Il qui e ora è stato fondamentale per un successo olimpico, ma la lezione latina potrebbe essere un aiuto fondamentale a chiunque per imparare a vivere il presente
Ai microfoni dei giornalisti, a poche ore dalla finale olimpica, l’allenatore della Nazionale italiana di pallavolo femminile Julio Velasco ripeteva il mantra “qui e ora”, richiamando l’attenzione a vivere il presente, perché si vince e si perde, anche, “per una palla”. Alla resa dei conti non importano le vittorie e le sconfitte passate, si scende in campo “qui e ora”, alla stregua di quel gioco di bambini del “chi vince regna” tutto si decide nel presente, nel qui e nell’ora. Alle Olimpiadi e non solo.
La locuzione latina che ha contribuito al successo olimpico delle azzurre, chiaramente, viene da lontano. Generalmente viene fatta risalire al poeta romano vissuto tra il 65 e l’8 a.C, Orazio, ma si tratta di una locuzione di uso comune nella lingua latina che il poeta utilizza spesso nelle sue opere. La locuzione, nonostante sia tipicamente latina, è presente anche nel mondo greco. Poeti come Alceo e Anacreonte ne parlano diffusamente, l’hic et nunc è poi un pilastro dei primi tragediografi dato che nel teatro il “presente assoluto” rappresenta il tempo ideale della tragedia. Per Eschilo la tragedia rappresenta la giustizia divina; per Sofocle il dolore e l’infelicità dell’uomo che non accetta compromessi; mentre per Euripide evidenza il ruolo dell’irrazionale, della passione e dei sentimenti. Nonostante le differenze, per tutti il concetto del “qui e ora” è fondamentale per definire le dinamiche interne dei personaggi (connesse con i contesti in cui i personaggi agiscono) e per determinare le conseguenze dal punto di vista drammatico. Dall’Umanesimo all’Illuminismo il teatro abbandona la performatività rituale, preferendo una visione razionalista, che punta a guardare da lontano per soddisfare il gusto estetico, piuttosto che vivere un’esperienza sensoriale.

Orazio con “hic et nunc” intende trasmettere qualcosa di simile al suo “carpe diem” – che viene di consueto citato solo a metà, mentre il celebre verso prosegue con “quam minimum credula postero”, un’invocazione all’affidarsi “il meno possibile al domani” – mettendo in luce quanto il poeta valuti importante il presente, il qui e ora, perché l’essere umano non può conoscere il futuro né, tantomeno, determinarlo; parimenti non può più agire sul passato. L’unica dimensione in cui è concesso agire è il presente e nel presente è indispensabile cogliere ogni occasione, ogni attimo. Non angosciarsi per le gioie mancate né affidarsi ciecamente alle possibili gioie future, essere qui, essere ora, vivere il presente. Un imperativo categorico che permea anche gran parte della filosofia orientale e che caratterizza la filosofia esistenzialista, che vede nel qui e ora la finitezza dell’essere umano.
L’importanza della prospettiva dell’hic et nunc in una società che bombarda costantemente di stimoli i soggetti è di vitale importanza. Una società che si illude di aver sconfitto la noia, mentre in realtà è stata capace solo di reprimere il presente portando il soggetto a porre l’attenzione verso il futuro nel tentativo di cosa gli riservi e nell’illusione di una gioia mai immanente, sempre lontana da sé, impossibile da raggiungere. Il soggetto che interroga il futuro o il passato, senza mai riflettere sull’hic et nunc, trasporta se stesso nella dimensione di chi forse sarà e di chi sia stato, mai di chi egli sia, qui e adesso. La continua delusione delle aspettative e l’inganno della nostalgia provocano nel soggetto quell’ansia, quell’angoscia che sembra descrivere la società contemporanea. Domandare e trasportarsi in un momento diverso dall’adesso è sintomatico del desiderio di voler essere sempre al di là dell’hic et nunc, il tentativo di sconfiggere un presente non appagante spinge al deleterio dolore del “non poter essere” altrove ma “solo” qui e ora. Come suggerito da un filosofo esistenzialista che a suo modo ha ripreso e problematizzato la questione del qui e ora, Martin Heidegger, è necessario trovare un modo nuovo di porsi nel mondo, dato che ciò verso cui il soggetto trascende è il mondo stesso.

Tenendo ben saldo che l’unico arco temporale in cui è possibile agire sia il presente, assume un’importanza assoluta indirizzare ogni attenzione e ogni interrogazione al presente stesso. E dato che non è possibile sfuggire dalla realtà del presente è necessaria una presa di coscienza, è, cioè, necessaria l’accettazione del presente, accettando anche la noia, la paura, la scomodità del presente stesso. Il soggetto, capace di immaginare il più lontano futuro o ricordare il più remoto passato, ma impossibilitato a gestire il presente sprofonda in quell’inquietudine, in quell’ansia, che sembra ormai essere una caratteristica propria dell’essere umano.
Quale antidoto dunque a questa inquietudine? Spostare il centro dell’attenzione. Il soggetto che non si concentra sulla limitatezza, sulla sua stessa finitudine costitutiva, non può che focalizzarsi sul confronto infelice delle aspettative mancate e della nostalgia accecante. Nel suo La ragazza delle arance, lo scrittore norvegese Jostein Gaarder scrive: «Non so bene da dove mi venne questo pensiero, ma improvvisamente mi uscì di bocca: “Siamo al mondo solo per quest’unica volta”. “Siamo qui ora”, disse Veronika, come se pensasse che questa fosse una cosa da tenere presente. Ma a me sembrava che lei non volesse capire quanto io cercavo di esprimere, così poi dissi: “Penso a sere come questa, quando non mi viene dato vivere…” Sapevo che Veronika conosceva questo verso di una poesia di Olaf Bull. L’avevamo letta insieme una volta. Veronika si girò di scatto verso di me e mi strinse il lobo dell’orecchio tra due dita. Disse: “Ma allora ci sei stato. Lucky you!”». L’esercizio di ricordarci, come Veronika ricorda al suo amato, che “siamo qui ora” e la fortuna di esserci dovrebbe divenire un nuovo mantra, proprio come la locuzione latina lo è stato per le azzurre di Velasco.
Hic et nunc, fortunatamente.