STEM

La presenza del genere femminile nel settore dello STEM è ancora troppo marginale: i dati lo confermano. A parlarcene è stata Luisa Torsi, chimica italiana e ricercatrice nel campo della diagnostica medica

Ci aveva già pensato Margaret W. Rossiter, storica della scienza, nel 1993, a riassumere “l’Effetto Matilda”, fenomeno per il quale, in campo scientifico, il risultato del lavoro di ricerca compiuto da una donna viene totalmente o in parte assegnato ad un uomo. La Rossinter voleva sottolineare come il contributo dato dalle donne nell’ambito delle professioni STEM (acronimo inglese per “scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche”) fosse sempre svalutato e spesso anche disinteressato nei confronti delle ricerche delle scienziate, le quali erano citate nelle riviste in quantità minore rispetto a quanto non lo fossero gli scienziati uomini. Proprio per questo motivo, non molto tempo fa, l’Asociación de Mujeres Investigadoras y Tecnólogas (AMIT) ha lanciato l’iniziativa #nomorematildas per rivendicare i nomi di molte donne dimenticate ingiustamente dalla scienza.

Sono passati più di 30 anni da questo studio ma le cose non sono migliorate di molto, e a confermarlo sono diverse ricerche che dimostrano come la strada culturale ed economica da percorrere sia ancora molto lunga. Per capire meglio com’è la situazione in Italia, abbiamo intervistato Luisa Torsi, professoressa di chimica all’Università degli Studi di Bari, adjunct professor presso l’Åbo Akademi University in Finlandia, ricercatrice nel campo della diagnostica medica e vice presidente del consiglio scientifico del Cnr, che ci ha raccontato anche la sua esperienza personale. 

Il rapporto fra donne e lavoro STEM è ancora un tema di discussione molto attuale e reale, qual è la situazione italiana? Come si posiziona l’Italia rispetto agli altri Paesi d’Europa? 

«In generale, si può affermare che le donne con competenze STEM rappresentano una minoranza fin dalle fasi universitarie. Il recente rapporto ANVUR 2023, che include una dettagliata analisi di genere, evidenzia che il numero di studentesse iscritte a corsi di laurea STEM si attesta stabilmente intorno al 37% e non ha subito variazioni significative per dieci anni, a partire dal 2011. Questo dato è particolarmente rilevante se si considera che, complessivamente, le studentesse universitarie e le laureate (in tutte le discipline) costituiscono quasi il 60% del totale in Italia. Tali cifre sono generalmente in linea con la media europea. Questa disparità ha evidenti ripercussioni negative sulla presenza delle donne nel settore lavorativo STEM, un settore che si distingue per il suo dinamismo e per le numerose opportunità offerte, non solo in termini di occupazione, ma anche di remunerazione. Promuovere un maggiore equilibrio di genere nelle discipline STEM è cruciale per garantire un accesso equo alle opportunità professionali più promettenti e ben retribuite», ha detto Luisa Torsi.

Percentuali iscrizioni ai corsi di laurea STEM (SKYTG24)

Può raccontare la sua esperienza da donna nel mondo scientifico? Ha sentito in maniera significativa questo divario?

«Ho lavorato spesso all’estero, prima negli USA e poi per la Commissione Europea, agli inizi della mia carriera. Già dagli anni ’90, in questi ambiti, erano in atto buone pratiche che miravano a mitigare gli effetti dei pregiudizi nei confronti delle donne e delle loro abilità e competenze in ambito STEM. Forse anche per questo, non ricordo episodi specifici in cui mi sono sentita discriminata. Tuttavia, le discriminazioni, in particolare quelle di genere, spesso si manifestano attraverso comportamenti subdoli e difficilmente stigmatizzabili. Quando ho iniziato a studiare le statistiche prodotte regolarmente dalla Commissione Europea, che fotografano la presenza delle donne nelle diverse fasce della carriera accademica (studenti, dottorandi, ricercatori, professori associati, professori ordinari e, più recentemente, rettori), mi sono resa conto che noi donne siamo discriminate eccome – ha continuato la professoressa di Bari – Sebbene il numero di studentesse e delle laureate sia ben più elevato di quello degli studenti, le professoresse ordinarie rappresentano ancora meno del 30% e le rettrici sono poco più del 10%. Questo indica che i talenti delle numerose studentesse che si laureano vengono persi man mano che si selezionano le persone per le posizioni accademiche. Purtroppo, questa problematica non si limita all’ambito accademico o alle discipline STEM, ma permea tutta la società civile. Promuovere l’equità di genere e valorizzare il talento femminile è essenziale per costruire una società non solo più giusta e inclusiva, ma anche in grado di valorizzare i talenti di ognuno».

Si sa poi che da anni i ragazzi del sud si spostano al nord per trovare un posto nel mondo. Lei lavora a Bari, ha visto qualche cambiamento negli ultimi anni?

«Bari è cambiata radicalmente negli ultimi dieci anni, e non lo dico solo io che vivo e amo questa città, ma lo confermano anche coloro che la visitano come turisti. Certo, molto c’è ancora da fare per migliorare ulteriormente, ma i progressi sono evidenti. Negli ultimi anni, ho notato un crescente dinamismo economico e culturale. La città ha investito molto in infrastrutture, servizi e iniziative culturali, rendendola più attraente non solo per i residenti, ma anche per chi proviene da altre regioni. Questo purtroppo non ha però contribuito significativamente a trattenere un numero maggiore di giovani che preferiscono studiare al Nord, anche quelle discipline che da noi sono un fiore all’occhiello. Moltissime sono STEM. Sebbene ci siano ancora sfide da affrontare, come il miglioramento delle opportunità di lavoro e la riduzione del divario tra Nord e Sud, posso dire, forse con un eccesso di ottimismo che Bari sta diventando sempre più un polo attrattivo per i giovani talenti. Nel mio piccolo ho di recente lavorato molto per reclutare studenti italiani che avevano scelto di andare all’estero. E non sono la sola del Dipartimento di Chimica dell’Università di Bari che è riuscita in questa impresa».

Donne brillanti 

Gli stereotipi di genere sono molto difficili da attenuare o spegnere: sono pregiudizi del tutto infondati alla cui propagazione contribuisce moltissimo anche il mondo dello spettacolo, all’interno del quale, invece, sono presenti menti di donne brillanti che ribadiscono l’ottima relazione tra materie STEM e il genere femminile. Lo studio sulle disuguaglianze di genere nell’industria cinematografica statunitense condotto nel 2015 dal Geena Davis Institute ha portato alla luce come il ruolo di scienziati, matematici e ingegneri siano svolti nella maggior parte da uomini rispetto a donne. L’intelletto delle donne di scienza viene celebrato in maniera insufficiente e inadeguata: qui sotto alcuni esempi.

Tra gli anni ‘30 e ‘60, l’attrice Hedy Lamarr girò diversi film con grandi attori e registi di Hollywood. L’austriaca era laureata in ingegneria e lavorò all’interno del dipartimento di tecnologia militare degli Stati Uniti per collaborare personalmente alla guerra contro il nazismo. Nello specifico Lamarr elaborò la teoria dello spettro diffuso, ideando un sistema per far saltare i segnali di trasmissione tra le frequenze dello spettro magnetico: si tratta di un metodo che ancora oggi viene usato per le reti mobili. 

Rosalind Franklin è poi un altro esempio evidente. La scienziata, chimica e cristallografa, nel 1951, entrò nell’unità di ricerca in biofisica del King’s college di Londra usando le conoscenze di cristallografia per scandagliare la sfera della genetica. L’anno successivo riuscì a conseguire immagini nitide dell’intera struttura del DNA grazie alle quali ne descrisse la densità e stabilì la forma elicoidale delle sue molecole. A servirsi della sua geniale scoperta furono due colleghi, James Watson e Francis Crick, che utilizzarono le immagini e alcune sue deduzioni per la pubblicazione dell’articolo riguardante il DNA, un pezzo che ne rivelò la sua struttura: un polimero a doppia elica. 10 anni dopo, furono loro due a vincere il Premio Nobel per la medicina e non la Franklin.

Tutti sappiamo chi è invece Rita Levi Montalcini, la neurologa che nel 1986 vinse il premio Nobel per la medicina grazie allo studio a cui dedicò una vita intera: quello sul cervello umano, attraverso il quale identificò l’NGF, il fattore di accrescimento della fibra nervosa. Fu la prima donna ad essere riconosciuta e accolta alla Pontificia accademia delle scienze. Oggi a capo della CERN (Organizzazione europea per la ricerca nucleare) di Ginevra c’è Fabiola Gianotti, fisica e prima direttrice generale dell’Istituto ad essere confermata per un secondo mandato. Quanti di noi lo sapevano? E soprattutto quante giovani ragazze ne erano a conoscenza? Se le studentesse di oggi non inseguono il sogno di una carriera appagante nell’ambito delle materie scientifiche forse è anche per la limitata conoscenza dei modelli femminili ai quali potersi ispirare.

Rita Levi Montalcini (DAL ZENNARO/ANSA/DEF)

Non si può poi dimenticare Marie Curie, fisica che ottenne due volte il premio Nobel e che contribuì enormemente alla scienza nelle professioni STEM scoprendo il radio e il polonio e ottenendo, grazie ai suoi studi, una cattedra alla Sorbona. E poi l’astrofisica e divulgatrice italiana Margherita Hack, che dedicò una vita agli spettri stellari e che fu membro dei gruppi di lavoro dell’ESA e della NASA. E oggi Gwynne Shotwell, Presidente e COO di SpaceX, che ha studiato ingegneria meccanica e termica ed è considerata una delle figure più influenti nell’industria aerospaziale moderna. La sua mente brillante ha giocato un ruolo fondamentale nel pregresso e nel successo dell’azienda, in maniera particolare nel campo dei voli spaziali e del trasporto commerciale nello spazio. 

Questi sono solo alcuni degli esempi più celebri, ma di donne che hanno lasciato il segno del mondo delle professioni STEM ce ne sono moltissime: l’impressione comune è invece che si tratti di casi eccezionali, quando invece non è affatto così. 

Nel 2016 uscì al cinema il film Il diritto di contare, una pellicola che racconta la storia delle tre scienziate senza le quali gli USA non avrebbero vinto la conquista dello spazio nel corso della Guerra Fredda. 50 anni è il periodo che ci è voluto per riferire al mondo questa storia inedita la quale glorifica Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson, donne che negli anni Sessanta lottarono anche contro le segregazioni razziali. Attualmente il quartier generale della NASA a Washington porta il nome di Mary Jackson.

Un po’ di dati 

Anche gli studi delle Nazioni Unite indicano la netta discrepanza di genere nei settori STEM in tutto il mondo. È questo il motivo per cui l’11 febbraio di ogni anno si celebra la Giornata Internazionale delle Donne e delle Ragazze nella Scienza istituita nel 2015 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Secondo i dati raccolti dall’Istituto delle statistiche dell’UNESCO il problema è che le donne sono pagate meno per le loro ricerche e non fanno la stessa carriera che invece fanno gli uomini. 

Un report dell’Istituto di statistica dell’UNESCO, che ha preso in analisi 107 Paesi per il lasso di tempo che va dal 2015 al 2018, comunica che le donne rappresentano in media il 33,3% dei ricercatori a livello mondiale, con una considerevole instabilità tra Paese e Paese. Nell’Europa del Sud-est, ad esempio, il 51,2 % dei ricercatori è di genere femminile, nell’Unione Europea il 33,8% e nel Sud-est dell’Asia solo il 26,3%. È l’Argentina la nazione in testa alla classifica con la percentuale più alta di ricercatrici donne (54,1%). Al fondo, invece, troviamo invece la Corea del Sud e il Giappone, rispettivamente con il 20,4% e il 16,6%. 

Percentuali ingegneri assunti nel 2022 (SKYTG24)
Dati stipendio netto a cinque anni dalla laurea (SKYTG24)

C’è anche da dire che, soprattutto nel nostro Paese, si cresce con il pensiero secondo il quale bisogna essere portati per le scienze, e quindi di conseguenza chi non lo è è incline a rinunciare. Operare sulla formazione e sull’informazione diventa quindi basilare per non tramandare nel tempo delle convinzioni e dei pregiudizi che generano ostacoli complessi da superare. Gli studi condotti da Terre des Hommes tramite l’Osservatorio indifesa, condotti su circa 2000 ragazze tra i 14 e i 26 anni, hanno evidenziato come il 53,96% pensi che le decisioni sugli studi futuri siano controllate e frenate da molti stereotipi e che il luogo di lavoro sia un territorio in cui la probabilità di essere discriminati è molto alta. 

Il superamento di questo gap è un traguardo fondamentale e doveroso sia per la parità di genere, che per il miglioramento della tecnologia e della scienza. Le donne che ce l’hanno fatta sono un esempio da tenere come guida e indicano come questi muri possano essere superati. Resta quindi indispensabile che la collettività si metta al lavoro per creare ambienti educativi e lavorativi più inclusivi: la sensibilizzazione e le politiche eque hanno un ruolo da protagoniste nell’arricchimento del mondo tecnologico e scientifico con diverse prospettive e innovazioni.

di: Alice GEMMA

FOTO: ANSA FOTO/SHUTTERSTOCK