Alzando al cielo la Coppa del Mondo FIFA, Lionel Messi ha toccato l’apice della sua carriera di calciatore. Il percorso a tinte fiabesche dell’argentino recordman

“C’era una volta un bambino che voleva diventare il giocatore più forte di sempre e vincere la coppa delle coppe”. È forse questo l’incipit più ricorrente delle fiabe che i bambini ascoltano ogni sera, prima di calarsi innocenti nel loro mondo onirico e vivere il sogno del campione, quello che senza distinzione di nazionalità, religione e ceto sociale accomuna da sempre l’infanzia di tutti. Chissà che non iniziasse così anche la fiaba che Celia Oliveira Cuccittini raccontava al nipote quando, a soli quattro anni, aveva già mostrato un precoce talento per il calcio. Lionel Andrés Messi Cuccittini cresce con il pallone tra i piedi, in una famiglia in cui quella per questo sport è una passione viva e pulsante. I primi passi li compie giocando insieme ai due fratelli maggiori, Rodrigo e Matias, e alla sorellina, Maria Sol, in quella infanzia trascorsa a Rosario, la più grande città della provincia argentina di Santa Fe. I suoi genitori, Jorge Horacio Messi e Celia María Cuccittini, hanno in realtà origini europee, italiane e catalane: il trisavolo paterno Angelo Messi migra in Argentina da Recanati nel 1883 e il trisavolo materno Raniero Coccettini da San Severino Marche nel 1899.

È proprio a Rosario, dunque, in quella famiglia appassionata di calcio, in quella Argentina degli anni Novanta piegata dalla crisi economica, che ha inizio la fiaba di Messi, quella che forse il bambino non ancora campione sognava e che, negli anni, è diventata realtà tra imprevisti, antagonisti e aiutanti. Grazie a quella nonna che gli dice “un giorno sarai il miglior giocatore del mondo”, Lionel entra piccolissimo nella rosa di una squadra locale, il Grandoli (dove, nota il padre, “alla seconda palla iniziò a dribblare come se avesse sempre giocato”), per poi passare al Central Córdoba e alla Newell’s Old Boys dove arriva nel 1995. A soli 11 anni la vita del calciatore in erba riceve i primi scossoni: Celia, la sua prima fan, muore, mentre lui smette di crescere. Piccolino è sempre stato, tanto da spingere il fratello Rodrigo a soprannominarlo “la pulga”, la pulce, un nomignolo affettuoso che si porterà dietro per tutta la sua carriera e che darà il titolo alla biografia autorizzata scritta nel 2014 dal giornalista spagnolo Guillem Balague. In realtà, si scoprirà, Leo è affetto da ipopituitarismo (una condizione che influenza la produzione ormonale dell’ipofisi): un colpo di scena che richiede l’intervento provvidenziale di un personaggio, come in tutte le fiabe che si rispettino. Per Messi quel personaggio, in quella circostanza, è il direttore sportivo del Futbol Club Barcelona, Carles Rexach, che lo vede giocare durante un provino ottenuto grazie ad alcuni parenti catalani – all’epoca ha 13 anni ed è alto 140 centimetri – e convince il club a farlo trasferire in Spagna e assicurarsi le sue prestazioni calcistiche pagando le cure mediche (famoso il contratto firmato su un fazzolettino di carta).

Il primo ingaggio ufficiale con il Barça arriva nel 2001, l’esordio in prima squadra nel 2004: a ripercorrere da quel momento in poi la carriera calcistica di Messi verso il suo premio, il titolo di “miglior giocatore di sempre”, si fa presto, basti dire che è un crescendo di traguardi raggiunti e record storici. Con i “Blaugrana” vince 10 volte il campionato Liga, 8 volte la Supercoppa di Spagna, 7 volte la Coppa del Re, quattro Champions League, tre Supercoppe europee, tre Mondiali per club. La summa di 18 anni di reciproca lealtà tra il campione e il club catalano che si concludono solo il 1° luglio del 2021. L’agosto successivo viene annunciato il suo trasferimento al Paris Saint Germain con cui esordisce in Ligue 1 (vinta nella stagione 2021/2022) con la maglia numero 30.

Nel frattempo, nonostante nel 2005 avesse già ottenuto la cittadinanza spagnola, non disdegna la sua Nazionale, l’“Albiceleste”. In Olanda vince il suo primo titolo nei Mondiali Under 20 del 2005, tre anni dopo le Olimpiadi di Pechino – contro la Nigeria -, nel 2021 spezza la maledizione della Copa America e batte il Brasile, nel 2022 si aggiudica la Finalissima a Wembley, Londra, contro l’Italia.

Il successo in Europa, dove era approdato appena adolescente, non spinge Lionel a dimenticare le sue origini, forse perché, oltre all’amore per il calcio, nelle strade di Rosario aveva conosciuto un altro grande amore, quello per la sua futura moglie, Antonela Roccuzzo. I due si conoscono da bambini tramite il migliore amico di lui, cugino di lei, si fidanzano in seguito, a circa 20 anni, per coronare il loro sogno d’amore il 30 giugno del 2017 alla presenza di circa 600 invitati. Insieme sono genitori di tre figli, Thiago, Mateo e Ciro, nati rispettivamente nel 2012, 2015 e 2018.

Ogni eroe, insegna la tradizione, esige un compagno di vita, come a insegnarci che da soli si è forti ma insieme si è inarrestabili, e Messi non fa eccezione: la famiglia, che sia di nascita o fondata, nella sua storia riveste un ruolo di primo piano. Lo hanno dimostrato le immagini dello scorso 18 dicembre in cui il neo-proclamato campione del mondo – il protagonista che finalmente raggiunge il suo obiettivo – festeggiava la vittoria contro la Nazionale francese insieme alla sua famiglia e, non secondari, i suoi compagni di squadra e concittadini argentini.

Il viaggio verso quell’obiettivo, come per qualsiasi altro eroe, per Messi non è stato privo di ostacoli, in primis i suoi antagonisti. Nella corsa al titolo di giocatore più forte della sua generazione (e forse di sempre), non c’è dubbio su quale sia il nome del suo rivale principale: Cristiano Ronaldo. Argentino classe ‘87 uno, portoghese classe ‘85 l’altro; 7 Palloni d’oro il primo, “solo” cinque il secondo; miglior uomo-assist con 392 azioni il più giovane, marcatore più prolifico di sempre con 837 reti il più grande. Entrambi sfiorano valori di mercato da capogiro, si contendono titoli individuali e di squadra, segnano nuovi record e passano alla storia con il loro gioco. Attualmente Messi vince il paragone proprio grazie alla coppa targata FIFA alzata a Doha, oltre che alle Olimpiadi di Pechino 2008, e batte Ronaldo sui campi. Ma la loro battaglia passa anche tramite social, guadagni e sponsor: CR7 vanta il profilo più seguito su Instagram con 520 milioni di followers mentre con il suo carosello di foto della vittoria in Qatar La Pulga ha infranto il record di likes (ben 68 milioni e 500 mila); secondo le stime riportate da Wall Street Italia, Ronaldo possiede un patrimonio che si aggira tra i 230 e i 290 milioni di dollari, Messi di 1,4 miliardi; Cristiano conta, tra i suoi numerosi sponsor, il marchio Nike (15 milioni di sterline all’anno per un contratto “a vita”), Lionel porta avanti il brand Adidas (stesse condizioni temporali a 18 milioni di sterline l’anno). Nei mesi scorsi i due campionissimi hanno messo da parte le rivalità per condividere il ruolo di protagonisti nella campagna di Louis Vuitton realizzata dalla celebre fotografa ritrattista Annie Leibovitz. Al centro un’iconica valigetta griffata, sopra alcuni pezzi degli scacchi di una partita già iniziata, ai lati i due miti concentrati sul gioco: tutti gli elementi per una foto che, oltre a fare il giro del mondo-Web, è già passata alla storia. “La Victoria está en la Mente”, “Victory is a State of Mind”, si legge su Instagram, dove lo scatto ha fatto la sua prima comparsa alla vigilia di Qatar 2022 (la maison ha realizzato per anni i bauletti per i trofei sportivi più prestigiosi, tra cui la coppa di Russia 2018, vinta dalla Francia). Un modo per anticipare le sfide individuali dei due capocannonieri ai Mondiali, per entrambi forse l’ultima occasione di vincere la Coppa del Mondo, ma anche il sogno di una tanto agognata finale Argentina-Portogallo, la resa dei conti finale, purtroppo non avvenuta. E tramite gli scacchi – come sottolineato dallo scacchista danese Peter Heine Nielsen, infatti, la posizione dei pezzi si riferisce a una storica sfida tra Magnus Carlsen e Hikaru Nakamura finita in parità – la consacrazione della loro rivalità immortale.

Come nelle migliori delle fiabe, inoltre, anche in quella di Messi il protagonista-eroe ha dovuto fare i conti con un antagonista imprevisto, intestino, mandato non dal destino ma imposto dal popolo: il campione argentino per eccellenza, Diego Armando Maradona, “El Pibe de Oro”. Per anni i due sono stati paragonati soprattutto sulla base dell’apparente incapacità della Pulce di portare l’“Albiceleste” sul tetto del mondo (troppo legato alla logica del club più che della Nazionale, la critica più frequente), sebbene, secondo alcuni, un paragone tecnico è impossibile e infruttuoso: troppo distanti le epoche calcistiche, con regole e tecniche proprie, troppo diversi gli stili di gioco; senza contare che alla vittoria del 1986, quasi inaspettata, la “Mano de Dios” era nella fase ascendente della sua carriera, il suo erede, invece, alla sua conclusione. Lo stesso Maradona, che ha allenato Messi in Nazionale, di lui diceva: «il pallone gli resta incollato al piede; ho visto grandi giocatori nella mia vita, ma nessuno con un controllo di palla come quello di Messi». Ebbene, alla fine, la stella del XXI secolo l’ha avuta vinta ma questo non è bastato, se il paragone non può essere il calcio allora lo sarà la morale, e improvvisamente una tunica si è trasformata nel pomo della discordia tra commentatori e tifoseria mentre il campione del mondo si è dovuto accontentare di una foto ricordo sporcata del nero vedo-e-non-vedo a coprire il bianco e il celeste.

Non che quella foto ricordo sia stata facile da raggiungere: sul campo del Lusail Stadium Messi ha dovuto affrontare un ultimo antagonista, il suo corrispettivo francese, il numero 10 della Nazionale francese, Kylian Mbappé. I due – compagni di squadra al Paris Saint Germain insieme ad altri nomi noti del mondo calcistico, vedi Neymar (numero 10 del PSG) e l’italiano Gianluigi Donnarumma – hanno combattuto in quella che è già considerata tra le partite più belle della storia, uno scontro ad armi pari, con Mbappé che segna una tripletta e Messi che fa sognare le piazze del mondo, che ha trovato la sua conclusione solo ai rigori, alla fine di 120 minuti di gioco al cardiopalma.

Su quell’erba la Pulce (forse al contrario del francese) non era certo solo a lottare per raggiungere l’obiettivo: il suo aiutante da manuale è stata la sua squadra, l’Argentina, a partire dal portiere Damián Emiliano Martínez Romero, detto “Dibu” (da un cartone di una serie TV argentina degli anni ‘90, Mi familia es un dibujo). 195 centimetri di altezza che negli ultimi tre minuti di recupero, quasi sul gong, si sono lanciati contro la palla di Kolo Muani per la parata più significativa di sempre; 195 centimetri di altezza in grado di indispettire e innervosire gli avversari al dischetto: «cerco di mettere fretta agli attaccanti che stanno per prendere una decisione. Invece di permettere a loro di mettere fretta a me, o concedergli del tempo per fargli fare quello che vogliono, mi assicuro che io sia già lì così che loro non sappiano cosa fare. Questo rende difficile per loro segnare», spiega.

C’è un motivo se a tutti piacciono le fiabe: ci fanno sognare, soprattutto quando i nostri sogni sono troppo grandi e siamo costretti ad affidarli a qualcun altro, lo incarichiamo di renderli realtà per noi, lo investiamo del ruolo di protagonista della fiaba. Questo è ciò che Lionel Messi rappresenta per il popolo calcistico e non: il sogno di molti che si incarna in uno, un uno per cui tifare, un uno in cui credere. La Pulga nasce con un talento ma, e lui forse lo sa, o almeno lo scopre già da bambino, questo non basta: contro difficoltà, detrattori e antagonisti servono amici, sostenitori, a volte un po’ di fortuna. E arrivati al traguardo, all’apice della propria storia, a rendere il protagonista un eroe sono la gratitudine e la consapevolezza di non essere stato solo nel viaggio, di essere la somma delle persone che ha incontrato e degli eventi che ha vissuto. Nella fiaba che abbiamo raccontato il finale sono le parole del campione, un finale che non delude: «si è fatta desiderare – dice di quella tanto agognata coppa, – ma è la cosa più bella che ci sia. La desideravo tanto. Dio me l’ha voluta regalare, avevo la sensazione che fosse questo il momento giusto. Questo è il sogno di chiunque, sono stato fortunato ad averlo realizzato: tutto quello che mi mancava era qui».

BOX – Lorenzo Villizio, l’uomo dietro la leggenda della maglia numero 10

Chi guardando una partita di calcio volesse individuare sull’erba il fantasista della formazione, l’attaccante o il centrocampista che più di tutti si distingue per un gioco creativo e imprevedibile, non dovrà fare altro che cercare il numero 10. Come forse succede a tutti i miti, quello della “maglia numero 10” nasce dal caso, da una coincidenza, dalla scelta disinteressata che ha associato questa semplice combinazione di cifre a un nome, “al” nome.

Nel 1958 16 Nazionali si preparano a partire alla volta della Svezia per la sesta edizione della Coppa del Mondo. Tra queste c’è anche il Brasile che per errore comunica alla FIFA la lista dei giocatori partecipanti ma non i loro numeri (solo dall’edizione precedente, Svizzera 1954, i giocatori mantenevano lo stesso numero per tutta la durata del torneo, precedentemente venivano invece assegnati in base al ruolo ricoperto in partita a partire dall’1 per il portiere). A risolvere il problema viene chiamato un membro uruguaiano del Comitato Organizzatore, tale Lorenzo Villizio, che assegna i numeri in modo totalmente casuale: il numero 10 va a un giovanissimo calciatore convocato come sostituto, un 17enne registrato all’anagrafe come Edson Arantes do Nascimento, destinato ad essere conosciuto per sempre con lo pseudonimo di Pelé. In quel Mondiale un “O Rei” in erba segna 6 gol in quattro partite contribuendo al primo titolo mondiale della Seleção. Altri due arrivano nel 1962 e nel 1970, rendendo la “Perla Nera” l’unico calciatore della storia a vincere tre Coppe del Mondo, proclamandolo – insieme alla brillante carriera nel Santos, sempre con il numero 10 – il miglior giocatore di sempre.

Nei decenni a seguire molti giocatori hanno conquistato la maglia e la gloria: Diego Armando Maradona, “El Pibe de Oro”, ex giocatore argentino che ha portato la Nazionale sul tetto del mondo nel 1986 e ha militato per il Napoli dal 1984 al 1991; i francesi Michel Platini alla vittoria degli Europei nel 1984 e Zinédine Yazid Zidane durante Francia 1998; il “Divin Codino” italiano Roberto Baggio,poi imitato, tra gli altri, da Alessandro Del Piero e Francesco Totti, entrambi 10 della Nazionale e 10 dei rispettivi club, la Roma e la Juventus, e Lorenzo Insigne agli Europei 2020. Il nuovo re benedetto dal mito, oggi, è Lionel Messi, ma chissà che Kylian Mbappé non abbia giurato tra sé di togliergli scettro e corona.