L’80esimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo si incrocia con il trentennale della “svolta di Fiuggi” e resta indigesto a una parte politica

Era il 25 aprile 1945 quando i soldati nazisti tedeschi e quelli fascisti italiani iniziarono a ritirarsi da Torino e Milano, dopo una sollevazione popolare e la progressiva ripresa delle città da parte dei partigiani. L’anno seguente il governo provvisorio guidato da Alcide De Gasperi istituì la data come festa nazionale e nel 1949, con la legge n. 269 presentata dallo stesso De Gasperi in Senato nel settembre del 1948, il 25 aprile divenne, in modo definitivo, la “festa della Liberazione”.

La data non corrisponde alla fine precisa della guerra, che proseguì fino a maggio, come dimostrano anche le date della fine della guerra e dell’occupazione scelte da altri Stati – Paesi Bassi e Danimarca festeggiano il 5 maggio, la Norvegia l’8, la Romania il 23 agosto – ma segna comunque un passaggio decisivo. Fin dai primi mesi del ‘45 le offensive partigiane si erano fatte più intense e il 10 aprile il Partito Comunista aveva diffuso la “Direttiva n. 16” a tutte le organizzazioni locali con cui era in contatto per annunciare come i tempi fossero maturi per “scatenare l’attacco definitivo”. Dopo la liberazione, ad esempio, di Bologna tra il 19 e il 21 aprile gli alleati superano il Po il 24 aprile e il giorno dopo, come detto, iniziò la ritirata dei soldati tedeschi e della repubblica di Salò da Milano (dove il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini aveva proclamato lo sciopero generale dai microfoni di radio Milano Libera) e Torino. A Milano la tipografia del Corriere della Sera fu usata per stampare i primi fogli che annunciavano la vittoria sul nazifascismo, lo stesso Benito Mussolini fuggì dalla città per poi essere catturato dai partigiani e ucciso il 28 aprile, mentre i soldati statunitensi arrivarono il 1° maggio.

Da quei giorni sono passati esattamente 80 anni. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel discorso di fine anno ha ricordato l’anniversario sottolineando che la Liberazione “è fondamento della Repubblica e presupposto della Costituzione, che hanno consentito all’Italia di riallacciare i fili della sua storia e della sua unità. Una ricorrenza importante. Reca con sé il richiamo alla liberazione da tutto ciò che ostacola libertà, democrazia, dedizione all’Italia, dignità di ciascuno, lavoro, giustizia”. Proprio per questi valori, tentativi come quello compiuto nel 2009 dall’allora presidente del Consiglio di spostare semanticamente da “festa della Liberazione” a “festa della libertà” il 25 aprile, che ancora nel 2023 è stato definito dall’attuale presidente del Consiglio “un auspicio che non solo condivido ma che voglio, oggi, rinnovare, proprio perché a distanza di 78 anni l’amore per la democrazia e per la libertà è ancora l’unico vero antidoto contro tutti i totalitarismi. In Italia come in Europa”, risultano – quantomeno – fuoriluogo. 

Richiamarsi all’antifascismo, definirsi persone puramente antifasciste, per la classe politica che da diversi decenni, e oggi più che mai, guida questo Paese sembra essere ontologicamente impossibile. Addirittura l’ex presidente della Camera ed ex leader di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini nel 2023 dichiarò: «spero che Giorgia Meloni voglia cogliere anche questa occasione del 25 aprile per dire senza ambiguità – non è una donna ambigua, è una donna molto diretta – che la destra italiana i conti con il fascismo li ha fatti fino in fondo e senza infingimenti quando è nata Alleanza Nazionale». Speranze vane, dato che la presidente Meloni è riuscita nell’impresa di non pronunciare mai la parola “antifascista” e il 25 aprile 2024 ha dichiarato che “nel giorno in cui l’Italia celebra la Liberazione, che con la fine del fascismo pose le basi per il ritorno della democrazia, ribadiamo la nostra avversione a tutti i regimi totalitari e autoritari. Quelli di ieri, che hanno oppresso i popoli in Europa e nel mondo, e quelli di oggi, che siamo determinati a contrastare con impegno e coraggio. Continueremo a lavorare per difendere la democrazia e per un’Italia finalmente capace di unirsi sul valore della libertà”.

Nel 2025 non solo si festeggiano gli 80 anni della Liberazione, ma anche i 30 anni dalla “svolta di Fiuggi” che interessò proprio Gianfranco Fini. Il congresso del 1995 determinò lo spostamento della destra italiana dal neofascista Movimento Sociale al progetto più moderno e democratico di Alleanza Nazionale, con i tentativi di Fini di presentarsi come profilo spiccatamente di destra, ma moderno, arrivando a definire il fascismo “male assoluto” (non senza malumori tra le fila di AN) e poter far parte dei governi Berlusconi senza destare particolarmente scandalo. Fini ribadì nell’intervista del 2023 che AN puntava a fare propri i valori democratici di libertà, giustizia sociale e uguaglianza tipici dell’antifascismo, aggiungendo “non capisco la ritrosia nel pronunciare questo aggettivo. Non è un aggettivo, è una definizione di valori”, per poi aggiungere “o meglio, la capisco ma non la giustifico”. Si può comprendere in effetti, ma non giustificare.

Nella smorfia napoletana il numero 80 rappresenta la bocca. 

La bocca, luogo da cui gli esseri umani possono assumere il sostentamento necessario per sopravvivere e da dove gli esseri umani possono alzare la voce, altra attività per certi versi necessaria per sopravvivere. 

La bocca che chi si dice furentemente patriota dovrebbe utilizzare per dirsi anche antifascista, perché come ben mostrano le parole di Vittorio Foa intervistato da Isabella Insolvibile nel suo L’antifascismo che non muore. Intervista a Vittorio Foa, pubblicata in Meridione. Sud e Nord del Mondo nel 2009: «a me è capitato, una volta, di partecipare ad una trasmissione televisiva insieme ad un senatore fascista [Giorgio Pisanò] che faceva dei grandi discorsi di pacificazione: in fondo eravamo tutti patrioti… Ognuno di noi aveva la patria nel suo cuore…etc. etc. Io lo interruppi dicendo: un momento. Se si parla di morti, va bene. I morti sono morti: rispettiamoli tutti. Ma se si parla di quando erano vivi, erano diversi. Se aveste vinto voi, io sarei ancora in prigione. Siccome abbiamo vinto noi, tu sei senatore. Questa è una differenza capitale».

Questa differenza capitale andrebbe sottolineata ogni giorno. Con la bocca, con la voce. Con l’antifascismo.