Una bambina di 9 anni scompare in un pomeriggio d’estate e ogni pista battuta è un nulla di fatto: 37 anni dopo intorno a Thérèse Johannessen c’è ancora solo il silenzio che l’ha inglobata per sempre

L’aggettivo “asfissiante” è molto versatile. Il vocabolario ne dà questa descrizione: “che provoca soffocamento, asfissia, che toglie il respiro”. Viene usato spesso in estate in quelle zone del mondo, ormai a dire il vero sempre di più, in cui il termometro raggiunge temperature così elevate da dare la sensazione che manchi l’ossigeno. La Norvegia non è generalmente annoverata tra i Paesi in cui il mese di luglio appare soffocante eppure c’è stato un anno in cui una asfissiante cappa di silenzio è scivolata come nebbia mattutina su Drammen, nella contea di Buskerud, soffocando un intero quartiere.

Era la tarda mattina del 3 luglio 1988. Era domenica: le strade del quartiere Fjell erano assolate e tranquille, pigre come le famiglie che erano uscite di casa più tardi del solito. Una di quelle giornate calde e luminose in cui sembra impossibile che possa accadere qualcosa di brutto. Nei cortili tra le palazzine del quartiere giocavano i bambini, quelli che erano abbastanza grandi da uscire da soli o quelli che erano così fortunati da avere fratelli o sorelle più grandi disposti a trascinarseli dietro. Tra di loro c’erano le sorelle Johannessen: Thérèse, 9 anni, e la sorellina più piccola, vivevano con la madre Inger in uno dei complessi residenziali del quartiere. Erano una famiglia conosciuta, d’altronde i quartieri cittadini funzionano come dei piccoli paesi: tra vicini ci si conosce, soprattutto quando si hanno figli coetanei, si finisce per vedere sempre le stesse facce, a scuola, ai giardini, nei palazzetti sportivi. Thérèse aveva lunghi capelli biondi, era sempre sorridente, e quel giorno aveva indossato una semplice maglietta bianca e una gonna di jeans, sopra i consueti calzettoni a righe e le scarpe da ginnastica.
Poco distante dal punto dove i bambini si erano riuniti per giocare c’era il chiosco dei gelati: riusciamo a immaginarli senza difficoltà indicarsi a vicenda l’allegra insegna, l’acquolina in bocca e quello strappo alla regola che gli verrà concesso, perché è estate, è domenica, e hanno in tasca tanti spiccioli quanti ne bastano per commettere quella dolce infrazione.
Entrarono tutti, i bambini del quartiere Fjell; tutti tranne Thérèse, che scuotendo la testolina bionda decise che lei avrebbe aspettato fuori: il gelato non le andava, o forse voleva tenere i soldi per qualcos’altro, non lo sapremo mai. Sappiamo solo che la bambina rimase sola, vicina al muretto di fianco al chiosco dei gelati. E quando gli amici uscirono armati di cono e coppette con i loro gusti preferiti, Thérèse era scomparsa. 

Mi occupo di cold case da qualche anno ormai e ho finito per trovare alcuni elementi che si ripetono sempre uguali, caso dopo caso: il più diffuso – e banale – è sempre questo, la minimizzazione. Chiaro, è umanamente comprensibile: solo gli ansiosi si fanno prendere subito dal panico, nella maggior parte dei casi quando qualcuno ci sembra scomparso si è semplicemente allontanato, per gioco nel caso di un bambino, per rabbia nel caso di un adolescente, per distrazione, se si tratta di un adulto. Gli amici di Thérèse pensarono che fosse tornata a casa, che avesse incontrato qualcuno, che la madre l’avesse richiamata. Ci volle qualche ora perché proprio la mamma della bambina si rendesse conto che la piccola non era con i suoi amichetti e che non dava segno di sé né al parco né nel cortile antistante casa, né per strada. Poco dopo mezzogiorno Inger Johannessen avvisò la polizia e nel pomeriggio scattarono le ricerche, rapide e massicce. 

Vennero coinvolti più di cento agenti. Vennero mobilitate squadre di ricerca con cani, elicotteri, sommozzatori. Vennero perlustrati boschi, sentieri, scantinati, case abbandonate. Cittadini e volontari si unirono alle squadre, la descrizione della bambina venne diffusa a livello nazionale e le foto di Thérèse passarono di mano in mano, il suo nome si alzò di strada in strada, ma in risposta, solo il silenzio. Di ora in ora sempre più asfissiante. Furono indagini lunghe e vennero seguite numerose piste. Dopo aver escluso l’ipotesi di un allontanamento volontario si prese in considerazione il rapimento. Vennero interrogate 1.721 persone, vennero raccolti oltre quattromila suggerimenti, registrati più di tredicimila movimenti tra persone e veicoli. Vennero impiegati ipnotisti per interrogare i testimoni, vennero mappati gli spostamenti di tutti i vicini di casa ma nessuno aveva visto nulla. Era come se la bambina fosse semplicemente scomparsa nel nulla, si fosse volatilizzata: non c’era stata un’auto sospetta, una scena di lotta, nemmeno un’ombra risultava fuori posto quella domenica assolata. Per dieci anni gli inquirenti girarono a vuoto e la famiglia Johannessen affogò nella sua disperazione. 

Un’apparente svolta arrivò nel 1998 quando un uomo di nome Thomas Quick (all’anagrafe Sture Bergwall) confessò l’omicidio di Thérèse. Quick era già stato condannato per altri omicidi e in un primo momento la sua confessione resse. La polizia scandagliò il lago Ringen dove Quick affermava di aver abbandonato il corpo, ma vennero ritrovati solo dei frammenti di legno. Non c’erano prove fisiche né testimonianze indipendenti che confermassero le parole di Quick e anni dopo l’uomo ritrattò, ammettendo di aver inventato tutto: per tenere alta l’attenzione su di sé forse, o forse perché istigato da polizia e avvocati, non è dato saperlo. Fatto sta che il caso di Thérèse tornò al punto di partenza.

Un’altra cosa che ho imparato dallo studio dei cold case è che il tempo è il peggior nemico della verità. In alcuni casi si può rivelare un alleato inatteso ma per la maggiore, più il tempo fa scorrere acqua sulla memoria collettiva più le possibilità di scoprire la verità si fanno esili. Nel 2013 la scomparsa di Thérèse Johannessen fu archiviata, il caso cadde in prescrizione. Nel 2017 il caso venne preso in carico dal gruppo dedicato ai “cold case” della polizia norvegese e nel 2020 furono trovate tracce di DNA della bambina su una vecchia gomma da cancellare e su una federa ma le nuove prove non portarono a nuovi sospetti né crearono alcun tipo di collegamento con un potenziale colpevole. La madre della piccola, Inger, cerca ancora la verità. D’altronde come è possibile arrendersi? Anche quando si sente l’ossigeno diminuire, come si può smettere di cercare di respirare?

Il tempo è andato avanti, lo fa sempre, lo fa anche quando non sarebbe giusto. Sulla foto di Thérèse si sono accumulate 37 primavere. Fjell è cambiata, i bambini che giocavano in cortile e indicavano il chiosco di gelati sono diventati adulti e adesso sono i loro figli a rincorrersi per le strade assolate della cittadina norvegese che ha dimenticato, perché è questo il potere del tempo. C’è qualcosa di profondamente inquietante nel pensare che una bambina possa semplicemente sparire, senza un urlo, senza una traccia, in mezzo a case abitate, come inghiottita da un’ombra che ancora oggi si nasconde tra i vicoli della memoria collettiva.