Tra scandali e colpi di scena, cala il sipario sulla parabola dell’istrionico premier britannico, dalla carta stampata al numero 10 di Downing Street
Un gruppo di colleghi organizza una festicciola d’addio per salutare un dipendente. Il datore di lavoro ci mette la casa con giardino. Si beve, si brinda, si canta al karaoke, uno di loro alza il gomito e si sente male, altri due hanno un piccolo alterco. Un evento del tutto irrilevante, se la casa non si trovasse al numero 10 di Downing Street, se i colleghi non fossero membri del Gabinetto britannico e se il loro capo Boris Johnson, primo ministro, non avesse appena varato le più rigide misure restrittive della storia del Regno Unito per arginare la pandemia di Covid-19.
È il 13 novembre 2020 e l’impietosa bolla del “Partygate” deve ancora esplodere. A quanto trapela, altri episodi di violazione delle restrizioni si registrano fra Downing Street e Whitehall durante la pandemia, almeno tre, di cui una festa indetta nella vigilia dei funerali del principe Filippo, consorte della Regina, nell’aprile del 2021.
La situazione, direbbe qualcuno, “è tragica ma non è seria”. La posizione di “BoJo” si aggrava ulteriormente; il premier mente apertamente alla Nazione negando ogni violazione delle regole pandemiche, subito smentito dalle indagini avviate dal Parlamento e dal suo partito Tory, commissionate alla MP Sue Gray, anch’essa immortalata mentre si cimenta in You’re The One That I Want di John Travolta e Olivia Newton-John di Grease. Su Spotify spunta la playlist Boris Johnson’s party hits e la stampa estera si butta a capofitto sulle debolezze di un premier che ormai si districa a fatica tra gaffe istituzionali e scandali. Il “Partygate” è la tempesta perfetta e si abbatte su un primo ministro già in difficoltà. Se la parabola discendente di Johnson sembra una farsa è perché la sua carriera politica è come un palcoscenico per l’istrionico protagonista, che si cuce addosso un personaggio ben riconoscibile, vicino al pensare comune ma al contempo più carismatico, che non ha paura di recitare il proprio copione anche quando è inventato: «they applaude, therefore I am».
«Come molte personalità appariscenti, è un debole di carattere»: così il suo ex direttore editoriale Max Hastings ci racconta oggi il personaggio di Boris Johnson. Eppure, di debolezza sembra essercene ben poca nel prorompente reporter che negli anni ‘80 approda al Daily Telegraph in qualità di corrispondente da Bruxelles. In pochi anni Alexander Boris de Pfeffel Johnson diventa una penna della Thatcher e della campagna stampa euroscettica britannica che accusa la burocrazia di Bruxelles di “tenere in trappola” il Regno Unito. Non senza sfruttare l’eco di mistificazioni e mezze verità, quando non palesi bugie.
Johnson è carismatico, esplosivo, dissacrante. Le sue colonne sono molto più accattivanti dei freddi report di cronaca puntuale del dibattito normativo che, negli anni ‘90, ferve nel Vecchio Continente, al lavoro alla costruzione del suo mercato unico. «Eppure il suo più grave vizio è la codardia, riflessa nella volontà di raccontare ad ogni audience tutto ciò che lui pensa potrebbe interessargli, noncurante dell’inevitabilità della sua contraddizione un’ora dopo», incalza ancora Hastings.
Boris Johnson è, nei ritratti dei suoi colleghi e familiari, una persona estremamente ambiziosa che riempie il vaso delle sue carenze d’affetto e delle sue insicurezze rilanciando al massimo la propria personalità. Lui stesso ammette di essere “spinto dall’egomania, dal desiderio di andare avanti, di buttarsi, di provarci”. La ferocia delle sue aspirazioni è una spinta che lo lascia perennemente insoddisfatto del proprio status e che lo affama di possibilità sempre nuove e sempre più esaltanti: «qual è lo scopo della vita? Il tempo scorre sul grande orologio dell’eternità», un “soffione” che ci avvisa che “il ticchettio delle cose scorre ” e dunque: «why not?». Quello dell’ambizione però è un vaso bucato e, per quanto lo si riempia, non è mai colmo.
Durante i suoi anni al servizio della stampa, Johnson nutre il suo fascino per l’ego ispirandosi anche a personalità estere. Fra tutti Silvio Berlusconi: Johnson ne rimane folgorato in occasione di un’intervista per The Spectator, di cui è direttore. «Forza Berlusconi!» titola riferendosi all’“uomo più ricco d’Europa” – un’altra inesattezza ma, nella sua narrativa visionaria, i fatti hanno ormai un ruolo marginale. «Guarda alla forza di quell’albero» gli indica Berlusconi dalla sua villa di Porto Rotondo. Un ulivo che cresce dalla spaccatura di un masso “come un paziente pitone di legno”, efficace metafora della “linfa vitale” che alimenta la personalità politica del Cavaliere e che illumina anche lo sguardo di Johnson.
Oltre che sulla carta stampata il nome di BoJo diventa protagonista anche in televisione, dove viene regolarmente invitato a diversi programmi della BBC fra i quali Have I Got News for You, per il quale ottiene anche una nomination ai BAFTA. È anche sotto i riflettori dei sipari televisivi che il pubblico familiarizza con la sua voce sfrontata e si appassiona al suo personaggio scapigliato. Durante un episodio del popolarissimo Top Gear il conduttore Jeremy Clarkson lo incalza “accusandolo” di usare il telefono mentre gira in bici infrangendo il codice della strada. «È vero – ammette Johnson – ma stai dicendo che le persone con un braccio solo non possono andare in bici? Non è discriminatorio?».
È così che prende forma la reputazione di Johnson. I suoi editori gongolano dietro l’immagine di un abile e scaltro comunicatore capace finalmente di avvicinare l’audience britannica alla grande questione europea, seppur trainando l’opinione pubblica lungo la propria corrente. Negli anni della sua corrispondenza Johnson dimostra di saper come carezzare i suoi lettori, elargendo storie per la loro immaginazione e suggestioni per la loro pancia. La strada per la politica è spianata.
Nel 2001 fa il suo ingresso in Parlamento ma non deve affannarsi per ritagliarsi lo spazio cui ambisce: il suo nome è già noto ai Commons per le sue dichiarazioni forti, spesso contrastanti ma sempre d’effetto, condite di posizioni eccentriche e battaglie efferate spessissimo criticate anche dal suo stesso partito, i Tories.
Così, dai banchi di Westminster BoJo si sposta nella City Hall: nel 2008 viene eletto sindaco di Londra ed è il primo major conservatore della città. Come primo cittadino raccoglie una certa popolarità introducendo, ad esempio, il salario minimo nella Capitale a 8,.80 sterline, ma anche puntando sulla green mobility portando nella Capitale un sistema di bike sharing cittadino (ad oggi note ai londinesi come le Boris Bike), stazioni di ricarica per veicoli elettrici e flotte di taxi a idrogeno. Nel 2012, nel solco del successo delle Olimpiadi e a dispetto dei sondaggi che vogliono i conservatori ben 8 punti sotto ai laburisti, Johnson viene rieletto, forte di una risonanza mediatica che mette in ombra persino l’autorevolezza compìta del PM e leader dei Tory David Cameron e nonostante un consiglio comunale a maggioranza laburista.
Durante la sua esperienza da sindaco, Johnson non perde di vista la battaglia che più di tutte lo ha forgiato, quella dell’euroscetticismo. Gli ingredienti per il salto verso la politica nazionale sono tutti in pentola; basta aspettare il punto di ebollizione, che si presenta propizio dopo tre anni di sommessa, responsabile ma timida, gestione di Theresa May.
È proprio il Governo May a spianare la strada di Johnson verso Downing Street. È il 2016 e il 23 giugno il 51,89% dei britannici (accorsi ai seggi per il 72,21%) vota per lasciare l’Europa. La vittoria del Leave segna uno spartiacque nella storia dell’UK, anche e soprattutto grazie alla campagna di Johnson che ne diventa, quasi di diritto, il volto più entusiasta, tanto da essere nominato ministro degli Esteri.
Due anni dopo, in segno di protesta contro il troppo blando Chequers agreement con cui May prova a sbrogliare la matassa della Brexit, forte della sua “linea dura” BoJo si dimette.
Il Paese è pronto e non ha più bisogno dell’ennesimo tecnocrate che si dissolve dietro agli adempimenti della classe dirigente, ma chiama a gran voce un condottiero che imprima una direzione politica schietta e combattiva. Un esperto di analisi comportamentale e psicologia politica come Hugh Berrington scrive che “la ricerca del prestigio è essenzialmente ricerca di protezione contro l’insignificanza”. Nel 2019 Johnson viene eletto a capo dei conservatori con il 66% dei voti e realizza il sogno di una vita: diventare primo ministro. Se un leader “si trova da solo al comando”, dopotutto, “è perché è il solo che ha cercato di arrampicarsi fino in cima”.
È anche per questo che valutare Johnson sulla base delle sue idee politiche è limitante. La sua retorica attinge a un’ideologia ben definita ma non è attraverso il suo programma elettorale o le sue azioni concrete che si formula il giudizio politico su di lui, quanto più sul suo personaggio e sulla sua “persona”, nell’accezione latina di “maschera”. BoJo arriva al comando del Regno grazie alla fermezza nelle sue posizioni, forse più che per le sue posizioni in sé, oltre che per aver dato una voce istituzionale alla crescente rabbia di un popolo la cui economia cresce di pari passo con le disuguaglianze sociali.
Una volta eletto PM, così come aveva fatto a Londra, Johnson punta sul salario minimo nel più ampio progetto di accogliere nelle fila dei conservatori la working class che ha già sostenuto la sua campagna per la Brexit, allontanando di fatto storici sostenitori dei tories quali imprenditori e aziende. Nella terra sacra del liberalismo, Johnson rilancia il più consistente aumento del salario minimo mai applicato nella storia del Regno Unito comportando un incremento del 6,2% degli stipendi, fino a 8,72 sterline (all’epoca circa 10.24 euro).
Intanto però il Governo finisce sotto accusa per i tagli al welfare, nonostante la promessa di “rifare il look” a un partito promotore per decenni di politiche di austerità e di fatto artefice dello smantellamento del National Health Service. È (anche) con l’arrivo del Covid che la luce dei fatti si accende impietosa sul castello di promesse elettorali, scoprendo tutte le debolezze di un sistema sanitario nazionale sotto organico e inadatto a fornire i livelli minimi di assistenza.
Il progetto di “permettere alle persone di talento di entrare nel nostro Paese, senza usare l’immigrazione come una scusa per non investire nelle persone, nelle competenze e nelle attrezzature necessarie” si infrange così ancora una volta davanti alla realtà. Con la Brexit sono migliaia i lavoratori europei impiegati nel sistema sanitario britannico che abbandonano l’Isola, lasciando l’NHS scoperto e inadatto ad affrontare l’emergenza pandemica.
Proprio quello dell’immigrazione è un vecchio capro espiatorio sul quale la retorica di Johnson fa molto affidamento, prima e dopo la sua salita al potere. Nell’aprile del 2022 scoppia un nuovo “gate” per il controverso piano per trasportare in Ruanda i rifugiati sbarcati dalla Manica, fermato in extremis dalla Cedu e definito “sconcertante”, secondo fonti anonime di Palazzo, anche dal principe Carlo.
A complicare ulteriormente l’agenda interna di Johnson arriva, il 24 febbraio 2022, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. L’esplosione del conflitto alle porte d’Europa in effetti offre la spalla ai Governi occidentali che di fatto, assurgendo al ruolo di mediatori fra le parti e perni dei delicati equilibri diplomatici, accrescono il loro standing anche in patria. In questo BoJo non è da meno: il PM britannico fin da subito si impone sulla scena internazionale come uno dei leader più “antirussi”. È il primo a visitare Kiev, è fra i più convinti sostenitori dell’invio di armi a Zelensky e non risparmia attacchi dai toni non sempre istituzionali, ad esempio definendo Putin come uno “spacciatore da strada” che “crea dipendenza” dal suo petrolio e dal suo gas. Ancora una volta l’istrionico leader politico non perde tempo con l’etichetta diplomatica, non incede in estenuanti conversazioni telefoniche che gli altri capi di Stato e addita la guerra come un “perfetto esempio di mascolinità tossica” perché “se Putin fosse stato una donna non credo che si sarebbe imbarcato in una folle guerra machista di invasione e violenza come ha fatto”. «Il vecchio Freud avrebbe sognato un tale argomento per le sue ricerche!» è il commento caustico del portavoce del Cremlino Peskov.
È così che la tragedia classica di BoJo si consuma tra il serio e il faceto e che, quando esplode l’ennesimo “gate”, anche l’ormai esperta gestione degli imbarazzi di Downing Street arranca dietro alle bugie del premier. È il caso, ad esempio, degli scandali sul vicecapogruppo del suo partito alla Camera Chris Pincher, di cui Johnson afferma di non sapere nulla. Si tratta di accuse di molestie e comportamenti “inappropriati” che giungono al suo ufficio già dal 2020 ma che non gli impediscono di promuovere Pincher, allora viceministro degli Esteri, a deputy chief whip. Quando lo scorso luglio il Sun sbatte in prima pagina il deputato nuovamente accusato di aver molestato, palpeggiandoli, due uomini in un club di Londra, è difficile contenere lo sdegno dell’opinione pubblica.
A pesare è anche e soprattutto l’atteggiamento di Johnson che, nel tentativo di fare quadrato attorno alla propria squadra di Governo, nega le evidenze e arriva a chiedere di rivedere gli standard sulla gravità delle condotte dei parlamentari; come nel caso di Owen Paterson, deputato accusato di lobbying sleale poi costretto alle dimissioni. O ancora come nel “Wallpapergate”, letteralmente lo “scandalo della carta da parati” esploso quando The Independent pubblica la fattura della ristrutturazione dell’appartamento al civico 10: al totale di 200mila sterline concorrono, fra le altre stravaganze, un carrello per bevande da 3.675 £, forse appartenuto al ballerino Rudolph Nureyev, una carta da parati dorata da 2.260 £ e un tappeto da 7mila £. Non il morigerato decoro che il pubblico anglosassone si aspetterebbe di vedere dal proprio PM mentre l’inflazione vola oltre il 9% e mentre, come allertano la Food Foundation e le banche alimentari, nell’ultimo anno 2,6 milioni di britannici sono rimasti almeno un giorno senza poter mangiare e un adulto su 7 (7,3 milioni di persone) vive nella costante insicurezza alimentare.
Il dramma della povertà pesa non poco in diverse aree del Paese e la politica di Johnson in merito, anche in questo caso schizofrenica e altalenante, non sortisce gli effetti sperati, anzi.Non c’è più spazio per discutere di scandali a corte. L’impellenza nella risoluzione della guerra è ormai sostituita dalla gestione interna delle sue conseguenze economiche. Ma è soprattutto l’assenza di una visione strategica di medio e lungo termine a squarciare il velo, la grave carenza di un indirizzo politico fondato su una progettualità di governo piuttosto che su slogan vigorosi ma estemporanei. Portata a casa la Brexit, il Paese rivendica la propria identità ma ha ancora bisogno di definire i confini e i poteri di questa nuova libertà.
Lo scandalo Pincher è la goccia che fa traboccare il vaso: 50 fra ministri e funzionari del Gabinetto abbandonano la nave, costringendo anche il capitano alla ritirata. Il 7 luglio Johnson annuncia le sue dimissioni, restando in carica fino al 5 settembre quando le nuove elezioni del Tory rimettono lo scettro in mano a una donna come Liz Truss.
Fedelissima dell’Esecutivo Johnson, Truss non si pone in rottura con il suo predecessore. Piuttosto, ne raccoglie le fila politiche, trincerandosi dentro un partito scosso ma saldo al comando che più che mai ha bisogno, ora, di rimanere unito: «Boris, hai fatto un lavoro straordinario. Grazie». Truss è la terza donna alla guida del Paese, conservatrice come le illustri precedenti, Margaret Thatcher e Theresa May, e dopo una lunga campagna elettorale che la vede trionfare con il 57,4% dei voti contro il 42,6% del Cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak, riceve l’incarico formale per la prima volta nella storia della Monarchia nella residenza estiva di Balmoral della Regina, anziché a Londra.
«Ecco uno strano mostro. Il primo è un atto che non è un prologo, i tre seguenti sono una commedia imperfetta, l’ultimo è una tragedia, e tutto questo cucito insieme fa una commedia». Così Pierre Corneille raccontava al pubblico la sua tragicommedia L’illusion comique. È così che il sipario cala anche sulla scena di Boris Johnson. Un addio alla scena pubblica? Impensabile per un protagonista nato come lui, all’eterna ricerca del nuovo palcoscenico dal quale inaugurare il prossimo atto.