Nel trentennale dalla morte di Falcone e Borsellino, le stragi della malavita non devono cadere nell’oblio

Una Lancia Thema grigia viaggiava in direzione Palermo sull’A29. E poi, a tre minuti dallo scoccare delle 6 del pomeriggio, esplode al bivio tra il capoluogo siciliano e Capaci con un cocktail micidiale di tritolo, RDX e nitrato d’ammonio. La Lancia Thema diventa la tomba di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti di scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.  La polvere, il fumo, le carcasse delle auto bruciate, il cielo ingrigito e spento. Le immagini che avrebbero segnato per sempre il 23 maggio 1992 alla ben nota rappresaglia mafiosa ai danni di un rappresentante delle istituzioni e di vittime innocenti che avevano la sola colpa di essergli accanto in quel momento terribile.

Quest’anno ricorre il trentennale della morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i magistrati palermitani che hanno combattuto sino al sacrificio estremo contro “l’onorata società”. A loro sono dedicati nel nostro Paese parchi, scuole, vie alla pari dei Papi, degli scrittori, degli scienziati e di molti altri personaggi che hanno fatto la storia dell’Italia e dell’Occidente: è la dimostrazione tangibile che Falcone e Borsellino abbiano lasciato un segno con la lotta alla mafia. Ma affinché la loro memoria sia per noi monito di cambiamento (e non uno zuccherino alla mercé della propaganda pop), facciamo luce su un quesito ancestrale: “perché è nata la mafia”? E perché ancora oggi, pur commemorando le vittime illustri di Cosa Nostra con flashmob, programmi tv e progetti scolastici, questo fenomeno persiste?

Restando in Italia, la mancanza dello Stato italiano fin dai tempi dell’Unità al Sud ha spianato la strada per la proliferazione dei movimenti mafiosi, dapprima come bande dedite al brigantaggio, poi in gerarchie sempre più organizzate e rigide vocate all’estorsione e all’omicidio. Le prime riflessioni al riguardo sono state condotte da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino negli anni ’70 del XIX secolo. In seguito, durante il fascismo, la mafia viene messa sotto attacco in nome dell’ordine nazionale, tanto caro alla propaganda mussoliniana. Nel Codice Rocco, infatti, l’associazione mafiosa era un reato ai sensi dell’articolo 416 bis punibile con la reclusione dai 7 ai 12 anni per chi ne faceva parte, con la reclusione dai 9 ai 14 anni per chi la promuoveva, dirigeva o organizzava. 32 anni dopo, nel 1962, le due Camere istituirono la Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla mafia che viene rinnovata ad ogni legislatura. Dobbiamo però aspettare il 1982, quando si intensificarono gli assassinii di vari rappresentanti delle istituzioni e delle forze dell’ordine siciliane perché l’associazione mafiosa diventi un reato a sé stante nel Codice Penale, all’indomani dell’esecuzione del generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Nell’Enciclopedia Treccani, leggiamo infatti che “viene cioè punito il sistema di regole che costituisce il contro-potere mafioso, indipendentemente dalle realtà locali in cui si manifesta, dalle persone che lo rappresentano e dai singoli reati commessi dal gruppo criminale (per esempio omicidi, traffico di droga, corruzione)”.

La giurisprudenza italiana, comunque, non si è fermata qui. Il 1992 è l’anno chiave, il primo di molti che hanno mutato l’assetto giudiziario nei confronti della mafia. Falcone e Borsellino sono già stati uccisi da Cosa Nostra,quando in agosto viene convertito in legge (356/1992) il decreto legislativo approvato l’8 giugno di quell’anno: nascono così le procure distrettuali antimafia e la direzione nazionale antimafia. Tali neonati uffici dei PM si occupano delle indagini sulle cosche di matrice mafiosa all’interno dei distretti delle Corti d’Appello, avendo “il potere di coordinare su base nazionale le indagini in corso nelle diverse sedi distrettuali”; nel 1996 esce la legge 108 per tutelare tra l’altro le vittime di estorsione e nel 2001, con la legge numero 45, viene stabilito il sistema di protezione e il trattamento dei pentiti che collaborano con la giustizia.

L’Unione Europea non è rimasta indietro nel contrasto alla criminalità organizzata. 14 giorni prima dell’assassinio da parte degli uomini di Cosa Nostra di don Pino Puglisi, il 1° settembre 1993 entra in vigore la Convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato mafioso del Consiglio europeo. Negli anni si susseguono altri provvedimenti affini (la fondazione del nucleo antidroga Europol Drugs Unit nel 1994, la Rete Giudiziaria Europea per la cooperazione penale tra stati membri dell’Unione), culminati a livello mondiale con la ratifica del 2006 della Convenzione Onu sul crimine organizzato transnazionale proprio a Palermo, là dove si sono consumati i più terribili eccidi di mafia, per rendere ancora più forti i rapporti di coordinamento dei sistemi penali di tutto il mondo. È fondamentale che in ogni angolo del globo – non solo in Europa e in Italia – le forze preposte si adoperino per combattere (ed estirpare) i disordini provocati da questi principi della delinquenza. Per quale motivo?

Oggi si assiste ad un ulteriore processo in atto da decenni:la globalizzazione delle mafie, intese come società a delinquere che con intimidazioni, assoggettamento ed omertà si impadroniscono di certe attività economiche ed influiscono talvolta sull’esito delle elezioni. La mafia italiana, in tutte le sue declinazioni locali, collabora (se non è avversa ad esse) con le mafie internazionali (russa, cinese, nigeriana, ecc.) sparse sul territorio nazionale e all’estero, assumendo il controllo del narco-traffico, della prostituzione, dell’immigrazione clandestina. Per sfatare lo stereotipo secondo il quale lo straniero sia intrinsecamente un criminale ed argomentare il reclutamento di quantità sempre più massicce di immigrati nelle cosche, Salvatore Lupo, storico dei movimenti mafiosi sostiene che occorre concentrarsi sulle “condizioni che nella società di arrivo agevolano lo sviluppo di questa fenomenologia: i quartieri-ghetto che le società opulente riservano agli immigrati sono il naturale ‘brodo di coltura’ della criminalità e, in alcuni casi, i membri di certi gruppi etnici possono specializzarsi nel rifornire la società che li ospita di ‘beni’ e ‘servizi’ illeciti di cui essa sente il bisogno. La criminalità etnica rappresenta un ponte tra società opulente e società periferiche o arretrate: per i gruppi che si collocano a cavallo tra queste due dimensioni viene usato oggi il termine mafie (cinese, giapponese, russa, albanese, turca, colombiana, cecena). Molto spesso questi gruppi fanno base in zone periferiche, del tutto sottratte per particolari congiunture storico-politiche a qualsiasi controllo legale. I narcotrafficanti svolgono per es. funzioni di autorità statale in Afghanistan o in Thailandia, dove si trovano fruttifere piantagioni di prodotti-base per la lavorazione della droga. Si consideri il caso dei cd. cartelli della droga in Colombia o in Messico, che controllano intere regioni di questi paesi usando come manovalanza i disperati delle grandi periferie urbane, alleandosi con esponenti del potere politico e all’occorrenza anche con gruppi politico-guerriglieri, per poi inviare la cocaina negli Stati Uniti, attraverso una lunga catena di relazioni d’affari comprendente connazionali ma anche gregari e imprenditori del crimine di diversa nazionalità, fino a raggiungere il più ricco mercato del mondo, dove la merce sarà pagata cifre enormemente superiori al suo costo di produzione”.

Alla luce di tutto questo, è ancora possibile sconfiggere la mafia, ora che i legami tra le criminalità organizzate globali stanno divenendo sempre più inscindibili? C’è un atteggiamento diffuso nel nostro Paese che rende più nebulosa questa sfida: in mezzo agli oppositori e ai sostenitori dichiarati, vi è un gruppo importante di persone inattive. Ciò non vuol dire che essere “inattive” implica l’essere “mafiosi” a prescindere. Ma finché tutti insieme non uniamo le forze e finché lo Stato non dà segnali di vita nelle realtà colpite dai fenomeni mafiosi, la mafia continuerà a perpetuare il suo feudalesimo di sangue. E Falcone, Borsellino e tutti gli altri caduti per liberare l’Italia dalla catena delle “Cosa Nostra” avranno perso la loro vita invano. Che cosa è rimasto di quegli eventi se oggi si mette in discussione il 41 bis (quello che prevede il carcere duro per i reati di mafia)? La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo giustifica la condanna all’Italia sul carcere ostativo perché “lo Stato non può imporre il carcere a vita ai condannati solo sulla base della loro decisione di non collaborare con la giustizia.”. E che dire dei molti malavitosi che hanno ricevuto permessi durante la pandemia (e alcuni tra essi sono riusciti a percepire il reddito di cittadinanza)?

Box 1 Narcos. La serie tv sui narcotrafficanti-eroi

Netflix distribuisce “Narcos” una serie tv di successo prodotta da Gaumont International Television incentrata sul traffico di droga in cui i narcotrafficanti (“narcos”, appunto) sono assurti a eroi. In ambito nostrano, l’intento delle serie Suburra (tratto dal romanzo di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini) e Gomorra (tratto dal libro omonimo di Roberto Saviano) sarebbe stato quello di mostrare (e non spettacolarizzare) i crimini della mafia rispettivamente a Roma e in Campania, ma hanno sortito l’effetto contrario.

Box 2 Mafia. Il videogioco che ti fa diventare un “don”

Era il 2002 quando Illusion Softworks lanciò il primo capitolo di una fortunata serie di videogiochi sparatutto a sfondo mafioso Mafia: The City of Lost Heaven, a cui sono seguiti: Mafia II (2010) sviluppato da 2K Czech, Mafia III (2016) e Mafia: Definitive Edition (2020) prodotti da Hangar 13. Non è un caso isolato. Esistono molti giochi sottoforma di app per smartphone di ambientazione malavitosa, ad esempio GTA, Street Crime, Mafia Game, Urban Crime, Final Run, Mafia Wars 2, All Points Bulletin, Mafia Goodgame, Auto Hustle, Gangster City, Gangs Crime, Il Padrino, Gangster Game, The Crims, The Mafia 1930, The Pimps, Guerra di Bande, Mafia Kings.

di: Maria Ester Canepa