Una “svolta storica” che rischia di cadere nel nulla di fatto. La Corte Costituzionale si è pronunciata, ora tocca al legislatore

«Alla bimba metterò entrambi i cognomi, perché sono importanti allo stesso modo. Mettere solo il cognome del padre deriva da un sistema patriarcale con cui non mi trovo d’accordo».  Queste parole sono state pronunciate lo scorso anno dalla nota influencer e imprenditrice italiana Chiara Ferragni quando, in vista della nascita della secondogenita, annunciava al suo seguito – e al mondo – che anche la bambina come il primogenito Leone avrebbe avuto sia il cognome paterno, quello del rapper Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, che quello materno. Se è stata l’influencer, con la nascita di Vittoria Lucia Ferragni, a (ri)portare il tema al grande pubblico, le origini della questione dell’attribuzione del cognome ai neo nati hanno radici ben più profonde ed è stato grazie ad altre coppie di genitori, sicuramente meno conosciute, se l’Italia ha potuto raggiungere traguardi storici per il diritto civile e la parità di genere.

Già nel 1988, forse troppo in anticipo sui tempi per un’Italia che aveva da poco abolito il ruolo del pater familias – la legge 151 che varò il nuovo diritto di famiglia venne approvata il 19 maggio del 1975 -, con l’ordinanza numero 176 la Corte Costituzionale suggerisce come “possibile” l’introduzione di un “criterio diverso” per l’attribuzione del cognome (che in modo un po’ contorto ma sempre riferito al vincolo matrimoniale la Consulta definisce “nome distintivo dei membri della famiglia costituita dal matrimonio”) in virtù del rispetto dell’“autonomia dei coniugi”, sancita dall’articolo 29 della Costituzione. Il suggerimento, tuttavia, cade nel vuoto.

Nel 2006 l’organo di garanzia si vede costretto ad aggiustare il tiro, riferendosi nuovamente e in modo più deciso a quell’articolo 29 che sancisce l’“eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, un’eguaglianza violata da un quadro normativo immutato a cui solo il legislatore può porre rimedio. Nuovamente tutto resta immobile ma, nel momento in cui la Consulta è chiamata ad esprimersi, la questione è già arrivata nelle aule della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.

Il 26 aprile del 1999, infatti, era nata Maddalena, prima figlia di Alessandra Cusan e Luigi Fazzo. Contro il volere dei genitori, che desideravano per la figlia l’attribuzione del solo cognome materno (per tramandare il patrimonio morale di un nonno materno di cui solo Alessandra era l’erede), l’ufficiale dello stato civile registra la bambina con il cognome paterno, negando alla coppia la possibilità di decidere. L’anno successivo, in giugno, i due presentano ricorso al Tribunale di Milano ma vengono respinti in quanto l’assegnazione del cognome paterno corrisponderebbe “a un principio ben radicato nella coscienza sociale e nella storia italiana”. I coniugi non ci stanno: interpongono appello ma vengono nuovamente respinti il 24 maggio 2002; presentano ricorso in Cassazione dove la questione incidentale della legittimità costituzionale viene giudicata “rilevante e non manifestamente infondata” e trasmessa alla Corte Costituzionale; il 16 febbraio 2006 quest’ultima bolla la questione come inammissibile e la Cassazione, con sentenza del 29 maggio, si trova costretta a respingere il ricorso specificando, tuttavia, che “la norma denunciata dai ricorrenti era retaggio di una concezione patriarcale della famiglia non in sintonia con le fonti sopranazionali, ma che spettava comunque al legislatore ridisegnarla in senso costituzionalmente adeguato”.

Il 14 dicembre 2012 i coniugi, dopo aver presentato richiesta ufficiale e motivata al Ministero dell’Interno, ricevono dal prefetto di Milano l’autorizzazione a cambiare il cognome dei loro figli in “Fazzo Cusan”. Decidono comunque di proseguire la loro battaglia davanti alla Corte di Strasburgo dove ricevono, con sentenza del 7 gennaio 2014, l’appoggio dei giudici. Come si legge nella pronuncia, infatti, il rifiuto delle autorità italiane avrebbe violato a livello sopranazionale l’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), articoli che tutelano la vita privata e familiare di ogni individuo contro l’ingerenza di un’autorità pubblica e il godimento dei diritti e delle libertà senza alcuna forma di discriminazione. Un solo giudice si oppone, il serbo Dragoljub Popović, secondo il quale i ricorrenti “non hanno subito alcun pregiudizio significativo” e la questione sollevata “riguarda la tradizione di ciascun Paese e la prassi contestata non dovrebbe essere soggetta a armonizzazione a livello europeo”.

Solo un paio di anni dopo la Corte Costituzionale italiana è nuovamente chiamata ad esprimersi. Con un’ordinanza del 28 novembre 2013, infatti, la Corte d’appello di Genova solleva la questione di legittimità costituzionale della norma riguardante “l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa contraria volontà dei genitori”. Il caso riguarda una coppia di genitori, anch’essi sposati, a cui l’ufficiale di stato civile aveva rifiutato la richiesta di attribuire al figlio entrambi i cognomi. Su questa scia la Consulta emette la prima, storica, sentenza sul tema, la numero 286 dell’8 novembre 2016, pubblicata il successivo 21 dicembre, in cui dichiara incostituzionale la norma desumibile dagli articoli 237, 262 e 299 del codice civile, l’articolo 72, primo comma, del regio decreto numero 1238 del 9 luglio 1939 e gli articoli 33 e 34 del decreto del Presidente della Repubblica numero 396 del 3 novembre 2000 che “non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno”. Secondo gli ermellini, infatti, tale norma viola gli articoli 2, 3 e 29 della Costituzione, oltre che una serie di norme sopranazionali, tra cui la Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1979, che all’articolo 16 recita: «gli Stati Parti prendono ogni misura appropriata per eliminare la discriminazione contro le donne in tutte le questioni relative al matrimonio e ai rapporti familiari».

Il nodo giuridico – e in profondità soprattutto sociale -, tuttavia, resta ben lungi dall’essere risolto. Se i giudici genovesi, infatti, avevano sollevato la questione in merito ai “figli legittimi”, il 28 dicembre del 2013 (solo un mese dopo l’ordinanza del Tribunale) il decreto legislativo numero 154 ne aveva abolito la distinzione giuridica dai figli naturali e figli adottati, abrogando i relativi comma dell’articolo 87 del codice civile e introducendo lo status univoco di figlio. Inoltre, alla luce delle statistiche, la sentenza della Consulta, laddove parla di figli di “coniugi”, appare indietro sui tempi. Secondo le rilevazioni pubblicate dall’Eurostat nel luglio del 2020, infatti, il 34% delle nascite avvenute in Italia nel 2018 riguarda bambini nati fuori dal matrimonio (la media europea è del 42%), contro il 9,2% del 2000 e il 4,3% del 1980. Quest’ultimo punto viene parzialmente risolto dalla Circolare numero 7 del 14 giugno 2017 diramata dalla Direzione Centrale per i Servizi Demografici del Viminale che, nel dare indicazioni sull’attribuzione del cognome, parla di “genitori del nuovo nato, tra loro coniugati o meno” sottolineando che “già dal 1975 la riforma del diritto di famiglia ha superato il principio per cui tale potere (di attribuzione del cognome) spetti al padre quale capo della famiglia e titolare delle decisioni familiari”. Se il Ministero dell’Interno non si affida alla parola “coniugi”, tuttavia, prende molto seriamente l’ordine in cui i cognomi devono essere attribuiti e stabilisce che la dicitura “anche il cognome materno” indica “la posposizione di questo al cognome paterno, e non l’anteposizione”. Il cognome della madre, dunque, sì, ma non per primo.

I nodi tuttavia, come si sa, vengono sempre al pettine: il 17 ottobre del 2019 è il Tribunale di Bolzano a rimettere alla Corte Costituzionale la questione di legittimità in merito al primo comma dell’articolo 262 del codice civile (“Il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre”). Il caso, questa volta, riguarda l’attribuzione del solo cognome materno a una bambina riconosciuta da entrambi i genitori ma nata fuori dal matrimonio. Le parti della disputa, a differenza di altri casi, sono invertite: l’atto di nascita della bimba, infatti, riporta il solo cognome della madre e il pubblico ministero presenta ricorso perché il documento venga rettificato. Il Tribunale segnala che la scelta dei genitori è in contrasto con il suddetto comma che, da parte sua, violerebbe i già citati articoli 2, 3 e 117 della Costituzione, soprattutto alla luce della sentenza degli ermellini del 2016. L’“indifferibile intervento legislativo” auspicato dalla pronuncia, infatti, è rimasto ancora una volta non attuato. Il 14 gennaio del 2021 la Consulta si riunisce in camera di consiglio e annuncia di aver sollevato davanti a sé stessa la questione di costituzionalità della norma in merito, come confermato poi dall’ordinanza depositata l’11 febbraio: per l’Italia è il primo passo verso una svolta storica.

I risultati della consultazione arrivano poco più di un anno dopo, il 27 aprile 2022, quando la Corte ha ufficialmente dichiarato l’articolo incriminato come incostituzionale. Le motivazioni vengono depositate il successivo 31 maggio. La pronuncia numero 131 riconosce che il cognome, nella sua valenza pubblicistica e privatistica, contribuisce a individuare “profili determinanti” dell’identità personale della persona e proprio sotto questo profilo la disciplina sull’attribuzione, con le sue limitazioni, non sarebbe conforme al secondo articolo della Carta Costituzionale. Ancora, si afferma che il cognome “rappresenta il nucleo dell’identità giuridica e sociale della persona: le conferisce identificabilità […] e incarna la rappresentazione sintetica della personalità individuale, che nel tempo si arricchisce progressivamente di significati”. In tal senso, il modo in cui “testimonia l’identità familiare del figlio” si intreccia con il rispetto dell’“eguaglianza e la pari dignità dei genitori”. L’articolo 262, imponendo il cognome paterno, dunque, “si traduce nell’invisibilità della donna”, sancendo una diseguaglianza che “si riverbera e si esprime sull’identità del figlio”.

Gli ermellini ricostruiscono poi la storiografia delle loro pronunce, facendo riferimenti alle già citate opinioni espresse nel 1988, nel 2006 (dove definivano il sistema di attribuzione “retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale”) e nel 2016 (dove sottolineavano la mancata introduzione di un “criterio diverso”). Infine, “preso atto che delle numerose proposte di riforma legislativa […] nessuna è giunta a compimento”, i giudici dichiarano di non potersi più esimere dal “rendere effettiva la legalità costituzionale” della norma. Le proposte di legge a cui si riferiscono, ben cinque da riunire in un unico testo, depositate da diverso tempo, infatti, avevano iniziato il loro iter all’interno dell’organo legislativo solo il 15 febbraio precedente, rimanendo tuttavia impantanate in Commissione Giustizia al Senato.

All’atto pratico, la Consulta, dichiarando incostituzionale l’imposizione automatica del cognome paterno, stabilisce che alla nascita vengano attribuiti entrambi i cognomi, i genitori potranno decidere in quale ordine o se attribuirne solo uno, quello paterno o quello materno. Viene, invece, esclusa la possibilità di inventare un cognome ad hoc. L’operatività di tali regole viene ancora una volta ribadita dal Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Ministero degli Interni con la circolare numero 63 del 1° giugno 2022.

La sentenza, definita “storica”, ha incontrato il plauso della società italiana e delle diverse realtà per la tutela dei diritti umani. Ancor prima della pronuncia, alcune di queste avevano presentato le loro opinioni alla Corte, poi messe agli atti. Secondo l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica e l’Associazione VOX – Osservatorio italiano sui diritti, come si legge nell’atto depositato il 5 marzo 2021, la normativa aveva “carattere discriminatorio nei confronti della donne” ed era “frutto di una concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti”. La presidente dell’associazione Rete per la Parità e coordinatrice del Gruppo di Lavoro dell’ASviS (Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile) sul Goal 5 dell’Agenda 2030, Rosanna Oliva de Conciliis, ha sottolineato come la dichiarazione di incostituzionalità “contempera due esigenze che sembravano di difficile composizione: riconosce a figli e figlie entrambe le origini, materna e paterna, eliminando così la discriminazione contro le madri, ma permette anche scelte diverse ai genitori se di comune accordo”. Parità, dunque, da un doppio punto di vista.

Ma attenzione a farsi trascinare dall’entusiasmo, sono diversi infatti i punti che nonostante la pronuncia appaiono ancora fumosi e poco chiari. Tre in particolare: il doppio cognome con il succedersi delle generazioni, l’uniformità di cognome tra fratelli e il mancato accordo tra i genitori. Nel primo caso la Consulta ha auspicato una “tempestiva” presa di posizione del legislatore per “impedire che l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori comporti, nel succedersi delle generazioni, un meccanismo moltiplicatore che sarebbe lesivo della funzione identitaria del cognome”; nel secondo caso gli ermellini suggeriscono che la scelta del cognome del primogenito venga stabilita come vincolante per i figli successivi così da rispettare “l’interesse del figlio a non vedersi attribuito – con il sacrificio di un profilo che attiene anch’esso alla sua identità familiare – un cognome diverso rispetto a quello di fratelli e sorelle”. Il terzo caso sembra essere quello più complesso: i giudici, infatti, segnalano che in caso di disaccordo i genitori possono rivolgersi allo “strumento che l’ordinamento giuridico già appronta per risolvere il contrasto fra i genitori su scelte di particolare rilevanza riguardanti i figli”, l’intervento del giudice. La domanda tuttavia sorge spontanea (e a rispondere, ancora, dovrà essere il legislatore): in un contesto di assoluta parità, su quali basi il magistrato dovrebbe decidere quale cognome attribuire al figlio?

Una quarta questione, ancora, non può essere lasciata indietro, l’omogenitorialità. La distinzione tra madre e padre, materno e paterno, infatti, potrebbe – o dovrebbe – essere presto costretta a tramontare.

Sembra dunque che, nonostante i ritardi e un’evidente remora ad andare avanti – come del resto in molti altri casi in cui al centro del dibattito ci sono i diritti civili -, il Parlamento sia chiamato obbligatoriamente ad agire. E a farlo in fretta. Un mancato intervento potrebbe comportare due gravi conseguenze: il caos anagrafico legato al vuoto legislativo, in primis, seguito dalla vanificazione di un salto in avanti verso la vera eguaglianza – come del resto in molti altri casi in cui al centro del dibattito ci sono i diritti civili.