La regione, di rara ricchezza ma mai doma, cerca la sua strada per l’emancipazione: dal controllo straniero, dal terrorismo, dalla fame. Niger, Burkina Faso e Mali sfidano l’ECOWAS
Il 26 luglio 2023, la guardia presidenziale del Niger, il generale Abdouahamane Tchiani, arresta il presidente filo-francese Mohamed Bazoum e prende il suo posto. Due anni prima, a poche ore dal suo insediamento, lo stesso Tchiani aveva sventato il tentato golpe di un’unità dell’aeronautica militare nigerina contro Bazoum. Non era che l’ultimo di una lunga ondata di colpi di Stato: Niamey ha infatti seguito l’esempio di Mali, Guinea, Burkina Faso, Gabon, volendo segnalare solo quelli “riusciti”, mentre nel 2024 si è registrato un altro tentato golpe nella Repubblica Democratica del Congo. È la cosiddetta “Cintura dei Golpe” che tiene il cuore del Sahel e dell’Africa centro-occidentale strangolati nella spirale della violenza, mentre le cosiddette istituzioni politiche arrancano.
Cos’hanno in comune tutti questi Paesi? Al netto delle specificità etniche e tribali, che spesso finiscono per dettare guerra e pace, gli Stati del Sahel sono ricchi di minerali, soffrono ferocemente la piaga del terrorismo e arrancano nella destabilizzazione politica. Eppure, non sarebbe corretto ascrivere questi terremoti politici alla ribellione di qualche facinoroso o al grilletto facile del generale di turno, e ce lo dimostra il caso del Niger, dove il populismo ha alzato la voce e il popolo ha risposto. Mentre il deposto Bazoum sconta gli arresti domiciliari nel palazzo presidenziale, in poco più di 12 mesi il generale Tchiani, fedelissimo dell’ex presidente Mahamadou Issoufou e in passato a guida di missioni per conto dell’ONU, imbandisce la cacciata tanto dei francesi, dal primo dei soldati all’ultimo dei funzionari diplomatici, quanto dell’ECOWAS. Lo scorso gennaio Niger, Mali e Burkina Faso, tra i membri fondatori dell’ECOWAS, firmano una dichiarazione congiunta di abbandono “irrevocabile” della Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale unendosi di contro nell’Alleanza degli Stati del Sahel – AES. A marzo tocca agli Stati Uniti: Tchiani dichiara illegale la presenza USA sul territorio, stracciando gli accordi di cooperazione militare in atto. Approfittando della sospensione della membership inferta dall’ECOWAS ai golpisti – un monito che aveva già il sapore di resa – le giunte “hanno fatto leva su una retorica vittimista e sovranista che ne ha cementato il consenso”, scrive per l’ISPI il ricercatore associato Luca Ranieri. Non è mancata la zizzania soffiata dai francesi, fra i primi caldeggiatori di un intervento militare per ripristinare i poteri eletti e per questo accompagnati con la valigia alla porta senza troppe riverenze. Nella più pasionaria retorica anti-colonialista e inevitabilmente anti-francese, i golpisti rivendicano una rivoluzione che sa di seconda indipendenza, accusando i vecchi partner di interferire con gli affari interni, spesso pilotati dall’Occidente, ma anche di inazione e inefficacia contro il terrorismo. È così che l’alleanza si plasma su una rete di governance e strategie condivise, a partire proprio dalla lotta al terrorismo, passando per una valuta comune e il recupero della sovranità rispetto alle influenze esterne. A tale scopo, le tre giunte pescano a piene mani nel calderone della retorica populista, promuovendo una maggior diffusione delle lingue locali nei media pubblici e privati o, com’è avvenuto di recente in Niger, rinominando piazze e strade retaggio della dominazione francese. Più che a suon di cancel culture, è attraverso una festa popolare diffusa che Niamey celebra la rimozione della targa in Avenue Charles de Gaulle sostituita da Avenue Djibo Bakary, politico nigerino ricordato come uno degli eroi dell’indipendenza dell’Africa Occidentale, mentre Place de la Francophonie diventa Place de l’Alliance des États du Sahel. «Da oggi in poi onoreremo i nostri avi. Non ha senso che le nostre strade continuino a portare i nomi di ex colonizzatori» anziché quelli dei “nostri eroi nazionali”, spiega orgoglioso il colonnello Abdramane Amadou, portavoce del regime nigerino.
Così, l’AES prepara la rivoluzione nel Sahel, ma le vere sfide non riguardano tanto l’emancipazione delle ex colonie, bensì rimettono in discussione l’intero sistema regionale. A partire dalla legittimazione politica di Mali, Burkina Faso e Niger, frutto di esperienze golpiste che spesso, per loro natura intrinseca, si rivelano transitorie e dunque inaffidabili. Riusciranno a conquistare la legittimazione politica e giuridica necessaria per intessere rapporti imprescindibili con gli altri attori? Il guanto di sfida dei golpisti è anche di natura economica: l’AES mette a terra una piattaforma per lo sfruttamento congiunto e strategico delle risorse dell’area (agricoltura, minerali, energia), ma contemporaneamente rinuncia all’area di libero scambio dell’ECOWAS, con conseguenze immediatamente nefaste per il commercio locale. Ma c’è anche la questione securitaria, primaria per il gruppo: su di essa, l’ECOWAS tenta di fare leva per mantenere aperti dei canali collaborativi. A luglio l’organizzazione ha infatti promosso una ri-apertura agli Stati precedentemente rinnegati, a partire dall’invito a coinvolgerli nella lotta nel terrorismo perché “non possiamo combattere il terrorismo da soli o se qualcuno non sta facendo la sua parte”, spiegava il presidente della Commissione ECOWAS Omar Touray. O, per meglio dirlo, è preferibile che gli sforzi monetari dell’AES confluiscano in un fondo collettivo: l’obiettivo rilanciato da Touray è quello di istituire un contingente di sicurezza antiterrorismo di cinquemila unità, al costo di 2,6 miliardi di dollari ogni anno. Un banco di prova importante per la maturità politica dell’AES che, specialmente in questo comparto, pagherebbe a caro prezzo l’isolamento.
Quanto all’Italia, avremmo davvero un ruolo chiave nella regione, o meglio potremmo averlo. Ad oggi l’unica rappresentanza militare occidentale rimasta in Niger è costituita dalla missione bilaterale italiana MISIN, un contingente di circa 350 effettivi con 13 mezzi di terra. Istituita nel 2018 dal Parlamento, questa missione ha lo scopo di favorire la sicurezza del Paese (ma si estende anche a Mauritania, Nigeria e Benin) mediante il “contrasto dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza”, come il terrorismo, e il supporto alle Forze armate nigerine, “nell’ambito di uno sforzo congiunto UE e USA per la stabilizzazione dell’area”. Nel frattempo però, Niamey ha stracciato gli accordi delle missioni europee EUCAP Sahel Niger e EUMPM e cacciato fino all’ultimo statunitense. L’ultimo baluardo occidentale, invece, ha finora mantenuto buoni rapporti con la giunta di Tchiani, che ha recentemente rinnovato la sua stima nei confronti dell’Italia, un “partner importante e speciale”, mentre nuovi progetti di sviluppo e cooperazione sarebbero già in cantiere. Al ministro Antonio Tajani, che al G7 di Capri ha confermato all’omologo Antony Blinken di voler preservare la presenza europea in Niger, non resta che il delicato compito di convivere con i russi. Il Cremlino ha infatti già incassato un accordo di cooperazione militare con il Niger, così come ha già fatto in Mali e in Burkina Faso. Quando le giunte getteranno la maschera, sapremo di cosa sono affamate davvero, e quanto sono disposte a pagare la libertà.
Così ricco, così povero

Il Niger sembra prigioniero delle sue contraddizioni. Anche nel 2024, il Paese si è confermato 189esimo su 192 nell’Indice di Sviluppo Umano del Programma ONU per lo Sviluppo. La fame, la disoccupazione e le minacce dei fondamentalisti islamici di varia matrice mettono costantemente a rischio la popolazione, che registra uno dei tassi di alfabetizzazione più bassi al mondo (circa una persona su tre è in grado di leggere e scrivere). Nonostante questo, il Niger è anche uno dei Paesi demograficamente più floridi: sfiora il 4% di crescita annua (ogni donna, in media, ha 7 figli) e ha una popolazione giovanissima (quasi la metà ha meno di 15 anni).