A 100 anni dall’omicidio fascista di Giacomo Matteotti ricordare è più importante di commemorare

Esiste, nella Storia italiana, un prima e un dopo dell’omicidio Matteotti. Quel 10 giugno di 100 anni fa il fascismo decise di calare la maschera e di mostrare la sua vera natura, in tutta la sua violenza. Intorno alle quattro del pomeriggio l’Onorevole del Partito Socialista Unitario che usciva dalla sua residenza per recarsi a Montecitorio venne assalito, gli aggressori gli saltarono addosso, lo picchiarono e lo caricarono sulla Lancia Kappa dove con ogni probabilità, dopo un’agonia di diverse ore, Giacomo Matteotti morì. Il corpo, in avanzato stato di decomposizione, venne rinvenuto solo due mesi più tardi, il 16 agosto, a Riano. Dopo il riconoscimento della salma un convoglio notturno il 19 agosto ne trasportò i resti nella città natale, Fratta Polesine, la vedova di Matteotti, Velia Titta, in una lettera al ministro dell’Interno Luigi Federzoni, chiese che “nessuna rappresentanza della Milizia fascista sia di scorta al treno: nessun milite fascista di qualunque grado o carica comparisca, nemmeno sotto forma di funzionario di servizio. Chiedo che nessuna camicia nera si mostri davanti al feretro e ai miei occhi durante tutto il viaggio, né a Fratta Polesine, fino a tanto che la salma sarà sepolta. Voglio viaggiare come semplice cittadina, che compie il suo dovere per poter esigere i suoi diritti; indi, nessuna vettura-salon, nessun scompartimento riservato, nessuna agevolazione o privilegio; ma nessuna disposizione per modificare il percorso del treno quale risulta dall’orario di dominio pubblico. Se ragioni di ordine pubblico impongono un servizio d’ordine, sia esso affidato solamente a soldati d’Italia”.

La responsabilità fascista nell’omicidio apparve evidente fin dai primi momenti, principalmente perché il 30 maggio Matteotti in un discorso alla Camera denunciò a gran voce violenze e illegalità operate dei fascisti per garantirsi la vittoria elettorale e dopo aver concluso la sua accusa con le parole: «noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra. Voi volete ricacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle elezioni». Secondo quanto riferì Giovanni Cosattini, collega e amico di Matteotti, l’Onorevole socialista disse: «io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me».

Il giorno dopo il sequestro, in risposta all’interrogazione parlamentare del deputato Enrico Gonzales, Benito Mussolini parlò di una “ipotesi di un delitto, che, se compiuto, non potrebbe non suscitare lo sdegno e la commozione del governo e del parlamento”, iniziarono le indagini del magistrato Mauro Del Giudice, che portarono all’individuazione e all’arresto dei membri della polizia politica: Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. Del Giudice fin da subito vide in Dumini l’assassino, ma per ordine diretto di Mussolini al magistrato venne tolto l’incarico e le indagini fermate. Mussolini impose poi le dimissioni a Cesare Rossi e Aldo Finzi – noti frequentatori degli uomini di Dumini – e fu costretto alle dimissioni anche il capo della polizia Emilio De Bono. Il 18 giugno 1924 Mussolini abbandonò la guida del ministero dell’Interno affidandola a Luigi Federzoni. Il Partito Socialista Unitario con un comunicato accusò “l’autorità politica” che “assicura solerti indagini per consegnare alla giustizia i colpevoli, ma la sua azione appare totalmente investita dal sospetto di non volere, né potere colpire le radici profonde del delitto, né svelare l’ambiente da cui i delinquenti emersero”. Il 27 giugno, all’indomani della riconferma della fiducia a Mussolini, i parlamentari dell’opposizione decisero di abbandonare i lavori dando il via alla secessione dell’Aventino, con l’obiettivo di giungere alla caduta del Governo, ottenendo però, l’8 luglio, il varo di nuovi regolamenti che limitavano la libertà di stampa.

Nel frattempo la situazione divenne tesissima e anche all’interno del Partito Fascista la leadership di Mussolini si dimostrò debole; parallelamente dal memoriale di Rossi, consegnato nel corso delle indagini sull’omicidio, la complicità dei vertici del Partitoe la responsabilità di Mussolini venne evidenziata. Benito Mussolini decise allora di rendere la responsabilità fascista dell’assassinio di Matteotti identitaria e costitutiva del fascismo così, il 3 gennaio 1925, dopo aver in prima battuta respinto le accuse del suo coinvolgimento diretto nell’omicidio, assunse la responsabilità morale sia dell’assassinio sia per il clima di violenza apertamente antidemocratico che si respira in Italia: «io dichiaro qui al cospetto di questa assemblea ed al cospetto di tutto il popolo italiano che assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere, se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico, morale, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento fino ad oggi». Con questa rivendicazione, con queste parole, e con – tra il 1925 e il 1926 – l’approvazione delle “leggi fascistissime” che smantellarono lo stato liberale, di diritto, instaurando la dittatura, il fascismo completò la sua costituzione o, per meglio dire, il suo totale smascheramento.

Il funerale di Giacomo Matteotti avvenne il 21 agosto 1924, nelle strade di Fratta Polesine circa 10mila persone si radunarono per salutare per l’ultima volta quello che già allora appariva un martire della democrazia.

A 100 anni da quell’omicidio, da quella data spartiacque per la storia italiana, il ricordo di quanto accaduto è necessario rimanga vivo e non sia un esercizio vuoto di commemorazione: ricordare l’uomo, il politico che con uno sguardo lucido comprese prima degli altri i pericoli del fascismo, denunciando anche la viltà e l’incapacità dei suoi compagni di partito a reagire alle sfide a loro contemporanee.

Matteotti è divenuto un archetipo di politico e di antifascista. Un diamante capace di brillare tra le oscurità del nero carbone. Nero carbone che non ha fatto anche cose buone.