Nel 1993 a Potenza la scomparsa di un’adolescente getta luce sull’intricata rete di segreti che unisce magistratura e chiesa: 29 anni dopo, l’unica verità che conta è quella che non è stata svelata
Ci sono storie che conoscono tutti. Casi di cronaca che sono diventati familiari come le fiabe che si raccontano ai bambini. Crimini che dicono molto del mondo in cui viviamo, in cui cresciamo, in cui costruiamo un’identità che non ci appartiene fino in fondo. Sono storie che cominciano sempre allo stesso modo. C’era una volta, in un Paese non poi così lontano e in un tempo non tanto distante quanto si vorrebbe far credere, una ragazza dai lunghi capelli scuri. Una giovane donna curiosa, un’adolescente dolce, un po’ insicura forse, sicuramente molto ingenua; una ragazza come tante altre, che era inciampata su qualche debito formativo a scuola ma lo aveva prontamente recuperato a settembre. Poco più che una bambina, con un’amica del cuore, una famiglia protettiva e un corteggiatore, che non le faceva però palpitare il cuore. Si chiamava Elisa Claps.
Prima che la Disney le impastasse di miele, le fiabe erano quasi sempre racconti dell’orrore usati come metodo educativo in un’epoca in cui il metodo Montessori si poteva riassumere così: “disobbedire è il male”. Chissà se Elisa Claps conosceva la versione originale delle fiabe più amate; chissà se sapeva che i mostri non si trasformano mai in giovani e aitanti principi e che un lupo è soltanto un lupo, e nessun cacciatore può salvarti se finisci tra le sue fauci.
Potenza è una città che sembra un grande paese: si conoscono tutti, la vita gira intorno al centro storico, con i suoi profumi, le sue vetrine colorate, le sue contraddizioni. Le sue chiese. L’arteria principale della città è Via Pretoria e il suo cuore pulsante è – era – la chiesa di Santissima Trinità. Elisa era una cattolica devota, nessuno si stupì quando domenica 12 settembre 1993 uscì di casa con la sua amica Eliana per andare in chiesa. Davanti alla Santissima Trinità, Claps aveva appuntamento con Danilo Restivo. Un giovane uomo di origine sarda, figlio del direttore della biblioteca nazionale di Potenza, Maurizio.
La chiesa di Santissima Trinità è stata riaperta quest’anno, nel 2022, 29 anni dopo la scomparsa di Elisa. È cambiata: sono stati fatti lavori di ristrutturazione, è stata ultimata la facciata; anche il parroco è cambiato. Quella domenica del 1993 dal pulpito della chiesa cantava la messa don Mimì Sabia. Un uomo dai contorni foschi, molto vicino alla famiglia Restivo. Così vicino, che Danilo viveva all’interno del comprensorio della chiesa con sua madre e suo padre. Maurizio Restivo era un uomo discreto ma potente, un borghese di vecchio stampo, vicino, secondo voci di paese, agli ambienti massonici. Un uomo appassionato di cultura che nel corso del tempo aveva fatto di tutto per proteggere quel figlio che la gente definiva “strano”. Nel 1986, quando aveva 14 anni, Danilo aveva ferito al collo un altro adolescente. Ne era uscito quasi pulito, perché Maurizio aveva cercato di coprire la cosa, corrispondendo anche un’importante somma di denaro al padre della vittima come risarcimento. “Danilo è un puro, non sa mentire“, dirà Maurizio in un’intervista. Così puro da telefonare alle donne che corteggia rimanendo in silenzio e facendo passare in sottofondo la musica di Profondo Rosso o di Per Elisa, di Beethoven; così puro da tagliare ciocche di capelli alle ragazze che gli piacciono, sui mezzi pubblici, e più tardi anche alle sue vittime.
Perché Elisa, che aveva detto più volte di non essere interessata a quello strambo tizio, era andata all’appuntamento? Danilo le aveva detto di avere un regalo per lei e a un’adolescente forse piace essere corteggiata; una 16enne forse ha tutto il diritto di sentirsi invincibile. Di credere che le “cose brutte” succedano solo agli altri. Elisa Claps non tornò a casa quella domenica, né sarebbe tornata mai più. Il primo a preoccuparsi fu suo fratello Gildo e ci volle molto poco a puntare il faro su Danilo Restivo quando le amiche di Elisa confermarono che la giovane doveva incontrarsi con lui, quella mattina. Eppure con l’inizio delle indagini si mise in moto anche quella macchina sociale di menzogne e omertà che avrebbe condizionato l’intero caso.
Poco dopo la scomparsa di Elisa successero due cose: Danilo si recò in ospedale con una mano insanguinata: dichiarò di essere caduto ed essersi ferito sulle scale mobili in un cantiere in città; don Mimì Sabia lasciò Potenza e si chiuse alle terme per una settimana. Del caso venne incaricata Felicia Genovese, moglie di Michele Cannizzaro, ex direttore generale dell’ospedale San Carlo. Le decisioni prese in quei primi momenti risultarono a posteriori quantomeno lacunose: Genovese non fece interrogare Restivo, non fece perquisire la casa e non ordinò il sequestro dei suoi abiti. Non solo: il ragazzo ebbe il tempo di andare a Napoli per un concorso lavorativo. Ed Elisa? Le persone cominciarono a “vederla” dappertutto: in Brasile, in Albania, nel palazzo di casa sua; si ipotizzò che fosse scappata, che fosse stata rapita, che fosse morta. In realtà, Elisa non aveva mai lasciato la chiesa di Santissima Trinità: era ancora lì, a marcire nel sottotetto, mentre il suo assassino riprendeva in mano le redini della sua vita.
Intanto, in Basilicata, succedevano altre cose. L’allora magistrato Luigi De Magistris stava conducendo un’indagine chiamata “Toghe Lucane”: voleva smascherare legami poco leciti tra le magistrature della Basilicata e alcuni politici. Nell’ambito di questa inchiesta saltò fuori, nel 1999, la dichiarazione di un pentito, Gennaro Capiello, che accusava Genovese e il marito Cannizzaro di essere vicini ad ambienti massonici e di aver fatto di tutto per tutelare Danilo Restivo. Non solo: Capiello accusò anche Restivo padre di aver pagato Cannizzaro per assoldare un uomo che si liberasse del corpo di Elisa. Le dichiarazioni furono giudicate non attendibili ma il caso Claps passò comunque al setaccio della Procura di Salerno, lontano dalle maglie lucane. Non ci furono grosse svolte, perché a Salerno gli inquirenti si trovarono a studiare un’indagine trattata in maniera discutibile: Danilo non era stato perquisito e così nemmeno la chiesa, mancava qualunque genere di prova. Le indagini coinvolsero anche il Sisde, i servizi segreti civili. Dopo il ritrovamento del corpo, nel 2010, un ex agente rivelò che in quei primi anni i servizi avevano quasi la certezza che Elisa fosse stata uccisa e che qualcuno nell’ambiente ecclesiastico sapesse tutto. L’informativa non venne mai ritrovata.
Nel 2001 accadde qualcosa di ancora più strano. A metà marzo il fratello di Elisa, Gildo Claps, ricevette una telefonata da un’agente della Digos, Anna Esposito, che gli chiese un appuntamento urgente perché doveva parlargli di “qualcosa di importante”. Fissarono l’incontro per il 12 marzo. Esposito stava indagando sia sulle “toghe lucane” di De Magistris, sia sulla morte di Pasquale Gianfredi, un malavitoso del luogo ucciso insieme alla moglie; Gianfredi era, secondo la testimonianza di Capiello giudicata non attendibile, l’uomo che era stato assoldato per occultare il cadavere di Elisa. Anna Esposito però non riuscì mai a parlare con Gildo: venne trovata morta impiccata nel suo appartamento quel giorno stesso. Aveva 35 anni, due figlie, un compagno che lavorava come giornalista. Sul tavolo vennero trovati dei vestiti, adagiati lì come se Anna dovesse scegliere quale usare quella sera, per una festa alla quale aveva detto alla madre che avrebbe partecipato. La sua morte venne catalogata come suicidio. Caso chiuso.
Mentre Elisa marciva nel sottotetto della Santissima Trinità, Danilo lasciò l’Italia. Era il 2002 quando approdò a Bournemouth, nel Dorset. Si era innamorato: aveva conosciuto su internet una donna italiana emigrata tanti anni prima, Fiamma, di 15 anni più grande di lui. Andarono a vivere in un quartiere tranquillo e Danilo ricominciò a molestare le ragazze e a tagliare ciocche di capelli sui mezzi pubblici. Poi, la svolta: il 12 novembre del 2002 due ragazzini, Terry e Caitlin, tornando a casa da scuola trovarono la madre, Ether Barnett, uccisa e brutalmente mutilata. Dalle indagini emerse che qualche giorno prima un vicino di casa, tal “Danny”, si era recato a casa Barnett per commissionare delle tende a Ether, che faceva la sarta. In seguito la donna aveva confessato a un’amica di non aver più trovato le chiavi di casa, sospettava le fossero state rubate proprio da quell’uomo. Danilo Restivo. Il cerchio delle indagini si strinse ma mancavano prove certe e, benché stavolta papà Maurizio fosse lontano, questa storia avrebbe potuto avere un esito diverso se non fosse stato per il colpo di scena che nel 2010 sconvolse l’Italia.
A Potenza, la chiesa di Santissima Trinità era ancora lì: troneggiava placida su via Pretoria, insensibile all’inseguirsi delle stagioni, allo scorrere del tempo; erano trascorsi 17 anni e forse altrettanti ne sarebbero passati se non fosse stato per quell’infiltrazione d’acqua. Don Mimì Sabia era morto due anni prima, portandosi nella tomba i suoi segreti, e la nuova direzione della chiesa assunse un gruppo di operai per riparare la perdita, che aveva origine nel sottotetto. E proprio lì, gli operai trovarono lo scheletro di Elisa: i vestiti conservati in maniera quasi perfetta, l’orologio al polso, gli occhiali vicino al corpo, insieme a un bottone, rosso porpora. Il colore dei cardinali. Le analisi raccontarono finalmente cosa fosse accaduto: Elisa era stata colpita con un oggetto contundente, accoltellata 13 volte, probabilmente aveva subito un’aggressione sessuale. Il suo reggiseno era stato tagliato a metà, così come gli slip, nello stesso modo in cui erano stati recisi gli indumenti di Ether Barnett: in più, le era stata tagliata una ciocca di capelli. Il collegamento fu automatico, la firma era inconfondibile. Il 19 maggio 2010 Restivo venne arrestato in Inghilterra, nel marzo 2011 arrivò la prova sovrana, il Dna dell’uomo sulla maglia di Elisa; il 30 giugno 2011 Restivo venne condannato all’ergastolo in Inghilterra, l’11 novembre dello stesso anno gli vennero dati 30 anni in Italia.
La storia finisce dove è iniziata: all’ombra della chiesa di Santissima Trinità, in Basilicata. I dubbi che restano sono tanti: chi ha aiutato Restivo? Nel sottotetto sono state tolte delle assi, probabilmente per evitare che i miasmi del cadavere attirassero l’attenzione, ma il killer non avrebbe avuto il tempo di farlo. E com’è possibile che in 17 anni nessuno abbia visto il cadavere? Nel tentativo di rispondere a questa domanda gli inquirenti si trovarono davanti a una serie di dichiarazioni surreali. Venne fuori che due donne delle pulizie avevano già visto i resti in gennaio e lo avevano comunicato al don in carica, che a sua volta lo aveva riferito al vescovo; quest’ultimo avrebbe però capito “ho trovato un ucraino”, invece di “ho trovato un cranio”, e la cosa sarebbe finita nel dimenticatoio. Ma come si fa a dimenticare di aver rinvenuto dei resti umani in una chiesa? In quella chiesa?
La verità probabilmente non la sapremo mai. È morta con Elisa, con don Mimì, è rinchiusa in una galera britannica con Danilo, è trincerata in Sicilia con il padre Maurizio, giace negli scatoloni impolverati di una vecchia inchiesta sbugiardata, nella bara spazzata dal vento dell’agente Esposito. La verità è morta nel silenzio di chi sapeva e non ha parlato, di chi ha scelto di non vedere né sentire, di chi ha steso quel tappeto impregnato di sangue su una vicenda vergognosa almeno quanto dolorosa. E quello che rimane è solo una famiglia spezzata. Anzi, due. Rimangono due ragazzini che cresceranno senza madre e una madre che ha sepolto sua figlia con 18 anni di ritardo e lo ha fatto con un funerale all’aperto: perché «Elisa non entrerà mai più in una chiesa. Mai più».