Tra Etiopia ed Egitto le tensioni non fanno che aumentare, con la vera incognita della stabilità nella regione: la Somalia
Secondo la saggezza popolare “acqua che scorre non porta veleni” eppure è proprio l’acqua che scorre, storicamente, a originare tensioni tra Egitto ed Etiopia. Tensioni che si sono acuite con il progetto della Grande Diga del Rinascimento Etiope (GERD) nel Nilo Blu, ma non solo. Ne abbiamo parlato con il professore di Relazioni Internazionali e Studi Strategici presso l’Università di Trieste, Federico Donelli.
Professore, perché si parla di tensioni fra Egitto ed Etiopia?
«Storicamente le tensioni tra Egitto ed Etiopia erano concentrate sulla questione della gestione delle acque del Nilo, dove l’Etiopia da tempo ha avviato la costruzione di un mega progetto idroelettrico che ormai è praticamente concluso. Questa grande diga sul Nilo Blu, uno dei principali affluenti del Nilo, ovviamente crea dei problemi all’Egitto, dato che l’Etiopia è un Paese a monte, mentre l’Egitto è a valle. Questo è stato un po’ l’inizio della diatriba, ma si parla ormai di due o tre decenni fa. Quello che sta succedendo ora, invece, ha spostato l’attenzione dalla zona del bacino del Nilo al Mar Rosso. Perché dal gennaio scorso il Somaliland – una zona che formalmente è uno Stato federale della Somalia, ma de facto è uno Stato praticamente indipendente che dal 1991 si amministra anche con maggiore successo rispetto alla Somalia stessa – ha raggiunto un accordo per avere accesso al Mar Rosso. Accesso che all’Etiopia manca dai tempi del conflitto con l’Eritrea. Questo accesso al Mar Rosso ha una duplice finalità: da una parte legata allo sviluppo commerciale etiope, (l’Etiopia è in forte sviluppo sia demografico sia economico, ma manca di uno sbocco al mare, per questo negli ultimi anni è stata dipendente dai porti di Gibuti). L’accesso al porto di Berbera in Somaliland consentirebbe di diversificare i porti e quindi anche di favorire un incremento ulteriore dei traffici. L’altro aspetto, che è quello poi su cui maggiormente è nata la preoccupazione egiziana, è il fatto che l’Etiopia intenda sviluppare una propria Marina e accanto all’accesso al porto di Berbera, nell’accordo MoU con Somaliland, si parla anche di instaurare un avamposto, una piccola base militare, sul Mar Rosso che dovrebbe diventare l’headquarter della futura Marina etiope».

Che impatto ha avuto il Memorandum d’intesa (MoU) tra Etiopia e Somaliland, in questo quadro?
«L’impatto è stato significativo, perché ovviamente stringere un accordo col Somaliland, che è uno Stato de facto ma non de iure, ha portato a immediate reazioni da parte sia della Somalia sia di altri Paesi della regione, che lo vedono come un passo destabilizzante. La Somalia ha iniziato subito a cercare dei partner, degli alleati, con cui in qualche modo fronteggiare le intenzioni etiopi di riconoscimento del Somaliland e uno di quelli che si è subito detto disponibile è stato l’Egitto. L’Egitto che ha da subito condannato la scelta etiope del MoU e che ha fatto capire che portare avanti il Memorandum d’intesa significherebbe non solo una minaccia per la stabilità somala, ma di tutta la regione. Si arriva così a settembre di quest’anno quando per la prima volta Egitto e Somalia hanno raggiunto l’accordo di cooperazione militare che prevede la fornitura sia di munizioni sia di dispiegamento di truppe egiziane sul suolo somalo, questo ufficialmente legato a un rinnovo della missione dell’Africa Union che dovrebbe iniziare a gennaio. Non ufficialmente, però, significa presenza di militari egiziani sul confine con l’Etiopia, un fatto che rischia di portare a un’escalation».

Quali sono gli sviluppi possibili di questo scenario così aperto?
«Gli sviluppi possono essere molteplici, anche perché noi abbiamo parlato finora di Somalia, Etiopia, Egitto, ma non sono gli unici attori coinvolti, c’è il Gibuti, c’è l’Eritrea; ci sono poi quegli attori che hanno acquisito sempre più rilevanza nell’area del Mar Rosso, i Paesi del Golfo, come gli Emirati Arabi, che sostengono e hanno sostenuto il MoU tra Etiopia e Somaliland, perché sono i principali investitori del porto di Berbera e perché stanno fornendo tutta la componente infrastrutturale anche delle reti di collegamento tra il porto e Addis Abeba. Poi c’è l’Arabia Saudita che nell’ultimo periodo ha ulteriormente consolidato i rapporti con l’Egitto. E poi c’è la Turchia che da tempo ha molti interessi in Somalia, si è impegnata soprattutto nella ricostruzione economica e politica degli apparati di sicurezza somali, considera un’eventuale indipendenza del Somaliland una minaccia ai propri progetti e allo stesso tempo, però, la Turchia è anche il Paese che mantiene i migliori rapporti con l’Etiopia, quindi ci sono stati un paio di tentativi di mediazione diplomatica tra Somalia ed Etiopia portati avanti dai turchi, che hanno portato però poco o nulla. Per complicare ulteriormente le cose, ci sono attori che potremmo chiamare globali. Gli Stati Uniti hanno manifestato un significativo interesse nel Somaliland per una questione molto semplice: la principale base militare statunitense nel Gibuti, Camp Lemonnier, che si trova a brevissima distanza dalla base cinese, una cosa che inizia a dare fastidio agli americani e li spinge a pensare di cambiare sito. Da questo punto di vista il Somaliland potrebbe diventare un perfetto luogo geostrategico perché proietta verso il Mar Rosso, ma soprattutto verso l’Oceano Indiano, che è il grande valore geostrategico della Somalia e del Somaliland. Dunque, che cosa succederà? Molto dipenderà dall’esito delle elezioni degli Stati Uniti, ma anche dalle elezioni in Somaliland. Va tenuto presente che in Somaliland c’è un tentativo cinese di, in qualche modo, veicolare il voto (dato che il Somaliland riconosce e mantiene rapporti con Taiwan e questo aspetto non piace alla Cina). Oltre a questi appuntamenti di novembre molto dipenderà da cosa succederà a gennaio quando, per l’ennesimo anno, con i finanziamenti delle Nazioni Unite e dei Paesi europei, verrà rinnovata questa missione di stabilizzazione a guida Unione Africana in Somalia – che ha portato scarsissimi risultati. Il Presidente somalo Hassan Sheikh ha chiesto che all’interno di questa missione non ci siano più i militari etiopi, che invece finora hanno costituito uno dei due blocchi grossi di soldati della missione africana, probabilmente si creeranno problemi nonostante Al-Sisi sembri intenzionato a dire “sostituiamo i soldati etiopi con gli egiziani”, ma non è così facile perché gli egiziani non hanno grandi capacità nel peacekeeping e non conoscono la zona, quindi diventerebbero facile preda soprattutto di Al-Shabaab. E questo ci porta alla grande domanda su cosa ne sarà della Somalia, un Paese sempre più fragile, in cui il governo centrale è retto unicamente dai tanti investimenti stranieri in cui ci sono fratture, non solo col Somaliland ma anche con altri Stati federali come il Puntland o il Jubaland, oltre ad Al-Shabaab, che dopo una fase, sembrava, di regressione ha ripreso il controllo di una buona fetta di territori. Quindi credo che l’aspetto più da tenere in considerazione, più che un eventuale conflitto tra Egitto ed Etiopia, potrebbe essere il rischio di un collasso del governo centrale di Mogadiscio che crea il timore di un Afghanistan 2.0, con al posto dei talebani, Al-Shabaab».
Così, mentre Etiopia ed Egitto stanno seduti lungo la riva del fiume ad aspettare di vedere l’uno il cadavere dell’altro passare, si trovano a fianco una bomba a orologeria sia per la sicurezza a livello regionale, sia per quella internazionale.