Operazione Midnight Hammer: il pugno di ferro Usa che minaccia l’equilibrio globale
Tra il 21 e il 22 giugno, nel cuore della notte iraniana, gli Stati Uniti hanno lanciato un’offensiva aerea su larga scala contro tre centrali nucleari dell’Iran. L’operazione, ribattezzata “Midnight Hammer”, è stata portata avanti con una precisione chirurgica che non lascia dubbi sulla preparazione dell’attacco: bombardieri B-2 Spirit e sottomarini statunitensi hanno colpito in simultanea con bombe bunker-buster e missili da crociera Tomahawk.
I bersagli – Fordow, Natanz e Isfahan – non sono scelti a caso. Sono i simboli del programma nucleare iraniano, già da anni sotto osservazione da parte dell’AIEA. Secondo Washington, l’obiettivo era chiaro: interrompere l’avanzamento del programma atomico di Teheran, evitando perdite civili. Il presidente Trump ha parlato di “successo spettacolare” e ha tenuto a precisare che non si tratta di un’operazione per rovesciare il regime, ma di un colpo decisivo “contro le infrastrutture strategiche”. Anche il Pentagono ha sottolineato che non risultano vittime e l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica non ha segnalato dispersioni radioattive.
Israele non ha fatto mancare il proprio sostegno. Il premier Benjamin Netanyahu ha definito l’attacco una “svolta storica” e, citando una frase che già fa discutere, ha detto: «prima viene la forza, poi la pace». Dichiarazioni che lasciano intendere quanto Tel Aviv abbia avuto voce — diretta o indiretta — nella pianificazione dell’operazione.
Teheran, però, ha un’altra lettura dei fatti. Il governo iraniano ha condannato duramente i raid, accusando gli Stati Uniti di aver infranto il diritto internazionale. Il ministro degli Esteri Abbas Araghchi ha parlato apertamente di “tradimento” verso i fragili negoziati ancora in corso, mentre le Guardie della Rivoluzione hanno etichettato Washington e Israele come “gang criminali”.
La risposta non si è fatta attendere. Nelle ore successive, l’Iran ha lanciato una serie di missili – tra cui i nuovi razzi a lunga gittata “Kheibar”, con portata fino a 2.000 chilometri – contro diverse città israeliane. Il bilancio, secondo fonti ufficiali, è di almeno 86 feriti e migliaia di evacuati nelle aree colpite.
Lo scontro ora si sposta sul piano diplomatico. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si è riunito d’urgenza, mentre da Berlino a Parigi si moltiplicano gli appelli alla de-escalation. Preoccupano, in particolare, le ripercussioni economiche: lo Stretto di Hormuz, passaggio chiave per il 20% del petrolio mondiale, è tornato al centro delle minacce iraniane.
Al momento, regna un’attesa tesa e carica di incognite. Se l’Iran sceglierà la via del dialogo, la crisi potrebbe raffreddarsi. Ma se opterà per la controffensiva, il rischio è quello di un conflitto aperto, con conseguenze difficilmente contenibili.
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