Il sindacato più rappresentativo per numero di iscritti smette di baccagliare e lancia un referendum che promette di pronunciare la parola definitiva sul Jobs Act. Meriti e criticità dei quattro quesiti
L’estate più calda di sempre volge forse al termine per lasciare il passo ad un autunno che non sarà da meno a temperature. Si apre una nuova stagione referendaria per l’Italia, con la CGIL a prua a indicare la strada di un cambio di passo necessario e (quasi) tutta l’opposizione scalpitante sul ponte della nave. Nel nome del movimentismo, il più politico dei sindacati si appresta ad avviare la rivoluzione, armato di due referendum su lavoro (non solo Jobs Act) e autonomia differenziata. Cosa aspettarci?
La riforma della discordia, ancora Jobs Act
È nel solco delle polemiche, più che delle critiche di merito, che prende il via questa campagna referendaria. Il vento soffia sul nervo scoperto della sinistra degli ultimi 10 anni, il Jobs Act. Com’è noto la riforma aprì alla liberalizzazione dei contratti a termine come incentivo all’occupazione, oltre a modificare i regimi sanzionatori per le aziende giudicate colpevoli di licenziamenti illegittimi, alzando due spartiacque, uno fra i dipendenti assunti prima e dopo il 2015 e uno parallelo a spaccare per sempre la sinistra. Ma partiamo, appunto, dal merito e quindi dai quattro quesiti proposti dalla CGIL.
Il primo caso riguarda i licenziamenti illegittimi: oggi un dipendente indeterminato assunto dopo il 7 marzo del 2015 non è sottoposto alla legge del reintegro, ma al solo indennizzo monetario. Questo, si capisce, rischia di incentivare un meccanismo “utile a consentire al datore di lavoro di prevedere il costo di un licenziamento potenzialmente esposto a censure di legittimità”, il cosiddetto “firing cost” come spiega Giovanni Piglialarmi sul Bollettino Adapt. Firmando positivamente il primo quesito, la pratica del reintegro sarebbe reintrodotta, anche se, attenzione, solo nelle aziende medio-grandi (con più di 16 dipendenti) e sempre entro i limiti già stringenti della Legge Fornero (2012). La Corte Costituzionale è già intervenuta per ben 7 volte sulla normativa: una sentenza alla volta, la tela del Jobs Act è già sostanzialmente bucherellata: ma cosa c’è oltre il velo? Anche se “la stessa Corte Costituzionale ha sollecitato il legislatore a un intervento di semplificazione e razionalizzazione”, ricorda Pietro Ichino, già sindacalista ed esperto di diritto del lavoro, il referendum così posto avrebbe “il solo effetto di tornare alla disciplina assai frastagliata della Legge Fornero del 2012, complicata dagli interventi della Consulta: la stessa contro cui Landini ha tuonato in passato”. Al netto del ripristino della legge precedente infatti permane la necessità di una riscrittura del sistema, considerando contestualmente strumenti di deterrenza al licenziamento illegittimo, ma ricordando anche che, prima del Jobs Act, la normativa “aveva un fortissimo e riconosciuto effetto deterrente: non solo sui licenziamenti, anche sulle assunzioni a tempo indeterminato” (ancora a causa dell’incertezza giuridica degli indennizzi che costano anni di processi). Senza considerare che il reintegro dopo un licenziamento illegittimo risponde a una casistica estremamente limitata, perlopiù riguardante casi di discriminazioni o ragioni sindacali che già non venivano toccate dal Jobs Act. Lo ricorda l’economista Bruno Anastasia su Lavoce.info, ammonendo gli entusiasti sugli effetti di un dietrofront che si limita a puntare il dito contro i problemi senza imbastire nuove soluzioni.

Il secondo quesito riguarda invece le piccole aziende, (<16 dipendenti), ove si lascia al datore la possibilità di scegliere tra reintegro e indennizzo. Il referendum non intende, in questo caso, consolidare una pratica del reintegro anche nelle piccole aziende, ma si limita a eliminare il tetto all’indennizzo lasciando al giudice il compito di stabilire l’ammontare sulla base anche di età, nucleo familiare, capacità economica dell’azienda (il numero dei dipendenti non rispecchia di per sé la capacità economica del datore di lavoro, che va giudicato invece per il suo fatturato). Se da un lato l’eliminazione di un tetto massimo apre a più congrui e cospicui indennizzi per un lavoratore ingiustamente licenziato, è innegabile dall’altro che il maggior potere decisionale affidato ai Tribunali non potrà che tradursi in ulteriori appesantimenti del sistema, costretto ogni volta a passare da un’aula di giustizia. Senza, oltretutto, la certezza che questo si configuri effettivamente come un indennizzo maggiore. Di nuovo, ci si chiede: non sarebbe stato più efficace promuovere una proposta di legge alternativa che riscrivesse la precedente senza lasciarsi dietro nuovi vuoti normativi?
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Se i primi due quesiti esauriscono nelle intenzioni la questione dei licenziamenti illegittimi, il terzo interviene ancora sulla precarizzazione e in particolare vorrebbe porre una stretta all’impiego di contratti a termine, oggi consentiti anche senza una causale giustificativa entro i 12 mesi. La CGIL propone invece che anche a questi contratti si applichi l’adozione dei giustificativi compresi dai contratti collettivi (così come già avviene per quelli superiori a 12 mesi), in modo da ridurne l’adozione indiscriminata in favore di rapporti di lavoro più stabili. Peccato, diremmo, che i settori in cui manca ancora una contrattazione collettiva sono talmente tanti che il Governo ha ritenuto di prorogare l’autonomia individuale del dipendente nella contrattazione, in assenza di riferimenti più condivisibili. Un’accelerata in tal senso sarebbe non solo utile, ma indispensabile per attribuire concretezza a questo quesito referendario ed evitare che finisca nel calderone di tutti gli interventi susseguitisi sul tema negli ultimi anni. Dal Jobs Act al Decreto dignità del Governo Conte I (quello giallo-verde) fino al Milleproroghe del 2023, l’alternanza normativa degli ultimi anni rispetto ai contratti a termine è stata l’ennesima dimostrazione plastica di cosa accade quando contese ideologiche e rivendicazioni politiche vengono prima del pragmatismo e anche dell’onestà intellettuale.

L’ultimo dei quesiti riguarda invece la sicurezza sul lavoro. Anche se non si può pensare di ridurre le morti bianche a colpi di decreto, il quesito interviene a scardinare un’importante criticità. La proposta della CGIL punta a istituire, in caso di infortunio sul lavoro, la responsabilità in solido dell’azienda committente. Un modo per interrompere il vergognoso “scarica-barile” di chi pensa che la sicurezza sia un costo da gestire sempre al ribasso. Il quesito è quindi un buon punto di partenza, a patto che in nessun modo questo esaurisca la corsa contro qualcosa che, in Italia, uccide più del terrorismo.
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Le criticità nel merito, come si è detto, sono ancora in secondo piano rispetto alle polemiche politiche che riguardano soprattutto la modalità invocata dalla CGIL per la sua rivoluzione, vale a dire il referendum. Chi scrive ama pensare che ogni singolo canale di democrazia diretta attivato non possa che essere acqua fresca per questi aridi tempi di menefreghismo. Ma non è un peccato mortale chiedersi se non sarebbe stato meglio intervenire diversamente. Per raggiungere la sola validità del voto, a prescindere dall’esito, il referendum ha bisogno di 25,6 milioni di voti. Una cifra pari alla metà dell’elettorato attivo, che non otterremmo nemmeno se sommassimo tutti i voti presi da tutti i Partiti alle ultime elezioni europee. Si tratta di una consultazione di diverso carattere, certo, e la campagna di raccolta firme ha già dimostrato una discreta partecipazione. Ma la sfida in ballo non è da poco, e mandare tutto in fumo non perché l’elettorato rigetta le riforme, ma perché ne è totalmente disinteressato, sarebbe una sconfitta politicamente pesante che come minimo rallenterebbe qualsiasi futuro intervento sul Jobs Act. E forse è anche per questo che l’opposizione ha fatto scudo attorno al sindacato, aderendo ai contenuti del referendum ma lasciando che fosse la CGIL a intascarsi una (difficile) vittoria ma soprattutto una potenziale sconfitta.

A chiamare la resa dei conti, infatti, non è stato quello stesso PD che, genitore della riforma, la abiurò rinnegando l’autore. È invece il sindacato a lanciare la chiamata: «Luciano Lama sottoscrisse il referendum voluto da Berlinguer; Elly Schlein ha firmato quelli proposti da Landini» punzecchia Giuliano Cazzola che rispolvera una storia vecchia ma quasi attuale. Il referendum di cui parla è quello che si tenne per abrogare la legge del Governo Craxi che falciava la scala mobile. Sono passati 40 anni da quel fatidico Accordo di San Valentino e oggi la CGIL del vulcanico Maurizio Landini decide di guidare anziché seguire. Dall’Appennino reggiano, dove all’età di 15 anni ha già una saldatrice in mano, a Corso d’Italia, dal 2019 Landini guida la CGIL da segretario generale, dopo una lunga militanza nella FIOM e una gioventù con la tessera del PCI in mano. Con l’autorevolezza di un comandante che si è sporcato nelle trincee, non lo preoccupano le critiche al suo antagonismo e alla politicizzazione dei conflitti: «l’accordo è una mediazione tra interessi. Pensare di cancellare il conflitto è solo un’illusione» ricorda, a ragione. Dopotutto è anche per la sua storia se la CGIL è da sempre il corpo intermedio più politico, tanto che oggi il sindacato assurge quasi a ruolo di catalizzatore della sinistra, pur nel nome dell’approccio movimentista che Landini ben condivide con Giuseppe Conte ed Elly Schlein. Non si rischia però, ideologizzando le battaglie comuni, di fallire poi la mediazione con tutte le altre parti sociali, o di strappare l’ennesima riforma del lavoro non condivisa? All’indomani della disfatta del referendum sull’Accordo di San Valentino, in cui vinse il “NO”, il segretario della CGIL Lama raccontava: «la mia tesi era che si sarebbero dovuti valorizzare questi miglioramenti, e non arrivare allo showdown del referendum, per due motivi: […] il primo era che avremmo compromesso forse definitivamente l’unità sindacale e messo in discussione quella della Cgil, il secondo era che il referendum l’avremmo perso. “Non ci rimette nessuno, ci guadagnano tutti, perché dovremmo perdere?” mi chiedevano. Ma la gente ragiona sulle cose, e tutta la questione era ormai diventata un simbolo». Alla fine persero. Oggi le condizioni politiche e sociali sono certamente mutate, ma sarà diverso?
Noi, tutte queste domande, abbiamo provato a farle direttamente alla CGIL e ai promotori del referendum, senza ricevere però alcuna risposta. Non è tempo per gli scettici. Dubbi, domande e perplessità sedimenteranno sotto al sole per sbocciare, chissà, nella prossima primavera, direttamente nelle urne.
Più lavoro, meno pagato

Nel frattempo, l’ultima fotografia dell’Employment Outlook 2024 dell’OCSE ci racconta di un Paese in cui l’occupazione cresce parallelamente ad una riduzione costante del potere d’acquisto degli stipendi. Una situazione particolarmente grave per i dipendenti del pubblico servizio e dei servizi, che rinnovano la contrattazione con troppo ritardo rispetto a quanto sale la curva dell’inflazione, questo sì un problema che dovrebbe accomunare tutti. In questo contesto, ci si dovrebbe anche chiedere se il solo strumento legislativo e contrattuale possa essere sufficiente, e se invece non sarebbe efficace puntare, con le stesse forze, anche su un taglio del cuneo fiscale – e che sia strutturale, per una volta.
[Crediti foto copertina: ANSA/RICCARDO ANTIMIANI]