Episodi o presunti tali di corruzione sono quotidianamente ai (dis)onori delle cronache: urge una rivoluzione nel nome della trasparenza, per trasformare il lobbyismo da parolaccia a opportunità

Ci sono temi che il dibattito pubblico italiano non ha ancora imparato a digerire, tabù che è difficile raccontare senza accendere non polemiche, che almeno alimenterebbero un sano dibattito, ma talvolta sdegno e quasi sempre diffidenza. Si tratta del lobbying: una pratica endemica di ogni regime democratico e rappresentativo che si rispetti e che però, a briglie sciolte, non a torto può destare preoccupazioni.

Durante la Prima Repubblica, erano i “sottobraccisti” a interfacciarsi con il decisore politico per avanzare istanze particolari: soggetti più o meno trasparenti e faccendieri attendevano i parlamentari all’ingresso di Montecitorio, nel salone del Transatlantico, ove in uscita dalla Camera li intercettavano prendendoli, appunto, sottobraccio per sussurrare questo o quel desiderio di questa o quella categoria. È anche sulla scia di questi retaggi che oggi in Italia parlare di lobby è un po’ come citare i poteri occulti o chiamare in causa il solito amichettismo: si fiuta puzza di imbroglio, e allora meglio non pronunciare più questa parolaccia che stiamo meglio senza. Peccato però che ignorare la sussistenza di istanze di categoria non chiuda i rubinetti del dialogo fra politica e società civile, bensì lo rilega in una bolla di privatismo che, quella sì, alimenta il rischio di interferenze illecite. 

(ANSA/ US/ CAMERA DEI DEPUTATI)

Il lobbying in Italia

Oggi (e per la verità da almeno due decenni, con ampio ritardo rispetto ai Paesi anglosassoni) anche in Italia si sta radicando il settore delle “lobbying firm”, vale a dire agenzie intermediarie che si occupano di raccogliere le istanze dei portatori di interessi e le sottopongono al decisore pubblico. Secondo un’analisi di Open Gate Italia, complessivamente nel solo 2021 le società di lobbying regolarmente registrate in Italia hanno dichiarato un fatturato di oltre 43 milioni di euro.

L’Associazione contro la corruzione Transparency International Italia pubblica ogni anno un report con cui, incrociando i dati di vari indicatori, valuta la trasparenza e complessivamente il buon funzionamento del sistema di lobbying nei Paesi. Nel farlo l’associazione fornisce una stima dell’Indice di Percezione della Corruzione (CPI) che classifica i Paesi in base al livello di corruzione percepita nel settore pubblico” in base a 13 strumenti di analisi e sondaggi. In un range che va da 0 (alto livello di corruzione percepita) a 100 (basso livello di corruzione percepita), nel 2023 l’Italia conferma un punteggio di 56, collocandosi 42esima nella classifica globale di 180 Paesi, 17esima su 27 tra i membri UE. «In più di un decennio la maggior parte dei Paesi ha fatto pochi progressi nell’affrontare la corruzione del settore pubblico – spiega il report allargando lo sguardo. – Oltre i due terzi dei Paesi ottengono un punteggio inferiore a 50 su 100: più dell’80% della popolazione mondiale vive in Paesi con un CPI al di sotto della media globale di 43».

«In un tempo in cui le guerre e gli altri conflitti internazionali si incancreniscono, pregiudicando i commerci e le normali migrazioni, qualcuno potrebbe pensare che, allora, la corruzione sia tollerabile e che i controlli possano attenuarsi, ma sbaglia – spiega il presidente di Transparency International Italia Michele Calleri. – La corruzione nuoce all’economia e mortifica l’integrità delle persone, in ogni epoca e in ogni contesto. Occorre che la politica e i Governi mantengano in cima alla loro agenda i temi della trasparenza e della lotta alla corruzione».

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Lobby e influenze: cosa dice la legge in Italia?

Certo che da legittime pressioni indirizzate ai policy makers a traffico di influenze, finanziamento illecito e corruzione il passo può essere breve ma soprattutto, come ci raccontano quotidianamente le cronache nostrane, oscuro. In Italia non sono previste incompatibilità di alcun tipo: un’impresa vincitrice o titolare di un appalto con Comuni, Regioni o Ministeri può finanziare sindaci, governatori e parlamentari.

L’Italia non è dotata di una vera e propria legge a regolamentazione del lobbying: una mancanza rumorosissima, che fa eco ad una generale sfiducia del cittadino nei confronti di qualsiasi rapporto intercorra fra la politica e tutto ciò che c’è sotto, quasi un’atavica allergia alla contaminazione perché ci si abitua che alla fine, in un modo o in un altro, ci si infetta. E questa è da sempre la battaglia di The Good Lobby Italia (qui la loro petizione per una legge sul lobbying in Italia), che configura un vero e proprio diritto di rappresentanza da garantire ad una pluralità democratica di voci. «Oltre 108 disegni di legge in più di 50 anni non sono riusciti a produrre un testo che regolamenti il lobbying in Italia, mantenendo opaco un processo – quello della formazione delle decisioni pubbliche – che dovrebbe invece essere aperto e alla luce del sole» spiegano.

Tra le timide iniziative dell’ordinamento italiano rientra sicuramente il Registro rappresentanti di interessi, consultabile sul sito della Camera: qui si iscrivono tutti quei soggetti, persone fisiche o giuridiche, che “svolgono professionalmente attività di rappresentanza di interessi nei confronti dei deputati presso le sedi della Camera“, allo scopo di rendere “pubblica e trasparente l’attività delle organizzazioni che svolgono la rappresentanza di interessi nelle sedi della Camera“. Il registro, istituito nel 2016 dall’ufficio di Presidenza della Camera, riempie col cucchiaino un vuoto normativo che non fa che alimentare la sfiducia nei confronti di tutti: dal lobbista all’azienda al politico, costituendo uno strumento non obbligatorio e a cui oggi risultano iscritti appena 439 portatori di interessi (oltre alla Camera, ad oggi adotta il registro anche il Ministero delle Imprese e del Made in Italy).

L’Aula della Camera dei Deputati a Montecitorio (ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)

Il 12 gennaio del 2022 la Camera dei Deputati ha spezzato una lunghissima catena di inazione del Parlamento approvando una proposta di legge sul lobbying frutto di ben tre anni di mediazioni in commissione. Il testo rappresentava una sintesi mediata delle proposte di Silvia Fregolent (Italia Viva), Marianna Madia (Pd) e Francesco Silvestri (M5S) e proponeva alcune importanti novità come l’obbligo per i lobbisti di iscriversi in un Registro nazionale per la trasparenza dell’attività di relazione per la rappresentanza di interessi. L’elenco, pubblicamente consultabile, escludeva dal registro i decisori pubblici in carica o fino a un anno dalla cessazione del suo mandato (ma solo dopo incarichi di Governo nazionale o regionale). La legge inoltre prevedeva di tracciare tutti gli incontri fra decisori e lobbisti in un’agenda e istituiva un Comitato di sorveglianza presso l’Antitrust. Pur con meriti encomiabili, la legge lasciava aperte alcune perplessità, come un cosiddetto periodo di raffreddamento troppo breve (si intende con questo termine il lasso di tempo compreso fra un incarico istituzionale e un ruolo da lobbista privato, una tempistica che mediamente si stima fra i due e i tre anni). «Non si tratta di essere punitivi nei confronti degli ex rappresentanti politici, ma di salvaguardare il mercato non privilegiando alcun attore» spiegava a Wired il direttore di The Good Lobby Italia Federico Anghelé.

Ad ogni modo, il disegno di legge non ha fatto in tempo a vedere la luce: dopo la prima approvazione della Camera, il testo è decaduto insieme al Governo Draghi ed ha ora ricominciato da capo l’iter parlamentare.

Le lobby in Europa

La stessa Unione Europea, magistra di trasparenza, codici etici e libri bianchi, è più volte inciampata, mai caduta, in scandali connessi a dinamiche di lobbismo poco trasparenti nonché sottoposte al vaglio delle autorità giudiziarie; su tutte, il più recente Qatargate connesso a presunte pressioni da parte di stati arabi (principalmente Qatar, ma anche Marocco, Algeria, Mauritania)  su parlamentari europei tramite – sic – valigette di tangenti. 

E gli altri Stati europei come se la cavano? Sempre Transparency International Italia ci fornisce una panoramica dell’Europa, riassunta così: «il quadro generale dell’UE evidenzia che la maggior parte dei quadri normativi esistenti non rispetta il minimo necessario richiesto per essere realmente efficace». I regolamenti esistenti in materia di lobbying finiscono per essere, nella maggior parte dei casi, meramente compilativi, perché “le norme non dovrebbero solo informare il pubblico su chi cerca di influenzare le decisioni pubbliche a proprio favore, ma anche imporre un comportamento etico nel farlo“. I risultati dell’analisi solleva quindi “la questione del perché non esista una regolamentazione a livello europeo sulla trasparenza delle lobby“.

Roberta Metsola, presidente del Parlamento Europeo (EPA/STEPHANIE LECOCQ)

Chi rivendica l’indipendenza della politica insomma parla in buona fede e a ragion veduta, ma forse non coglie appieno il senso di politica, che è quello di governare secondo il bene dei cittadini e ben vengano attori privati, gruppi civili e imprenditori che vogliano fornire il proprio contributo. Accogliere le lobby tutte a pieno titolo nella sfera pubblica habermasiana intesa come «luogo comunicativo di intermediazione» è il primo passo per garantirne la trasparenza. Una legge non basta, ma non sarebbe neanche poco.

di: Marianna MANCINI

FOTO: ANSA/EPA/FOCKE STRANGMANN