Nel 141° anniversario dell’iconico ponte di Brooklyn, la tragedia di Baltimora fa riflettere. Soprattutto in Italia
L’una di notte di martedì 26 marzo era passata da mezz’ora, quando lo Scott Key Bridge di Baltimora è crollato: una nave portacontainer si era schiantata contro un pilone. Le vittime sono sei, operai immigrati che stavano lavorando sul ponte.
Come testimoniato dalle impressionanti immagini delle webcam, la Dali, questo il nome della mastodontica imbarcazione, stava navigando lungo il fiume Patapsco diretta in Sri Lanka, quando ha subito un’interruzione totale della corrente e tutte le luci si sono spente. Tre minuti dopo, all’1 e 27, la nave ha colpito un pilone del ponte, facendo crollare quasi l’intera struttura in acqua. Il governatore del Maryland Wes Moore ha dichiarato che il ponte era a norma, non essendo noti problemi strutturali.
La nave misura 289 metri, ovvero quanto tre campi da calcio disposti uno dopo l’altro; era piena di container ma può trasportare il doppio del carico. Gli investigatori della sicurezza hanno recuperato la scatola nera della nave (che può rivelare la posizione, la velocità, la rotta, il radar, l’audio del ponte, le comunicazioni radio e gli allarmi della nave) e le indagini sono in corso.
La stessa nave era stata coinvolta in un incidente nel porto di Anversa, in Belgio, nel 2016, quando ha colpito una banchina mentre cercava di uscire dal terminal container del Mare del Nord. Secondo i dati pubblicati sul sito web pubblico Equasis, che fornisce informazioni sulle navi, una successiva ispezione nel giugno 2023 effettuata a San Antonio, in Cile, aveva rilevato che la nave presentava carenze nei “meccanismi di propulsione e ausiliari“.
Il Francis Scott Key Bridge era una delle tre vie per attraversare il porto di Baltimora e gestiva 11,3 milioni di veicoli all’anno. La struttura in acciaio è larga quattro corsie e si trova a 56 metri sopra il fiume. È stato inaugurato nel 1977.
Cos’è successo

«È stato un evento scioccante, non solo per il pubblico ma per gli ingegneri di ponti come me. Lavoriamo molto duramente per garantire che i ponti siano sicuri e, nel complesso, la probabilità di rimanere feriti o, peggio, in caso di crollo di un ponte rimane addirittura inferiore alla possibilità di essere colpiti da un fulmine – scrive Colin Caprani, professore associato di Ingegneria civile alla Monash University, in Australia, su The Conversation – Tuttavia, le immagini di Baltimora ricordano che la sicurezza non può essere data per scontata. Dobbiamo rimanere vigili».
«La Dali, del peso di oltre 100.000 tonnellate era semplicemente troppo massiccia perché la struttura potesse resistere. Date le dimensioni della nave e la sua probabile velocità di circa 8 nodi (15 chilometri orari), la forza d’impatto sarebbe stata di circa 20.000 tonnellate. Quindi quali sono le lezioni apprese in questa fase iniziale? – prosegue Caprani -. Innanzitutto, è chiaro che le misure di protezione adottate per questo ponte non erano sufficienti per gestire l’impatto della nave. Le navi mercantili di oggi sono molto più grandi di quelle degli anni ’70 e sembra probabile che il Francis Scott Key Bridge non sia stato progettato pensando a una collisione come questa».
«Quindi una lezione è che dobbiamo considerare come stanno cambiando le navi vicino ai nostri ponti. Ciò significa che non possiamo semplicemente accettare la struttura così come è stata costruita, ma garantire che le misure di protezione attorno ai nostri ponti si evolvano insieme alle navi che li circondano.In secondo luogo, e più in generale, dobbiamo rimanere vigili nella gestione dei nostri ponti – scrive il docente australiano, che conclude -. Questo tragico evento non fa altro che sottolineare la necessità di spendere di più per il mantenimento delle nostre infrastrutture obsolete. Questo è l’unico modo per garantire che rimanga sicuro e funzionale per le esigenze che gli poniamo oggi».
La tragedia del Ponte Morandi

Queste ultime parole del professor Caprani, sul mantenimento delle strutture obsolete, non possono non far tornare alla mente la tragedia, tutta italiana, del crollo del Ponte Morandi, a Genova. Il viadotto autostradale era stato progettato dall’ingegnere Riccardo Morandi e venne costruito fra il 1963 e il 1967 dalla Società Italiana per Condotte d’Acqua.
Costituiva il tratto finale dell’autostrada italiana A10 (gestita dalla Autostrade per l’Italia in quel tratto), a sua volta ricompresa nella strada europea E80. Tale attraversamento rappresenta un tassello strategico per il collegamento stradale fra l’Italia settentrionale e la Francia meridionale, oltre a essere il principale asse stradale fra il centro-levante di Genova, il porto container di Voltri-Pra’, l’aeroporto Cristoforo Colombo e le aree industriali della zona genovese.
Il 14 agosto 2018 crollò l’intero sistema bilanciato della pila 9 del ponte, provocando 43 morti e 566 sfollati.
Sin dai primi anni il ponte iniziò inoltre a mostrare problemi strutturali e di precoce obsolescenza, palesando in particolare un veloce e grave degrado dei materiali (calcestruzzo armato e calcestruzzo armato precompresso), come evidenziato dallo stesso Morandi. Nel 2006 l’architetto spagnolo Santiago Calatrava propose la demolizione e la ricostruzione del ponte con una nuova struttura in acciaio; tuttavia, considerata l’importanza del viadotto e gli effetti che avrebbe comportato la sua chiusura, il progetto fu rifiutato.
Inoltre, con l’avanzare degli anni, il viadotto venne caricato da un traffico notevolmente superiore a quello previsto dal progetto: nel 2009, secondo uno studio della Società Autostrade sulla gronda di Genova, il ponte sosteneva 25,5 milioni di transiti l’anno, con un traffico quadruplicato rispetto al precedente trentennio e con un’ulteriore crescita del 30% prevista per i successivi trent’anni. Lo studio sottolineava come il volume del traffico, causa di code quotidiane nelle ore di punta (specialmente all’estremità orientale, all’innesto sull’autostrada Genova-Milano), producesse un aggravio delle sollecitazioni della struttura, accelerandone il degrado.
A conferma di ciò, con l’avvento del terzo millennio, le attività manutentive si erano fatte praticamente quotidiane, con un conseguente aggravio dei costi gestionali. Lo studio ipotizzava che, nella variante della “gronda bassa”, il viadotto venisse demolito e sostituito da una nuova struttura posta poco più a nord. I costi per la continua e straordinaria manutenzione, secondo l’ingegnere Antonio Brencich (professore associato di costruzioni in cemento armato all’Università degli studi di Genova), avrebbero presto superato quelli di un’eventuale ricostruzione.
Il 7 luglio 2022 è cominciato il processo per il crollo, con 59 imputati tra ex vertici e tecnici di Autostrade per l’Italia e Spea (la società responsabile delle manutenzioni e delle ispezioni), dirigenti ed ex dirigenti del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti e funzionari del Provveditorato. Le accuse sono omicidio colposo plurimo, omicidio stradale, crollo doloso e omissione d’atti d’ufficio. A breve ne inizierà un’altro, basato su un secondo filone dell’inchiesta.
Secondo la perizia presentata nell’incidente probatorio del processo sulle cause dell’evento, la causa del crollo è stata la mancanza e/o l’inadeguatezza dei controlli.
Il futuro sul Ponte sullo Stretto

Il ponte sullo stretto di Messina è un progetto di costruzione di un ponte stradale e ferroviario tra i comuni di Messina e di Villa San Giovanni sullo stretto di Messina. L’idea di costruire un ponte che colleghi la Sicilia alla Calabria e al continente europeo risale a prima dell’unità d’Italia. L’opera rientra nel corridoio Scandinavo-Mediterraneo delle reti transeuropee dei trasporti.
Il progetto definitivo approvato nel 2011 prevedeva un ponte sospeso con una campata centrale di 3.300 metri di lunghezza, tuttavia, con decreto 18 ottobre 2012, il governo Monti impose la sospensione del progetto.
Il governo Meloni ha riavviato l’iter finalizzato alla realizzazione dell’opera e di una serie di infrastrutture correlate dal costo complessivo stimato di 10 miliardi di euro. Secondo WeBuild, capofila del consorzio appaltatore Eurolink, il costo sarà di circa 11 miliardi, ripartiti in 4,5 miliardi (40%) per il ponte in sé, 5,3 miliardi (50%) per le opere di collegamento funzionali al ponte e 1,1 miliardi (10%) per altre opere di collegamento non direttamente funzionali al ponte e opere di mitigazione ambientale.
Il progetto definitivo del 2011 aggiornato è stato riapprovato dal nuovo Consiglio di amministrazione della società concessionaria Stretto di Messina spa il 15 febbraio 2024, con la richiesta di diverse prescrizioni cogenti da rispettare nella successiva fase della progettazione esecutiva (e che dovranno poi essere nuovamente e previamente verificate e approvate dal Comitato scientifico e dal Consiglio di amministrazione in vista di poter autorizzare la costruzione del ponte).
Il Comitato scientifico ha individuato quattro linee principali di criticità nel progetto. Innanzitutto ha sottolineato la necessità di condurre ulteriori verifiche sugli effetti del vento, richiedendo un aggiornamento della valutazione adottata nel piano definitivo del progetto originale del 2011 e realizzato da un gruppo di ricerca dell’Università di Genova. In secondo luogo, nella relazione è stato chiesto un aggiornamento della “zonizzazione microsismica”, ovvero la verificare della resistenza degli elementi strutturali di fronte a sismi di forte intensità come quelli recentemente registrati in varie parti del mondo. In un’altra osservazione si chiedono nuove analisi e previsioni con scenari che «tengano conto dell’azione combinata del vento e dei carichi di traffico ferroviario e stradale» per confermare il livello di sicurezza del ponte anche in caso di eventi estremi. Infine, per quanto riguarda l’uso dell’acciaio, il comitato ha chiesto l’impiego di materiali nuovi e ha richiesto chiarimenti su come e dove verrà reperito l’acciaio, garantendo che rispetti le nuove normative in termini di elasticità.
Non ha dubbi Antonio Risitano, professore di Costruzione macchine all’Università di Catania: «Il ponte sullo stretto non è sicuro, ma soprattutto non è affidabile. La sicurezza che devono dare i progettisti deve essere oggettiva» ha affermato a Cusano Italia TV. «È oggettiva nei limiti in cui la conoscenza permette di essere oggettiva, lì ci deve essere la sicurezza al 100% e la struttura deve essere affidabile, cioè deve mantenere la sua sicurezza nel tempo». Nel dettaglio: «Do due numeri importanti che determinano e definiscono perché questa struttura non sarà mai essere sicura e affidabile: il coefficiente di flutter 1 e 36, e il coefficiente di sicurezza delle funi portanti, che sono il cuore del ponte, che è 1 e 25».
Secondo il professore, non rispettare questi coefficienti dovrebbe far spaventare prima di tutto chi è del mestiere, «perché l’1 e 36 è un fattore che non si corregge ed è legato a quell’ 1 e 25 che rappresenta il carico di sicurezza delle funi, che rappresenta una garanzia – ha sottolineato -. Per una struttura del genere è assurdo pensare che possa essere accettabile un coefficiente di questo tipo, è impensabile. Questa è un’ala d’aereo come l’hanno definita tutti, ed è un’ala d’aereo in condizioni di turbolenza». Il rischio è massimo «quando questi due numeri arrivano a essere coincidenti e quando il rapporto è 1 si hanno le condizioni per cui il ponte si mette in ritrazione, oscilla e la capacità smorzante dei materiali non è capace di fermare questo fenomeno.
La voce tecnica di Risitano si aggiunge al coro di comitati locali e/o ambientalisti preoccupati per l’impatto dell’opera.
Ponti tra storia e futuro

Il ponte è una delle opere dell’ingegno umano più grandiose, sin dall’antichità. Nasce per utilità, ma è innegabile la sua carica di significato metaforico.
Gli antichi romani avevano intuito che la costruzione di ponti facilitava le loro conquiste territoriali, ma consentiva anche una rapida espansione commerciale e culturale con lo scopo di assottigliare il più possibile le differenze tra i popoli. Attraverso la costruzione di ponti ed edifici, utilizzando la tecnica ad arco degli Etruschi (solidità e durata), Roma manifestava la sua bravura, efficacia, bellezza, forza e opulenza, tutto ciò che serviva a stupire il mondo.
La realizzazione di opere destinate a segnare inevitabilmente cambiamenti nell’ambiente in cui si inseriscono e nelle persone che vi interagiscono, unisce due parti in origine divise. E infatti sono molte le metafore linguistiche legate alla parola “ponte“, al di fuori dell’ambito ingegneristico (“tagliare i ponti”, “gettare un ponte”, fino alla funebre “attraversare il ponte”, etc.). Nelle città, i ponti hanno anche un forte impatto iconico, come il Ponte di Brooklyn, al suo 141° compleanno, il Tower Bridge di Londra, il Ponte di Rialto a Venezia.
Per questo, oltre al lutto per le vittime, quando crolla un ponte l’impatto psicologico nell’immaginario collettivo va ben oltre il disastro architettonico. E la costruzione di un nuovo ponte, soprattutto in un contesto molto complesso, provoca inquietudine, oltre che dubbi razionali e documentati. Chimera o progetto simbolo di un Paese ambizioso?
di Giulia Guidi
Foto ANSA