Le federazioni sportive controllano e sanzionano l’uso di sostanze dopanti, ma spesso sembrano chiudere un occhio su altri abusi

Cos’hanno in comune Diego Armando Maradona, Andrè Agassi e Mike Tyson? Sono stati i numeri uno mondiali nelle loro discipline, certo, ma hanno condiviso anche la tossicodipendenza: il primo è morto, il secondo è passato da una droga a un’altra, solo l’ultimo ne è uscito e ha raccontato la sua drammatica esperienza nell’autobiografia “Open”. Sono moltissimi gli atleti che hanno ceduto alle droghe e all’alcol, rimettendoci la carriera e, in alcuni casi anche la vita. Non si sta parlando di doping, cioè di uso di sostanze che dovrebbero migliorare le prestazioni, bensì di cocaina, eroina, whisky. 

La coca de D10s

Diego Maradona – EPA/VASSIL DONEV

Maradona ha iniziato a drogarsi nel 1982 quando viveva a Barcellona e giocava nella squadra catalana. «È stato il più grande errore della mia vita», ha detto in una delle tante interviste rilasciate in televisione negli ultimi anni della sua esistenza. «Ho dato un grande vantaggio ai miei avversari a causa della mia malattia. Sai il giocatore che avrei potuto essere se non avessi mai preso droghe? Ho 53 anni ma con la vita che ho passato è come se ne avessi 80, perché la mia vita non è stata normale» aveva detto nel 2013.

A causa della dipendenza da cocaina, Maradona ha sofferto di gravi problemi di salute soprattutto dopo il ritiro da calciatore, e quindi l’inizio di una vita sregolata e sganciata dai ritmi sportivi di competizioni e allenamenti. Secondo le ricostruzioni più credibili, la mano de D10s si è drogato più o meno con continuità dal 1982 al 2004. Nel 2000 a causa di un’overdose è finito in terapia intensiva perché l’eccessiva dose di cocaina gli ha provocato “ipertensione arteriosa e aritmia ventricolare”.

Nel 2004 ha avuto un infarto e nel 2005 è stato sottoposto ad un bypass gastrico per l’eccesso di peso che l’aveva portato ad una grave obesità. Nel 2007 è stato nuovamente ricoverato in ospedale per l’epatite. Nel 2015 ha avuto un altro bypass gastrico, sempre per combattere l’obesità. Negli ultimi venti anni di vita ha avuto sbalzi di peso clamorosi. Ha continuato sempre a bere, ma ha dichiarato di non assumere più cocaina dal 2004 “e adesso mi sento benissimo”. Nonostante il suo spirito rivoluzionario e il carattere eccentrico, Maradona non ha mai nascosto la sua debolezza nella dipendenza dalla cocaina, che gli costò anche gravi problemi alla sua carriera calcistica, sin dal 1991 quando venne squalificato proprio per la positività alla droga mentre giocava nel Napoli. Durante la squalifica, tornò in Argentina e venne arrestato a Buenos Aires perché beccato con mezzo chilo di cocaina.

Dopo anni di pausa, è tornato in campo ai Mondiali USA 1994 segnando un grande gol nel girone contro la Grecia: il suo urlo liberatorio fece il giro del mondo. Durante il mondiale, però, è stato nuovamente squalificato per una sostanza proibita che il medico gli aveva somministrato per perdere peso. «Mi hanno escluso dal calcio, non credo di volere un’altra vendetta, ormai la mia anima è spezzata» ha detto dopo l’addio. E l’Argentina venne subito eliminata. El Pibe de Oro, tuttavia, era tornato a giocare in Argentina ma nel 1997 l’ennesimo test con la presenza di tracce di cocaina nelle urine pose fine per sempre alla sua straordinaria carriera da calciatore. È morto nel 2020, ad appena 60 anni per un edema polmonare acuto. 

Iron Mike dalla cocaina ai funghi

Mike Tyson – ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Mike Tyson di anni ne ha 57 e la sua ultima comparsa sulle prime pagine risale a qualche mese fa quando ha lanciato il…  veleno di rospo. L’uomo più cattivo del mondo ha ammesso di sballarsi con il veleno del rettile di Sonora. Un nuovo passatempo che, secondo quanto ha rivelato in una conferenza a Miami, gli ha cambiato la vita. «Ho ingerito il veleno di questo rospo per ben 53 volte – ha raccontato Iron Mike al New York Post -. Ma nulla si è avvicinato all’esperienza del mio primo trip. Quella prima volta sono “morto”».

Tyson ha raccontato di aver scoperto il veleno 4 anni fa, da un amico. «L’ho fatto come sfida – ha ammesso Mike -. Mi facevo di droghe pesanti come la cocaina, quindi perché no? È un’altra dimensione. Prima di farmi col rospo, ero un relitto. L’avversario più duro che abbia mai affrontato era me stesso. Avevo una bassa autostima. Alle persone con un grande ego capita spesso. Il rospo spoglia l’ego».

Il New York Post spiega che il veleno nasce dal Sonoran Desert Toad, un anfibio che trascorre sette mesi all’anno vivendo sottoterra, ma il suo veleno può essere fumato per ottenere effetti psichedelici. Sempre secondo quanto scrive il giornale, Tyson avrebbe un mini allevamento di rospi nel suo ranch nel Sud della California. «La gente vede quanto sono cambiato – ha sottolineato Tyson, riferendosi all’uso della nuova sostanza -. La mia mente non è abbastanza sofisticata per capire cosa sia successo, ma la mia vita è drasticamente migliorata. L’intero scopo del rospo è quello di farti raggiungere il massimo potenziale. Guardo il mondo in modo diverso. Siamo tutti uguali. Tutto è amore». Ed è per questo che, ha concluso, «sto lottando affinché gli psichedelici diventino una medicina che puoi acquistare al banco». 

La metanfetamina di Agassi

Andre Agassi – EPA PHOTO AFP/FRANCOIS MARIT

Andre Agassi, 54 anni, è stato uno dei tennisti più forti di tutti i tempi, vincitore di 60 titoli ATP e 8 tornei dello Slam. Mai nessuno come lui ha vinto tutte le categorie di torneo esistenti per un tennista maschile in singolare: quattro tornei dello Slam, medaglia d’oro del singolare olimpico, torneo ATP World Championship, ATP Master Series, ATP 500, ATP 250 e la Coppa Davis, vinta nel 1990, 1991 e 1995. 

Adorato dalle donne per il suo fascino trasgressivo nel formale mondo del tennis, nel ‘97 sposò la bellissima Brooke Shields ma la sua carriera stava sprofondando: disputò solamente 24 incontri e scivolò alla 141esima posizione mondiale, chiudendo l’anno al numero 122. Venne anche trovato positivo alla metanfetamina a un controllo antidoping, ma se la cavò raccontando alla Federazione di averla ingerita con un cocktail, in cui era stata inserita a sua insaputa. La verità emerse solo nel 2009, nella sua autobiografia “Open”:  «Piccole montagnette di polvere sul tavolino. Lui (ndr: tale “Slim”) la taglia e la sniffa. La taglia di nuovo ed è il mio turno. Mi rilasso sul divano e penso al rubicone che ho appena valicato – scrive -. Poi subentra il pentimento e una tristezza infinita finché un’onda di euforia non mi avvolge e spazza via tutti i pensieri negativi. Non mi sono mai sentito così vivo, così speranzoso e con tanta energia». La metanfetamina porta a comportamenti violenti, ansia, confusione, insonnia, paranoia e disturbi della personalità; nel giro di alcuni mesi l’uso abituale di questa droga provoca effetti irreversibili sulle cellule cerebrali, soprattutto quelle produttrici di dopamina, che vengono danneggiate gravemente. Agassi, “the kid”, si riprese grazie al tennis, nel 1999, tornando ai vertici finché non fu ancora bloccato dagli infortuni. Ora è sposato con l’ex tennista Steffi Graf, con la quale ha due figli, ed è un imprenditore e un benefattore di successo. 

Ma nella lunga lista di sportivi tossicodipendenti c’è anche il plurimedagliato nuotatore Michael Phelps, la tennista prodigio Jennifer Capriati, il leggendario calciatore inglese George Best e, più recentemente, Paul Gascoigne… e molti altri. 

Ma perché?

Test antidoping – SHUTTERSTOCK

Ma perché degli atleti, non solo professionisti, bensì ai vertici mondiali, dovrebbero abusare di sostanze fisicamente dannose? Secondo una ricerca pubblicata da SwissMed, le esigenze psicologiche e fisiche di una carriera sportiva possono portare ad una maggiore suscettibilità ai comportamenti a rischio. Inoltre, esiste una sovrapposizione tra gli anni di picco agonistico e l’età principale di uso di alcol e droghe illecite, cioè la fascia tra i 18 e i 29. 

Una spiegazione semplice è che le ragioni del consumo di droga non differiscono sostanzialmente tra gli atleti d’élite e la popolazione generale. Resta tuttavia aperta la questione se gli atleti rischiano le conseguenze negative dell’uso di sostanze o se non ne sono consapevoli. Approcci più specifici includono i fattori di stress che gli atleti devono affrontare durante e dopo la loro carriera. Vivendo in un ambiente altamente competitivo devono affrontare la pressione per esibirsi, un supporto sociale limitato a causa degli spostamenti continui, dinamiche di gruppo negli sport di squadra, infortuni e dolore fisico. Sia lo stress acuto che quello a lungo termine possono avere un grave impatto negativo sul benessere psicologico e possono contribuire allo sviluppo di disturbi mentali. Recenti studi hanno identificato più di cento fattori di stress distinti nel corso di una carriera sportiva. Gli atleti di alto livello adolescenti (come Agassi) sono soggetti a un rischio elevato di comportamenti pericolosi, soprattutto a causa degli atleti coetanei, che possono incoraggiare l’uso, l’offerta e la domanda di droghe.

La conoscenza sull’uso di sostanze tra gli atleti deriva da due fonti principali: la divulgazione volontaria nei questionari di ricerca e il rilevamento nei test antidoping. I test antidroga vengono eseguiti dall’Agenzia mondiale antidoping, che vieta le sostanze psicoattive come cannabinoidi, stimolanti e narcotici. L’alcol è stato rimosso dall’elenco delle sostanze proibite ma diverse organizzazioni sportive lo controllano durante i test. È ancora incerta la classificazione della nicotina. 

Se si prendono i risultati dei test dell’Agenzia come unica fonte di informazione, l’uso di droghe ricreative tra gli atleti sembra raro: su 322.050 test condotti nel 2017, stimolanti, narcotici e cannabinoidi sono stati trovati nello 0,25% di tutti i campioni. Tuttavia, il sistema di test presenta lacune significative, soprattutto nel settore giovanile e adolescenziale. Il consumo di alcol e nicotina, cause frequenti di disturbi da uso di sostanze nella popolazione generale, non viene registrato. Nei questionari di autovalutazione, gli atleti d’élite riportano tassi di consumo di varie sostanze psicoattive che sono considerevolmente più alti di quanto suggeriscono i risultati dei test antidoping.

Quello che emerge, in conclusione, è che gli studi e le statistiche sull’utilizzo di sostanze cosiddette “dopanti ricreative” sono pochi e frammentati. Per fare un esempio, uno studio svedese del 2022 mostra come i calciatori professionisti siano meno inclini all’abuso di alcool rispetto alla popolazione generale svedese, che comunque ha avuto per decenni un endemico problema legato a questo tipo di dipendenza. La sensazione che si ha è che le federazioni si concentrino più sul rilevamento delle sostanze dopanti che non sull’effettiva salute degli atleti, che potrebbe essere compromessa da altri tipi di abusi. Insomma, né mens sanacorpore sano

di Giulia Guidi

Foto ANSA (elaborazione Manuela Alfieri)