Quando tutti credono di aver vinto, chi vince davvero? In attesa dell’esito dell’Election Day riviviamo il primo dibattito televisivo tra Donald Trump e Kamala Harris
A distanza di neanche due mesi dal grande annuncio – giunto non proprio inaspettato – che ha sconvolto la campagna elettorale statunitense in vista delle prossime elezioni presidenziali, il mondo ha assistito al primo confronto pubblico e dal vivo dei due candidati alla Casa Bianca. Un appuntamento tanto atteso, su cui sono state fatte numerose previsioni, e che potrebbe (come no) decidere le sorti non solo della Presidenza americana ma anche della geopolitica di domani.
Chi ha vinto, dunque, sul palco del National Constitution Center di Philadelphia e sugli schermi degli elettori tra Donald Trump e Kamala Harris? Difficile a dirsi, soprattutto se consideriamo che il risultato cambia in base allo schieramento che lo enuncia. Così, dopo 90 minuti “di fuoco”, sia i repubblicani che i democratici hanno gridato alla vittoria, dimentichi forse del fatto che la vera vittoria, quella che conta, arriverà solo a novembre. Un’idea, però, in molti se la sono già fatta.
L’importanza di essere prima: Kamala Harris corre per la Presidenza
Cronaca di uno scontro

Quando il 21 luglio scorso il presidente in carica e allora candidato Joe Biden annunciava su X che riteneva “nel migliore interesse” del partito democratico e del Paese il suo ritiro dalla corsa per un secondo mandato, gli staff di entrambi gli schieramenti si erano trovati improvvisamente a rivedere tutte le loro strategie per la campagna elettorale. I democratici di Kamala Harris – avanzata come candidata in pectore fino alla nomina ufficiale durante la convention di Chicago dello scorso 23 agosto – avevano dovuto costruire una campagna da zero, incentrandola sulla figura della vicepresidente (ben diversa, almeno in apparenza, da quella di Biden), mentre i repubblicani di Donald Trump avevano dovuto correggere il tiro di una campagna incentrata, in parte se non totalmente, sullo screditare il presidente in carica. Un’estate bollente in cui non è mancato nulla, attentati, foto fake, commenti al vetriolo, che attendeva la sua fine naturale nel tanto atteso banco di prova televisivo, soprattutto dopo la débâcle di Biden dello scorso 28 giugno.
Il giorno tanto atteso è arrivato ieri (in Italia le 3.00 della notte appena passata) con la diretta televisiva trasmessa da Abc del dibattito tra il tycoon e la vicepresidente. Il faccia a faccia era già stato stabilito mesi fa, ancora prima dell’annuncio di Biden, sebbene dopo la discesa in campo di Harris l’ex presidente repubblicano avesse paventato dei possibili cambiamenti, in particolare in merito all’emittente. Trump non aveva infatti fatto segreto che avrebbe preferito la messa in onda su un’emittente a lui più vicina. La stessa Fox News (di stampo repubblicano) aveva inviato una missiva, firmata dal presidente e direttore esecutivo Jay Wallace e dalla vicepresidente della politica Jessica Loker, ai due candidati suggerendo come data e luogo il 17 settembre proprio in Pennsylvania (uno dei 6 “swing States”, ovvero gli Stati “in bilico” che potrebbero decidere le sorti delle elezioni). Subito dopo il tycoon, in un’intervista sempre a Fox, aveva dichiarato di aver accettato “i prossimi dibattiti con Joe Biden”, suggerendo che allora la candidatura di Harris non ancora ufficializzata non fosse legale. Dal canto suo, già allora Harris si diceva “pronta al dibattito”.
Nonostante i tira e molla, il dibattito è stato mantenuto su Abc e a moderarlo sono stati chiamati due giornalisti di lungo corso: David Muir, 50 anni, inviato in zone di guerra e intervistatore in passato di Trump, e Linsey Davis, 46 anni, reporter e conduttrice afroamericana, autrice di libri per bambini. Scelte che il tycoon sembra non aver gradito molto: al termine del dibattito ha infatti dichiarato che “i moderatori sono stati molto scorretti, è stato un tre contro uno”. «Nonostante questo, è stata una grande serata. Sapevo che i moderatori sarebbero stati pessimi, questo è il peggior network e lo è sempre stato», ha aggiunto. Posizione condivisa anche dai suoi consiglieri: «questo dibattito è tre contro uno: i moderatori di Abc stanno chiaramente facendo pubblicità a Kamala Harris», è stato il commento dell’ex parlamentare democratica Tulsi Gabbard, parte dello staff dell’ex presidente.

Forse per questo, finito il dibattito, quando Harris ha dichiarato di essere disponibile a un altro confronto a ottobre, l’ex presidente ha chiosato: «lo vuole perché è stata battuta. Non so se ne faremo un altro». Poi, quando Fox News ha ribadito la sua intenzione di ospitare un secondo duello, ha ritrattato: «ci penserò, se sarà su un network corretto». Ma davvero Harris è stata battuta? L’opinione generale sembra sostenere il contrario: secondo un sondaggio fatto da Cnn con Ssrs, il 63% degli spettatori ritiene che la vicepresidente sia uscita a testa alta dal confronto, rispetto al 37% che ha preferito Trump. A giugno, dopo il faccia a faccia tra Biden e Trump, le statistiche erano a favore del secondo (67% contro il 33%) mentre prima di ieri gli spettatori erano divisi al 50%. Ovviamente i dati non fanno il risultato finale – come sottolinea un’analisi della Cnn – e la strada è ancora tutta in salita per Harris che, d’altro canto, una soddisfazione se l’è presa, riuscendo ad ammorbidire perfino le posizioni di uno dei più fieri sostenitori del tycoon. «Anche se non ritengo che i conduttori del dibattito siano stati imparziali con Trump, Kamala Harris ha superato le aspettative della maggior parte delle persone stasera – ha scritto su X Elon Musk specificando però: – Detto questo, quando si tratta di fare le cose e non solo di dire belle parole, credo fermamente che Trump farà un lavoro molto migliore. Dopo tutto, se Kamala può fare grandi cose, perchè non l’ha fatto? Biden si presenta raramente al lavoro, quindi è sostanzialmente già lei a comandare».
E forse è vero che ha comandare è già lei, certamente – secondo molti analisti – ha comandato il dibattito dal primo secondo quando si è avvicinata al rivale politico e tendendogli la mano si è presentata: «sono Kamala Harris». Scrive la Cnn: «ha dettato le condizioni del duello da quando lo ha praticamente costretto a stringerle la mano». Chapéu.
Parliamo di soldi
Sono stati molti i temi portati sul palco e sullo schermo durante il dibattito. Ha aperto le danze il sempreverde “economia e costo della vita”. Le posizioni dei due candidati sono state chiare: entrambi si sono accusati di non aver un piano specifico («non ha un piano, intende difendere se stesso», punta il dito Harris; «lei non ha un piano, ha copiato il piano di Biden», ribatte Trump). La vicepresidente ha dichiarato di voler dare priorità alle esigenze della middle class, di cui si dichiara parte, mentre accusa il tycoon di voler pensare ai suoi amici ricchi. Trump al contrario ha ricordato la presunta bontà delle politiche economiche varate durante la sua presidenza al grido di “ho creato posti di lavoro e li ho salvati”, citando la politica sui dazi (su cui la vicepresidente ha incalzato: «Donald Trump ha venduto i nostri chip alla Cina, praticamente ci ha venduto, per dare a Pechino la possibilità di rafforzare il suo esercito»). «Ho creato una delle economie più forti della storia e lo rifarò», ha aggiunto poi Trump, paragonando il passato con la “terribile economia” attuale – leggasi, dell’Amministrazione di cui fa parte Harris – e non mancando di tirare in ballo gli immigrati che secondo l’oratore ruberebbero lavoro agli americani. Tirare in ballo il tema, tuttavia, non sembra avergli giovato: quando ha dichiarato che gli immigrati haitiani mangiano i cani e i gatti domestici il moderatore ha sfruttato il fact checking per smontare la sua falsa teoria, definitiva cospirativa.
L’elefante nella stanza
Quella sui presunti pasti degli immigrati a base di gatti, in ogni caso, non è stata in ordine di tempo la prima gaffe del tycoon. Poco prima, infatti, quando aveva accusato i democratici di voler consentire l’aborto al nono mese di gravidanza, sempre il moderatore era intervenuto per ricordare che attualmente nessuno Stato americano permette l’interruzione di gravidanza così tardiva. Trump ha poi cercato di riprendere il filo del discorso sostenendo di non essere a favore di un bando federale della pratica tout court e di essere in linea con quanto deciso dalla Corte Suprema dopo l’abrogazione della sentenza Roe v. Wade, ovvero che la decisione spetta a ogni singolo Stato.
Harris però non si è fatta sfuggire l’occasione di portare avanti una delle battaglie cruciali del suo programma politico e accusando il rivale di “diffondere un mucchio di bugie” sul tema ha dichiarato: «il governo e soprattutto Donald Trump non dovrebbero dire ad una donna cosa fare con il suo corpo. Sono convinta che gli americani ritengono che certe decisioni sulle nostre libertà non devono essere prese dal governo».

Al tema aborto, poi, è seguito un altro dei capisaldi di Harris, la fedina penale del tycoon. Il tema non è nuovo nelle dichiarazioni della vicepresidente che già durante la prima convention da candidata in pectore, ricordando la propria esperienza da procuratrice generale della California, aveva dichiarato: «mi sono occupata di criminali di tutti i tipi. Criminali che hanno abusato delle donne. Truffatori che hanno derubato i consumatori. Imbroglioni che hanno infranto le regole per guadagnarci dei soldi. Quindi ascoltatemi quando dico che so che tipo di persona è Donald Trump». Quando l’ex presidente ha iniziato a parlare dei “crimini degli immigrati” (ancora loro), così, Harris ha subito preso la palla al balzo ricordando a tutti che queste dichiarazioni arrivavano da “qualcuno che è stato processato per crimini alla sicurezza nazionale, crimini economici, interferenza elettorale”; “casi falsi” ha ribattuto Trump.
«Il 6 gennaio 2021 il Presidente degli Stati Uniti ha incitato una rivolta violento contro Capitol Hill – ha ricordato ancora Harris, aggiungendo: – Donald Trump è stato licenziato da 81 milioni di persone […]. Ma non possiamo permetterci di avere un presidente degli Stati Uniti che tenta, come ha fatto in passato, di sovvertire la volontà degli elettori in un’elezione libera e giusta». Trump, d’altro canto, ha fornito un’altra versione dei fatti: lui avrebbe vinto le elezioni del 2020 contro Joe Biden mentre la responsabilità di quanto avvenuto il 6 gennaio 2021 sarebbe dell’allora Speaker della Camera Nancy Pelosi che in quell’occasione non ha fatto intervenire la Guardia Nazionale.
Parole di pace, parole di guerra
Su un tema, forse, Trump ed Harris si sono trovati d’accordo (più o meno): la guerra. Mentre a poca distanza dal luogo del dibattito si svolgeva una manifestazione contro la guerra a Gaza (l’ultima di molte delle proteste pro Gaza che si sono diffuse negli ambienti universitari e non, una mobilitazione che negli ultimi mesi a molti ha ricordato le proteste contro la guerra in Vietnam degli anni Sessanta), la vicepresidente dichiarava: «questa guerra deve finire. Deve finire immediatamente». Già in precedenza Harris si era esposta per parlare di pace: a metà giugno aveva partecipato insieme al consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan alla Conferenza di pace in Svizzera, aperta dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky, e a fine luglio si era espressa sul conflitto israelo-palestinese dopo il bilaterale tra Benyamin Netanyahu e Joe Biden, prima, e il bilaterale tra Netanyahu e la stessa Harris, dopo, alla Casa Bianca. In entrambi i casi la vicepresidente, nel suo ruolo istituzionale, aveva deciso di sottolineare l’aspetto umanitario delle guerre, ribadendo l’“incrollabile” sostegno a Kiev e l’impegno di Washington per favorire un clima di dialogo e cooperazione in Medio Oriente, “senza sconti ai crimini di guerra”. Qualche analista, tuttavia, aveva già notato un cambio di rotta nell’atteggiamento di Harris: usando le parole dell’ex consigliere alla Sicurezza Nazionale John Bolton, la vicepresidente aveva mostrato un atteggiamento “glaciale” nei confronti del presidente israeliano, inviando un “segnale molto chiaro”: «Israele ha il diritto di difendersi e come lo fa conta – ha dichiarato la vicepresidente. – Che cosa è successo a Gaza negli scorsi nove mesi è devastante. Non possiamo guardare altrove, non possiamo permetterci di restare insensibili. E io non resterò in silenzio». Soprattutto, c’è chi ha notato, Harris è stata la prima in ambito statunitense a chiedere al più presto il cessate il fuoco, forse puntando ai voti degli arabo-americani del Michigan (altro “swing State”). Il palco del National Constitution Center ha fornito a Harris una nuova occasione per ribadire che Israele ha il diritto di difendersi ma “il modo in cui lo fa è importante” poiché “è anche vero che sono stati uccisi troppi palestinesi innocenti, bambini, madri”. Ha poi sottolineato la sua intenzione di lottare per un cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi che porti a “tracciare una rotta per una soluzione a due Stati e in quella soluzione deve esserci sicurezza per il popolo israeliano e Israele, e una misura uguale per i palestinesi”.

Promesse? Forse, come promesse sono quelle pronunciate da Trump secondo il quale con lui il conflitto nella Striscia di Gaza “non sarebbe mai iniziato”: se eletto, prosegue, sistemerà “la questione in fretta”, conflitto israelo-palestinese o Ucraina che sia. Non è la prima volta che il tycoon fa dichiarazioni simili, anzi possiamo dire che quella del “ci penso io” sia la strategia scelta fin dall’inizio da lui e il suo staff. Quest’estate, in riferimento alla guerra in Ucraina, ad esempio, dichiarava: «come prossimo presidente porterò la pace nel mondo e metterò fine alla guerra che è costata molte vite umane e che ha devastato molto famiglie innocenti», ed forse è anche vero che lui, imprenditore fattosi politico, ha ben in mente gli effetti del conflitto sull’economia ma è ancora più vero che negli anni della sua presidenza le sue parole erano ben lontane dall’essere pacifiche. La Corea del Nord che nel 2017 minacciava gli Stati Uniti con il suo programma nucleare e i test missilistici avrebbe fatto bene a fare attenzione o sarebbe stata ricambiata con “fuoco e furia come il mondo non ha mai visto”. “Cose che non avrebbero creduto mai che sarebbero state possibili” sarebbero avvenute, invece, in caso di attacco a Guam. Ancora, nel 2016, mentre definiva gli Stati Uniti parte neutra in un eventuale negoziato tra Israele e Palestina, Trump si dichiarava “grande fan di Israele” e l’anno successivo visitava il Muro del Pianto a Gerusalemme; ancora, stracciava l’accordo sul nucleare con l’Iran e sosteneva l’Arabia Saudita nella guerra civile nello Yemen. Questo in politica estera: volgendo lo sguardo all’interno, nel già citato gennaio del 2021 l’ex presidente uscito sconfitto alle urne invitata i suoi sostenitori a marciare “pacificamente” verso il Campidoglio usando queste parole: «non vi riprenderete mai il nostro Paese con la debolezza. Dovete esibire forza e dovete essere forti. […] Combattete. Combattiamo come dannati. E se non combatterete come dannati, per voi non vi sarà più un Paese». Parole che poco hanno di pacifico e che hanno portato all’assalto di Capitol Hill e a una quasi sfiorata guerra civile. “Fight” è anche la parola che il tycoon ha usato lo scorso 13 luglio quando, dopo essere stato colpito a un orecchio da un proiettile sparato da Thomas Crooks, si è rialzato e pugno in aria ha incitato i suoi sostenitori a “combattere”.

Attacco al “potere”: Trump e non solo
Noi, loro: colpi frontali
“Harris mette Trump sulla difensiva in un acceso dibattito”. Così, commentando il dibattito, titola oggi il New York Times. Sembrerebbe posizione condivisa, infatti, che la vicepresidente sia uscita vincitrice dallo scontro grazie alla capacità – forse insperata – di mettere in difficoltà il rivale, a volte persino ridicolizzandolo, lui che del ridicolo ha fatto il cavallo di battaglia della sua strategia comunicativa. Non tutti sono d’accordo, ovviamente. Mentre Harris riconosce che c’è ancora strada da fare (“siamo gli underdog”), il candidato vice di Trump, J.D. Vence, dichiara alla Cnn: «penso che quello che abbiamo visto da Kamala Harris siano un sacco di banalità, un sacco di piani senza sostanza. Trump l’ha martellata per le sue incoerenze, giusto? Questa è una persona che ha detto di voler vietare il fracking, ora dice di no. Voleva tagliare i fondi alla polizia, ora dice di no».
La vicepresidente non sembra temere i soprannomi – per cui Trump è famoso – né le critiche dirette al suo operato fino a questo momento (“peggior vicepresidente”, “terribile negoziatrice”, fino a “marxista”, prima di concludere: «perché non ha fatto le cose che dice di voler fare?») e decide di rispondere a tono. «La gente se ne va dai comizi di Trump per noia ed esasperazione – così Harris punta a minare l’autostima del tycoon, per poi continuare sul fronte geopolitico: – i leader stranieri ridono di te. Gli alleati della Nato sono così grati che tu non sia più presidente». Lui, al contrario, sembra scegliere un’altra via: «forse ho preso quasi una pallottola in testa per la loro retorica contro di me, per avermi additato come una minaccia alla democrazia», accusa così il fronte democratico, puntando sull’empatia dei suoi possibili elettori. Al netto dei commenti, una cosa però è certa: il faccia a faccia non ha fatto che rimarcare alcune delle strategie comunicative già collaudate dai due candidati, con Trump che punta all’iperbole ed Harris che tenta la strada del dialogo, dell’unità. Già da candidata in pectore diceva «siamo di fronte a due visioni contrapposte, una che guarda al futuro e una al passato» (frase che, parafrasato, ha ripetuto in chiusura di dibattito), decidendo di definire un “noi”, i democratici moderati che guardano al futuro, e un “loro”, i repubblicani seguaci di Trump che, nella sua comunicazione, guardano indietro. Non è una sorpresa: la battaglia tra Trump ed Harris, in effetti, si basa proprio sulla dicotomia noi/loro, per un semplice motivo: il “noi” trumpiano, già definito, ha un’identità; il “noi” della vicepresidente, invece, si sta ancora costruendo e più tasselli riuscirà a inserire più potrà sperare di vincere. Se guardiamo alle elezioni del 2016 (quando Trump sconfisse Hillary Clinton non tanto con i voti – il 46,1% contro il 48,2 – quanto con i Grandi elettori – 304 contro 227), a votare per l’imprenditore erano stati soprattutto gli uomini (53%), bianchi (58%), tra i 45 e i 65 anni (53%) e over 65 (53%), residenti nelle periferie, nelle città medio-piccole e nelle zone rurali (92%). L’ex First Lady lo aveva battuto sulla popolazione femminile, nera, sulla fascia d’età 18-29 anni e nei centri delle grandi città. Per questo per quest’ultima corsa Trump ha scelto come suo vice J. D. Vance, autore di Elegia americana (Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis). Harris potrebbe replicare il risultato – vincente solo sulla carta – di Clinton, ma deve puntare a includere le fasce escluse dalla retorica di Trump non per mancanza di scelta ma per vero coinvolgimento, traguardo a cui potrebbe riuscire ad avvicinarsi proprio grazie al dibattito di ieri.
Social, social, social… e (finalmente) superstar
Oltre ai palchi e agli schermi televisivi, ormai da mesi i candidati lavorano per imporsi anche su altri scenari. A farla da padrone, in questa campagna elettorale del Terzo Millennio, sono certamente i social network, piattaforme su cui Trump e Harris si sono mostrati con i loro tratti distintivi. Esperto “a modo suo” uno, dilettante ma promettente l’altra.
È ormai ampiamente noto il massiccio uso che Trump fa dei social network, ambito in cui, da uomo di spettacolo, è forte anche o forse soprattutto grazie al fatto che il tycoon non risponde a dinamiche social provenienti dall’alto ma, letteralmente, stabilisce le sue personalissime dinamiche: risale infatti al febbraio del 2022 il lancio di Truth Social, una piattaforma definita “Big Tent” nata – come nelle intenzioni dei suoi ideatori, Wes Moss e Andy Litinsky – per incoraggiare “una conversazione globale onesta, aperta, libera e senza discriminazioni”. Leggasi: senza censura. Truth, del resto, nasce dopo che gli account social dello stesso Trump erano stati sospesi a seguito dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Sebbene oggi la sua presenza sia stata ristabilita, in particolare su X ora di proprietà di Elon Musk (come detto, sostenitore di Trump), all’epoca Twitter, dove prima del ban il tycoon contava decine di migliaia di follower, oggi 87 milioni, il candidato repubblicano ha deciso di mantenere buona parte della sua comunicazione su Truth, progetto imprenditoriale definibile fallimentare (cinque milioni scarsi di visitatori) nonostante la quotazione in Borsa che ha raggiunto gli 8 miliardi di dollari, che sopravvive proprio grazie alla rilevanza politica del suo più noto utente.
Il fronte democratico, invece, ha tutto un altro approccio con i social network. L’uso formale e moderato della vicepresidente fino a poco tempo fa, dopo il ritiro di Biden ha subito un’evoluzione importante che strizza l’occhio ai trend, ai giovani elettori – certamente più sensibile ai temi da lei portati in campagna elettorale – e, soprattutto, alle star. Nel suo primo spot ufficiale, pubblicato a fine luglio neanche a dirlo su Facebook, Instagram & Co., ad accompagnare le parole della vicepresidente – “In queste elezioni, ognuno di noi si trova di fronte a una domanda: in che tipo di Paese vogliamo vivere? Ci sono alcune persone che pensano che dovremmo essere un Paese di caos, di paura, di odio. Ma noi? Scegliamo qualcosa di diverso. Noi scegliamo la libertà” – c’erano le note di Freedom (Lemonade, 2016), brano di Beyoncé a favore dei diritti civili, già colonna sonora del movimento Black Lives Matter (ad agosto, poi, la cantante ha diffidato Trump e il suo staff dall’usare le sue canzoni, iniziative simili a quelle di Isaac Hayes e Céline Dion). Ancora dal mondo della musica, era arrivato quasi subito l’endorsement di Charli XCX. Era bastato che la cantautrice britannica – che lo scorso 7 giugno ha pubblicato il suo ultimo album, Brat (letteralmente “monella”, “biricchina”) – scrivesse su X “kamala IS brat” per lanciare il trend. Harris era così diventata il volto della “brat summer” a cui abbiamo appena detto addio e il suo staff aveva cavalcato l’onda con un rebranding sui toni del verde acido (colore della copertina dell’album), costruendo una campagna comunicativa che incentivasse meme e reposting. Beyoncé e Charli XCX erano stati solo i primi due nomi di una lunga lista di superstar che si sono esposti pubblicamente nei confronti di Harris, lista che include nomi come George Clooney, Barbra Streisand, Julia Roberts, Jimmy Kimmel, Jack Black, Sheryl Lee Ralph, Spike Lee, Shonda Rhimes, Viola Davis, John Legend, Ricky Martin, Robert De Niro, Cher, Mark Ruffalo, Jamie Lee Curtis, Olivia Rodrigo, Cardi B, Danai Gurira, Kerry Washington, Jessica Alba, Uma Thurman, Elizabeth Banks.
Ancora ai social si erano affidati anche Barack e Michelle Obama, il cui silenzio prolungato dopo il ritiro di Biden aveva incentivato voci di corridoio su presunte fratture tra i Dem. Al contrario, dicendosi “orgogliosi” di sostenere Harris, negli ultimi mesi la coppia si è spesso mostrata al fianco della vicepresidente e alla convention di agosto ha riadattato l’ormai celebre slogan in “Yes, she can”. Oggi, all’indomani del dibattito, Barack Obama scrive: «stasera abbiamo visto in prima persona chi ha la visione e la forza per far progredire questo Paese invece di dividerci. Kamala Harris sarà un presidente per tutti gli americani»; gli fa eco Biden: «La vicepresidente Harris ha dimostrato di essere la scelta migliore per guidare la nostra nazione in futuro. Non torneremo indietro».
Fino a ieri, tuttavia, mancava uno degli endorsement più attesi in assoluto. È arrivato al termine del dibattito, tramite Instagram: «alle elezioni presidenziali del 2024 voterò per Kamala Harris e Tim Walz. Voto per Harris perché lotta per i diritti e perché credo che ci sia bisogno di un guerriero che li difenda. Penso che sia una leader dotata e dalla mano ferma e credo che possiamo ottenere molto di più in questo Paese se siamo guidati dalla calma e non dal caos. Sono rimasta così rincuorata e colpita dalla sua scelta del compagno di corsa Walz, che da decenni difende i diritti LGBTQ+, la fecondazione in vitro e il diritto di una donna al proprio corpo», ha scritto, firmandosi “Childless Cat Lady” (frecciatina al compagno di cordata di Trump, J.D. Vance), la popstar Taylor Swift, sfatando (finalmente) ogni dubbio sulle sue posizioni. Perché abbia deciso di attendere non è noto, perché invece si sia esposta lo dice lei stessa. Citando le recenti immagini realizzate con l’intelligenza artificiale che la ritraevano sostenere la corsa presidenziale del tycoon, Swift ha ritenuto necessario “essere molto trasparente riguardo ai miei reali piani per queste elezioni come elettore” poiché “il modo più semplice per combattere la disinformazione è dire la verità”.
E del resto la cantautrice non è certamente nuova alla politica, lei che già nel 2020 aveva pubblicamente appoggiato Biden e che, sempre nel 2020, si rivolgeva a Trump con queste parole: «dopo aver alimentato il fuoco della supremazia bianca e del razzismo per tutta la tua presidenza, hai il coraggio di fingere superiorità morale prima di minacciare la violenza? Alle elezioni ti manderemo via».
Non la vostra Miss America: Taylor Swift tra musica, politica ed economia
Allora aveva funzionato, chissà che il fronte democratico non speri in un bis.
di: Alessia MALCAUS
FOTO: ANSA/EPA/DEMETRIUS FREEMAN/POOL
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