Partiti per una missione di 8 giorni gli astronauti statunitensi Wilmore e Williams sono rientrati sulla Terra dopo 9 mesi
Che si siano annoiati un po’ è probabile, ma che abbiano visto il mondo da un oblò (e pure per un gran numero di volte) è certo. Parliamo di Barry Wilmore e Sunita Williams, due astronauti della Nasa, partiti a bordo della prima missione della capsula spaziale Starliner di Boeing il 5 giugno 2024 che in fase di decollo non ha segnalato anomalie, ma ancor prima di raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale sono emersi problemi ai sistemi di manovra, infatti cinque propulsori (su 28) hanno smesso di funzionare. I propulsori in questione si utilizzano per orientare la capsula e regolarne la rotta e per l’attracco alla ISS sono state necessarie diverse attività aggiuntive e non propriamente semplici.
In base alle valutazioni compiute da Nasa e Boeing la capsula è stata fatta rientrare senza equipaggio, per far poi rientrare sulla Terra Wilmore e Williams a bordo delle navicella della diretta concorrente di Boeing, SpaceX di Elon Musk. Boeing e SpaceX competono per divenire partner privati della Nasa per i viaggi spaziali, e Boeing sperava con questa operazione anche in un rilancio di immagine, dato che l’azienda statunitense non gode di altissima popolarità a seguito del distacco in volo di una porta di emergenza da un Boeing 737 MAX 9 che aveva fatto alzare più di un sopracciglio in materia di sicurezza, soprattutto per i test eseguiti da Boeing nella produzione degli aerei, dopo che tra il 2018 e il 2019 due 737 MAX erano precipitati per accertate responsabilità dell’azienda. Boeing, dunque, da anni in difficoltà, rischiando di perdere contratti con diverse compagnie aeree che le hanno preferito la competitor a livello di aerei civili, Airbus, puntava allo spazio per un rebranding, ma nonostante a Starliner lavorasse una divisione diversa rispetto a quella che si occupa degli aerei, si sono registrati ritardi e problemi di vario tipo durante la costruzione del mezzo. Il non propriamente riuscito test spaziale si è, così, rivelato un boomerang.
La missione spaziale si è allungata di “appena” 278 giorni rispetto a quelli programmati, Barry Wilmore e Sunita Williams sono tornati sul pianeta dopo 286 giorni e aver orbitato attorno alla Terra 4.576 volte. Il mancato ritorno per l’immagine pubblica per Boeing, chiaramente, non è l’unica conseguenza di aver lasciato per ben 9 mesi i due astronauti a fluttuare nella ISS.
Al contrario dell’adagio secondo cui “la struttura alare del calabrone, in relazione al suo peso, non è adatta al volo, ma lui non lo sa e vola lo stesso” (che poi sarebbe il bombo, non il calabrone) verrebbe da dire che gli esseri umani sanno di non essere adatti alla fluttuazione in assenza di gravità, ma fluttuano lo stesso e le ripercussioni sull’organismo non sono poche. Secondo gli studi condotti dalla stessa Nasa lunghi periodi senza la gravità terrestre possono avere un impatto sulle ossa, che rischiano di perdere in media dall’1 all’1,5% della loro densità minerale (massa ossea) al mese, che comporta un maggior rischio di fratture ossee, possibili danni ai denti e di sviluppare osteoporosi; a ridursi rischia di essere anche la massa muscolare ed è per questo che gli astronauti seguono una routine giornaliera che prevede anche l’esercizio fisico. Un altro rischio è la diminuzione del volume sanguigno che comporta il rischio di sviluppare un aumento di aritmie e uno studio del Centre for Space Medicine del Baylor College of Medicine mette in luce i possibili impatti neurologici a lunghi periodi nello spazio. Infatti, a causa dell’assenza di gravità, il cervello riceve input ben diversi da quelli che riceve abitualmente sulla Terra con il rischio di causare disorientamento, cinetosi spaziale e una perdita generale del senso dell’orientamento; anche per questo al rientro dallo spazio gli astronauti vengono fatti sedere in modo da riprendere gradualmente confidenza con gli input che arrivano al cervello nuovamente sottoposto alla forza di gravità. Anche occhi e sistema gastrointestinale non sono immuni da possibili patologie dovute all’assenza di gravità e a tutto questo si aggiungono gli effetti psicologici dell’isolamento, ma come evidenziato dal rapporto Space Faring: The Radiation Challenge della Nasa i rischi maggiori sono dati dalle radiazioni.
L’esposizione prolungata alle radiazioni può provocare mutazioni somatiche del Dna e malattie come patologie degenerative o cancro e le parole del rapporto non rincuorano certo chi ha passato gli ultimi 9 mesi nello spazio: «attualmente la principale contromisura operativa contro gli effetti negativi delle radiazioni è semplicemente limitare l’esposizione degli astronauti, il che significa limitare la quantità di tempo che possono trascorrere nello spazio». Se per alcuni aspetti, come il caso dei problemi a vista e orientamento, è sufficienta tornare letteralmente con i piedi per Terra, nel caso delle radiazioni e di molti altri possibili effetti negativi la faccenda si complica. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports la densità ossea ha bisogno di molto tempo per ristabilizzarsi e non è nemmeno detto che torni ai parametri precedenti al viaggio spaziale, se si parla in termini così vaghi, però, è perché ogni astronauta ha risposto in maniera molto differente, come spiega il coautore dello studio, il professore della Cumming School of Medicine presso l’Università di Calgary in Canada, Steven Boyd: «abbiamo visto astronauti che avevano difficoltà a camminare a causa della debolezza e della mancanza di equilibrio dopo il ritorno da un volo spaziale, e altri che sono andati allegramente in bicicletta nel campus del Johnson Space Center per incontrarci per una visita di studio. Quando gli astronauti tornano sulla Terra, le reazioni sono molto diverse».
Lo spazio è pieno di misteri, il rapporto stesso tra gli esseri umani e lo spazio è, ancora oggi, un mistero. Quello che non è un mistero è che al netto della polemica politica – la questione degli astronauti bloccati è stata ovviamente oggetto di propaganda da parte di Trump e Musk durante la campagna elettorale presidenziale – dei tentativi più o meno riusciti di marketing di aziende private e delle speculazioni, c’è ancora chi per amore della scienza decide di mettersi a servizio della ricerca, anche in un mondo sempre più antiscientifico, sempre più cospirazionista, sempre più diffidente. Un duro lavoro, come si suol dire, ma che qualcuno, fortunatamente, ancora sceglie di fare.