoglio etnico si mescolano senza soluzione di continuità

Il composito spettro cromatico dell’indipendentismo sfuma da quella che Ivan Illich definiva “disintermediazione” dalle istituzioni ai toni cupi del terrorismo secessionista, passando per l’orgoglio irredentista e il più moderato autonomismo. Come ci insegna anche l’arte del kintsugi giapponese, però, quella dell’indipendentismo (o contro di esso) è una battaglia persa in partenza se non percorre la via di un dialogo aperto capace di rifiutare le censure e anzi esaltare le fratture, fissando i bordi dei cocci della società con la polvere d’oro dell’ascolto.

Il dibattito si inserisce certamente nel solco della retorica identitaria costruita sulla contrapposizione fra “noi” e “loro” ma, per osservare costruttivamente il fenomeno, è necessario mettere da parte la lente degli estremismi e dei populismi: se spesso la demagogia è veicolare rispetto al messaggio, dietro alle rivendicazioni degli indipendentisti fervono però ragioni storiche, culturali, sociali ed economiche. Quelle che oggi molti democratici etichettano come rivendicazioni anacronistiche, infatti, in realtà contribuiscono a perpetuare nel presente una narrazione che, come tutta la storia, è più pericolosa quando le si nega l’ascolto che non quando la si ricorda.

Proprio il revisionismo storico è uno dei cardini di quasi tutti i progetti indipendentisti. Ne troviamo un chiaro esempio nel “laboratorio” siciliano in cui fioccano le esperienze e i progetti di recupero di un’autonomia innanzitutto identitaria, anche nel solco di una “fratellanza” internazionale con altre realtà indipendentiste, perché “ogni vittoria dell’uno è una vittoria dell’altro, un passo avanti verso l’elaborazione di strade e strategie comuni”.

Così l’associazione Trinacria ha celebrato quest’anno il 740esimo anniversario dai Vespri siciliani, la ribellione esplosa a Palermo il lunedì dell’Angelo del 1282 in seguito alla quale nell’isola divamparono una serie di moti e tumulti che si conclusero con la pace di Caltabellotta e la cacciata dell’invasore francese. L’episodio è ancora oggi emblematico dell’”orgoglio” politico ma anche culturale e linguistico della Sicilia. Si narra ad esempio che per scovare gli angioini camuffati fra la popolazione i rivoltosi sfruttassero lo stratagemma fonetico dello “shibboleth”, chiedendo loro di pronunciare la parola “ciciri”, “ceci” in dialetto siciliano, difficile da scandire per un francese che si sarebbe tradito rispondendo “sciscirì”.

Perché ricordare proprio questo capitolo storico? Ce lo spiega l’ex docente universitario Elio Di Piazza secondo cui la memoria della “più grandiosa lotta di liberazione che il nostro popolo abbia mai combattuto e vinto” è stata “deformata” dal processo di nazionalizzazione “oscurando il carattere rivoluzionario del popolo siciliano a favore del regno savoiardo”.

Ecco dunque che la memoria del Vespro non si esaurisce nel folklore storico, bensì “significa che l’oppressione del popolo non è finita, che sono ancora insopportabili lo sfruttamento, la miseria, l’emigrazione, la catastrofe ambientale, sanitaria, culturale e, non ultima, l’occupazione militare”, come spiega Tiziana Albanese di Trinacriasono cambiati gli oppressori, certo, ma la devastazione territoriale e umana continua inarrestabile».

Attenzione quindi: l’indipendenza “non è un sentimento escludente, divisivo. Non è un lusso, egoismo territoriale o ricerca di egemonia”, è “voglia di riscatto collettivo”, è “l’istinto naturale che spinge una madre Gorgone ad aizzare i suoi serpenti”.

Nell’alveo degli indipendentisti siculi trovano spazio diverse espressioni, dalle proposte politiche concrete ai movimenti culturali. È così che, pur attingendo a due orizzonti temporali molto lontani, concorrono alla stessa causa tanto il movimento dei Siciliani liberi del professor Massimo Costa, foriero di un manifesto per lo “Stato di Sicilia” contro “70 anni di bugie e diritti negati” attraverso una moneta complementare e di una Zona Economica Speciale, quanto i “neoborbonici”, movimento prettamente culturale che assecondando “l’orgoglio di essere meridionali” intende “spiegare agli Italiani le vere cause dell’antica questione meridionale che inizia proprio all’indomani dell’unificazione nel 1860 risolvendo una meno conosciuta questione settentrionale”.

Di revisionismo si parla molto anche in Sardegna, una galassia composita e a sé stante nell’universo dei secessionisti dove nel 2021 l’erezione di una statua di Pierre Francois Marie Magnon, fra “i più sanguinari colonizzatori dei Savoia”, ha riacceso un dibattito mai sopito. L’accusa di cancel culture è presto rispedita al mittente: «se noi avessimo studiato la civiltà nuragica, il periodo giudicale, i moti antifeudali Angioini e la cacciata dei piemontesi avremmo avuto una coscienza ben diversa» rispetto a quella “imposta” dai programmi ministeriali, commentava in un comunicato iRS, il movimento politico Indipendèntzia Repùbrica De Sardigna.

Il movimento repubblicano di iRS non è che una delle decine di espressioni dell’indipendentismo sardo; da esso si distingue ad esempio il progetto nazionalista di Sardigna Natzione Indipendentzia che lotta contro la “negazione dell’esistenza del diritto alla diversità che presuppone l’essere sardi nello Stato italiano”: come è possibile – si chiedono gli attivisti – trovare il proprio spazio in una Nazione in cui la questione della differenza etnica e linguistica è “da considerarsi come indicatrice di devianza, destinata ad essere superata nel corso del tempo”?

Parallelamente a queste formazioni più rigidamente indipendentiste si sono poi sviluppati movimenti autonomisti come il Partito Sardo d’Azione fondato, fra gli altri, da Camillo Bellieni ed Emilio Lussu, marito della partigiana e scrittrice Joyce, il cui progetto perseguiva soprattutto una transizione federalista dello Stato centrale.

È sul filo del federalismo che si sviluppa anche un altro capitolo dell’indipendentismo italiano, quello padano. Nel 2017 Veneto e Lombardia hanno sottoposto al vaglio delle urne due referendum consultivi sul tema del “regionalismo differenziato”. Un appuntamento più politico che pratico che non invocava l’indipendenza né metteva in discussione l’unità nazionale, bensì ammiccava al modello delle Regioni a Statuto speciale.

In Lombardia si assiste a un vero e proprio plebiscito: 96,02%. In Veneto addirittura 98,1%. Setacciando i quesiti consultivi da fuorvianti parallelismi con il referendum catalano, che proprio in quei giorni vedeva deflagrare le tensioni con il Governo centrale spagnolo, il valore della convocazione è stato però soprattutto simbolico: sollevare un’istanza della popolazione per caldeggiare una trattativa con lo Stato e aggirare un muro duro da abbattere quale il principio di unità e indivisibilità della Repubblica italiana.

I due quesiti referendari si sono poi risolti in un accordo preliminare sottoscritto con il sottosegretario Gianclaudio Bressa dal presidente di Regione Veneto Luca Zaia e dagli omologhi di Lombardia ed Emilia-Romagna, Roberto Maroni e Stefano Bonaccini. A giugno 2022 è stata presentata la bozza della legge quadro sull’Autonomia che il responsabile leghista dei Comitati Paolo Franco, però,non ha esitato a definire “tradita” da uno “Stato strozzino”. Anche qui, la storia è tutt’altro che scritta.

L’indipendentismo veneto non è certo privo di radici viscerali e a tratti grottesche. Ci basti pensare alla Veneta Serenissima Armata degli indipendentisti meglio noti come i Serenissimi che nella notte fra l’8 e il 9 maggio del 1997 occuparono piazza San Marco a Venezia con un autocarro artigianale, il Tanko Marcantonio Bragadin 007, rivendicando la restaurazione della Repubblica di Venezia.

Non è così anacronistico, in effetti, prevedere che le istanze indipendentiste che ancora ardono in Italia possano ripresentarsi con dei risvolti violenti. Ce lo ricorda ancora una volta la storia: basta tornare indietro agli anni ‘60 quando l’irredentismo sudtirolese, non senza una certa complicità atlantista dei servizi segreti italiani, perseguendo (anche) gli scopi della “strategia della tensione” sconvolgeva l’Alto Adige con una serie di attentati. Vanno in questo senso le ricerche del giornalista Cristoph Franceschini, autore del documentario Bombenjahre, secondo cui l’Alto Adige degli anni ’60si dimostrò essere “una palestra per i servizi segreti non solo italiani, in cui testare i metodi di lotta non convenzionale adoperati negli anni ’70”.

È in questi anni drammatici che opera il Bas – Befraiungsausschus Südtirol, Comitato per la liberazione del Sud Tirolo protagonista di attentati dinamitardi quali la Notte dei fuochi del 1961 e la strage di Malga Sasso cui partecipa anche Georg Klotz, militante separatista noto come “il martellatore della Val Passiria”.

Klotz lottava per l’unificazione del Tirolo raccogliendo le istanze del suo territorio ma, dopo un attentato sventato e i guai con la Polizia e i servizi segreti, la sua figura divenne “scomoda” al processo di sviluppo democratico che allora si affacciava sul boom economico, trovando una sua dimensione nella società borghese. Nonostante questo, Klotz è ancora celebrato come il combattente solitario di una lotta indimenticata. Nel 2016 in occasione dei 40 anni dalla sua scomparsa un necrologio sul quotidiano Dolomiten ricordava ancora “la sua morte prematura, che resta un monito per il popolo tirolese di non abbandonare mai l’impegno per la libertà”.

Parlando di un “conflitto etnico ben temperato” e citando l’esperto di nazionalismi e scienziato politico Anton Pelinka, l’intellettuale e attivista ecopacifista Alexander Langer ci suggerisce una seconda lettura della questione degli indipendentismi, secondo cui “l’attuale ordinamento autonomistico comporta che le forze dominanti debbano essere interessate al mantenimento del conflitto etnico, che non deve né perdere la sua importanza, né uscire dal controllo di queste forze”.

In questo variegato contesto di sfaccettature e contraddizioni, proprio il sincero impegno di Langer risulta sempre più attuale. Raccogliendo i cocci ancora “caldi” lasciati dal separatismo nella società tirolese, il giornalista di Lotta Continua credeva in una sutura che mettesse al centro il concetto di “bene comune” della polis, senza però perdere una prospettiva globale fatta di ponti fra culture e non di trincee per il potere. Proprio come un ceramista giapponese riparerebbe un vaso rotto, incollando i frammenti senza cancellarne i bordi.