Frammentazione politica, polarizzazione delle ideologie e una gravissima crisi alimentare: è così che Lima affronta l’ennesima destituzione per impeachment del suo presidente. Ma cosa c’è dietro alle sanguinose proteste che per settimane hanno messo il Paese a ferro e fuoco?
Leggenda vuole che lo chef francese George Auguste Escoffier, spesso appellato come il “Re dei cuochi”, compilando una classifica sulle migliori cucine al mondo elogiasse, dietro a quella Oltralpe (neanche a dirlo) e a quella cinese, la tradizione culinaria peruviana. La variegata tavola imbandita del Perù gode infatti della felice fusione di prodotti locali, tradizioni del Vecchio Continente e influenze cantonesi, tanto che la stessa Lima è anche nota come la Capitale gastronomica dell’intero Sudamerica. Se a tavola i peruviani sono stati capaci di instaurare un dialogo proficuo e costruttivo fra elementi distanti, la conciliazione non sembra guidare il destino politico del Paese che in 6 anni ha visto avvicendarsi 6 presidenti e parecchie decine di primi ministri. L’ultimo, segnante, cambio di rotta risale al 7 dicembre scorso quando il presidente Pedro Castillo, eletto da appena 18 mesi, viene messo in stato d’accusa dal Congresso, destituito e posto agli arresti. L’ennesimo passaggio di consegne alla Casa di Pizarro, il Palazzo presidenziale, è sintomatico di diversi fattori, dall’instabilità sociale fino alla stessa architettura costituzionale del Perù, i cui poteri rispondono a un sistema di pesi e contrappesi spesso dimostratosi stagnante.
I veri solchi entro i quali scorre come un fiume in piena la crisi politica peruviana sono però due: da un lato l’estrema frammentazione dell’arco politico, dall’altro la marcata polarizzazione delle posizioni, mai davvero liberate dal giogo delle ideologie latinoamericane del secolo scorso. Due ingredienti esplosivi se mescolati in un contesto sociale segnato da povertà e bassissima scolarizzazione. Senza mantenere un occhio su questo sfondo è difficile comprendere la crisi politica che, nelle televisioni di tutto il mondo, si disvela con il suo volto più cruento, nel sangue degli scontri fra manifestanti antigovernativi e forze dell’ordine. A fine gennaio i morti sono quasi 60, i feriti diverse centinaia e gli episodi di violenza toccano culmini allarmanti, con le proteste che appiccano il fuoco a edifici (iconiche le fiamme che divampano dallo storico palazzo in piazza San Martín a Lima), miniere di rame (il Paese è il secondo esportatore mondiale), caserme di polizia ed esseri umani: è del 10 gennaio la notizia di un poliziotto di 29 anni bruciato vivo da un gruppo di protestanti nella regione di Puno. Non si confondano queste proteste per un messaggio di sostegno popolare al destituito presidente Castillo: il Perù, specialmente nella sua dimensione rurale e periferica, è estenuato dalla propria classe politica che nonostante repentini e frequentissimi ricambi al potere (o forse anche per questo) si rivela puntualmente incapace di ascoltare il suo grido di dolore.
La polarizzazione della politica peruviana difatti non è che lo specchio (che sia gallina o uovo poco importa) di una profonda frattura che corre ancora oggi fra le periferie rurali del Paese e la Capitale Lima. Nel gennaio 2022 due anni di Covid lasciavano il Perù con 98mila piccoli orfani in più, in un Paese in cui la piaga dei bambini di strada è tanto antica quanto irrisolta. A mancare, secondo i critici, non sarebbero le risorse quanto più la volontà e l’obiettivo politico di investire in maniera strutturale contro la povertà. La rete assistenziale è troppo debole anche solo per tamponare le problematiche del Paese e il diritto di voto dei bambini orfani è troppo distante nel tempo affinché un’élite politica inserisca la lotta alla povertà in cima alla lista delle priorità. A questo aggiungiamo circa 16,6 milioni di persone (su 33 milioni di popolazione) senza un accesso regolare a cibo sufficiente, sicuro e nutriente, come denunciava la Fao nel 2021. Di questi, il 20% è in uno stato di “grave insicurezza alimentare”. A complicare le dimensioni del problema è anche il fatto che a morire di fame è la lontana provincia popolata da contadini, popolazioni indigene e afro-discendenti, mentre a Lima un’élite bianca e scolarizzata si rifiuta di cedere al compromesso.
Nemmeno le dinamiche parlamentari sono immuni da queste due piaghe, frammentazione e polarizzazione: il Congresso è spesso nelle mani di una maggioranza di destra che però non riesce ad eleggere un suo presidente. Lo ha dimostrato anche l’ultima campagna elettorale in cui i due schieramenti si posizionavano soprattutto per la loro contrapposizione rispetto all’altro: Castillo contro il ritorno al potere di una destra razzista e violenta, Fujimori contro il pericolo dell’instaurazione dell’ennesima dittatura latinoamericana di sinistra. Quanto alla frammentazione, basti il fatto che Castillo e Fujimori sono andati al ballottaggio con rispettivamente il 18,9% e il 13,4%: sommati, non raggiungevano nemmeno un terzo degli elettori. In Parlamento, invece, la maggioranza è della destra (47 seggi su 130, contro i 42 della sinistra e i 41 dei moderati). È così che Castillo passa i mesi della sua Presidenza a ricucire gli strappi dell’Esecutivo, puntualmente travolto da scandali (in 16 mesi si alternano cinque premier), allargandosi verso le forze moderate del Congresso per trincerare il suo ruolo ma lasciando così indietro il suo programma elettorale che, di fatto, rimane inapplicato in tutti i suoi punti.
In questo quadro, la destituzione di Castillo non è che l’ennesimo sviluppo di una crisi politica drammaticamente radicata nella società; non il copione scritto di un turnover nei palazzi, né l’archetipico rimpasto di Governo cui le democrazie occidentali sono ormai assuefatte, bensì il naturale risvolto di un dialogo interrotto tra classe dirigente e popolazione. Castillo, in realtà, compie quello che molti analisti increduli definiscono “autogolpe”: il 7 dicembre 2022 recita un messaggio alla Nazione, in tv, in cui dichiara lo scioglimento della legislatura. L’annuncio arriva dopo che il Congresso ha votato per due volte (senza ottenere la maggioranza richiesta) un impeachment nei suoi confronti e si appresta ad avanzare una terza mozione di sfiducia al presidente. L’accusa è di “permanente incapacità morale”, colpa cui hanno contribuito le 6 distinte indagini per corruzione avviate nei suoi confronti, ma di cui prima di Castillo si sono macchiati molti altri presidenti, compreso il suo predecessore Martín Vizcarra i cui presunti episodi di corruzione devono ancora essere provati, quasi tre anni dopo. Poco importa: è lo stesso Castillo a fornire il pretesto costituzionale per la sua destituzione, con l’autogolpe che fa dimettere i suoi ministri e allontanare le Forze armate. Castillo rimane solo e il 12 dicembre viene arrestato. Gli succede la vicepresidente Dina Boluarte, prima donna ad occupare il trafficato scranno della Presidenza peruviana, denunciando un tentativo di golpe che “non ha avuto eco né nelle istituzioni né nelle strade” e che, proprio perché circoscritto nei palazzi, quelle strade le riempie. Le proteste popolari e le manifestazioni, urgenti e violente come ci raccontano le cronache quotidiane, invadono la Capitale e invocano a gran voce nuove elezioni. Su questo punto Boluarte cerca la conciliazione ma si trova ancora una volta a lottare contro il Congresso per fissare una tornata elettorale anticipata già nel 2023, superando i rallentamenti del Parlamento rei di “un vuoto giuridico inaccettabile per il Perù”. Contestualmente, dopo l’estromissione del partito di Castillo Perù Libero, la sinistra parlamentare avanza la proposta di messa in stato d’accusa anche di Doluarte, sempre per “incompetenza morale”. Quello che gli ordini costituzionali europei riconoscono come una prerogativa emergenziale e solenne sembra diventare, nella routine della politica peruviana, una scorciatoia politica per allontanare il nemico: «non devi dimostrare nulla per mettere sotto accusa un presidente: hai solo bisogno di due terzi dei voti al Congresso» spiega il giornalista peruviano Marco Sifuentes, mentre il presidente ha il potere di sciogliere il Congresso e convocare nuove elezioni se questo respinge per due volte una mozione di fiducia nei suoi confronti. Contro la presidente ma soprattutto contro la durissima repressione governativa delle proteste si muove anche la Procura generale che apre un’indagine su “detenzioni arbitrarie, un uso sproporzionato della forza da parte di polizia e militari, perquisizioni illegali di sedi politiche”, come denuncia anche il Coordinamento nazionale per i diritti umani. Da impasse a bagarre, il potere politico ormai si esercita quasi solo attraverso l’operatività spesso violenta delle Forze dell’ordine, mentre l’eccessivo bilanciamento costituzionale dei poteri tiene occupati l’Esecutivo e il Legislativo in un braccio di ferro costante anziché garantire un reciproco controllo di legittimità popolare e politica. Questo meccanismo di controllo, che i francesi hanno concepito come “cohabitation”, diventa un limite politico nei fatti invalicabile nel momento in cui in meno di una settimana a Lima si dà il cambio una staffetta di tre presidenti (succedeva nel novembre 2021), o quando neppure un Governo di transizione appena insediatosi nel tentativo di traghettare un Paese esausto verso nuove elezioni, difficilmente risolutive ma sempre preziose in una democrazia, è esente dagli attacchi politici di un Congresso che si impone a colpi di impeachment.
Anche le proteste perdono di consistenza politica se anziché massima espressione della volontà popolare diventano fase ricorrente di un eterno ciclo di instabilità e raccontano più l’esasperazione di un popolo che non un granitico sostegno a Castillo, che pure è salito al potere grazie alla sua presa populista incarnando, anche se a vuoto, speranze a lungo ignorate. Il malcontento esala dal basso e non trova un raccoglitore politico capace di incanalare il dissenso in una proposta politica concreta. «Uno dei problemi più seri – spiega l’ambasciatore in Italia del Perù Eduardo Martinetti – è che la popolazione che si è mobilitata pacificamente a Lima e nelle province non risponde a leadership specifiche né a gruppi, per cui non è stato facile stabilire controparti per il dialogo che avessero legittimità tra gli stessi gruppi di manifestanti».
La giovane democrazia peruviana, allora, potrebbe trarre qualche spassionato spunto dalla sua tradizione culinaria, fiore all’occhiello del Paese a differenza della sua classe dirigente, trovando una sintesi felice nell’inevitabile sovrapposizione di elementi in contrasto. Quanto a noi, che osserviamo in televisione le sanguinose proteste di Lima dall’altra parte dell’Oceano, monitoriamo gli sviluppi di una crisi che ci aiuta a comprendere, meglio di qualsiasi manuale, il nostro dibattito interno sul presidenzialismo che puntuale come un rosso sul calendario si appresta a tornare protagonista della politica italiana.
BOX – Un Sudamerica, tanti Perù
Sulla destituzione e l’arresto di Castillo lo scacchiere internazionale si divide, con parte dell’America Latina che ha espresso il suo sostegno nei confronti del sindacalista come Messico, Argentina, Colombia e Bolivia, anche se non mancano Paesi sudamericani di sinistra che invece condividono la transizione come il Cile o Lula, in questo caso vicini alle posizioni di Usa, Canada ed Europa. Capire come si pongono le altre potenze latinoamericane rispetto al caso peruviano non è solo una questione diplomatica, ma diventa indicativo della prospettiva politica di medio termine del Continente, che su democrazia e stato di diritto non ha ancora le idee chiare o, quantomeno, si concede un ampio margine per valutare l’opportunità politica contingente degli stravolgimenti governativi del vicinato. In questo caso un osservatore esterno si potrebbe trovare in difficoltà rispetto a una scelta netta: è vero che un Congresso animato da una destra golpista ed elitaria ha destituito un presidente legittimamente eletto o si persegue la strada lastricata della legittimità costituzionale dell’impeachment di un capo di Stato forse incompetente e nei fatti mutilato nel suo spazio di manovra?