Motore immobile non solo dell’acquisto di cioccolatini a metà febbraio, cosa dicono i filosofi a proposito dell’amore e, di conseguenza, di noi
Fin dai tempi di Empedocle il genere umano cerca di definire il misterioso agire dell’amore, secondo il filosofo del V secolo a.C. l’amore è una delle forze primordiali e ha per caratteristica di legare, congiungere, avvincere. L’odio – il principio opposto – ha invece la caratteristica di separare mediante la contesa ed è dalla combinazione dialettica di amore e odio che si determina il divenire dell’Essere.
Anche Platone non si sottrae all’indagine del mistero e nel suo Simposio tramite Socrate sostiene che l’amore sia desiderio e, dunque, mancanza. Inoltre, il desiderio d’amore è sempre desiderio di conoscere, di sapere. Più in generale il fine di ogni desiderio è quello di colmare una mancanza cioè di negare il proprio fondamento e, in definitiva, il fine di ogni desiderio è di smettere di desiderare. Se ogni desiderio è animato da un tentativo di autoeliminarsi, il desiderio d’amore è caratterizzato anche da un’altra peculiarità: quando un soggetto ama un altro soggetto lo ama in maniera dissimile all’amore riservato agli oggetti, perché quando si ama si desidera essere desiderati dal soggetto amato. Si tratta di un amore non oggettuale, ma di un desiderio di desiderio. Un desiderio che anima ogni io come tale, perché ogni io desidera essere riconosciuto in quanto io da un altro io e allargando l’orizzonte della speculazione il desiderio di desiderio si può vedere come il più generale desiderio di un’autocoscienza di essere riconosciuta da altre autocoscienze.
Nella sua particolarità il desiderio d’amore è quel desiderio che riguarda al contempo un soggetto che sta davanti a noi, in carne e ossa, ma anche altro. Secondo i postulati della psicoanalisi quando il soggetto ama un altro individuo trasferisce sull’amato delle pulsioni e in generale una affettività che appartiene al soggetto. Si tratta del meccanismo del “transfert”, un trasferimento inconsapevole del soggetto che porta a un’idealizzazione dell’amato e che lo potenzia di tutta la forza che il trasferimento degli attributi del sapere del soggetto. L’amato è investito di un sapere proprio dell’amante che, in realtà, non gli appartiene e ciò lo rende, agli occhi dell’amante, unico e massimamente desiderato. L’amante si sente realizzato con l’amato perché convinto che la persona in carne e ossa possieda qualcosa di importantissimo per conoscere l’amante stesso. Per questo motivo, per Platone, l’amore nel suo fondo è sempre desiderio di conoscenza. Si desidera conoscere cos’abbia l’altro di così potente da essere in grado di divenire sconvolgente; in questo modo nel desiderio di amore è sempre presente un desiderio di conoscere il sé. L’amore si sviluppa così su un doppio piano: l’amato è l’amato, è consapevolmente un individuo e inconsciamente non è altro da sé ma un trasferimento dello stesso amante, in questo senso il desiderio di amore è una contraddizione seppur non perfettamente consapevole del soggetto che non riconosce il “transfert” messo in atto. Una contraddizione messa magistralmente in luce dal semiologo francese Roland Barthes che nel suo Frammenti di un discorso amoroso scrive: «mentre da un lato si domanda ossessivamente perché non è amato dall’altro, il soggetto amoroso continua a credere che in fin dei conti l’oggetto amato lo ama, solo che non glielo dice».
Come sostiene la docente e ricercatrice di intelligenza artificiale, filosofia e ontologia Nicoletta Cusano la dinamica amorosa è una particolare individuazione della struttura contraddicentesi del desiderio che può essere compresa solo se ricondotta al suo fondamento ultimo: la separazione dell’esser sé dell’essente dalla negazione della sua negazione. Scrive Cusano che “l’amore sorge quando si attiva una proiezione idealizzante talmente potente che, sulla sua base, non solo si desidera essere desiderati dall’idealizzato (e cioè questo desiderio dell’altro acquista un carattere affettivo e sessuale), ma si è inconsapevolmente convinti che il desiderio sia appagato, corrisposto”. Cusano propone il mito di Narciso per illustrare il concetto: un bellissimo giovane che un giorno vede, riflessa in uno stagno, la propria immagine e se ne innamora. Il giovane non riconosce come proprio il suo riflesso e, per ricongiungersi all’amato, annega. Il tentativo di Narciso di congiungersi con un’immagine che viene percepita come altro da sé è la perfetta metafora dell’amore che è contraddizione dettata dal non riconoscere il trasferimento, il sé, sull’amato. Nel mito l’amore finisce con la morte del giovane, fuor di metafora l’amore finisce quando l’amante scopre che l’amato non è la persona che, idealizzata, egli credeva fosse, ma che si tratta di un soggetto su cui proietta cose proprie.
Umberto Galimberti aggiunge che l’amore “non è una condizione passiva, ma una costruzione attiva che trasforma una realtà per sé insignificante in una fascinazione, grazie a quell’idealizzazione che l’amore vuole realizzare”, infatti “Amore, come Socrate ce lo ha descritto, non è tanto un rapporto con l’altro, quanto una relazione con l’altra parte di noi stessi”. Utile ricordare anche altre parole di Galimberti che illustrano come appunto l’amore non sia “un rapporto tra me e te” ma “un rapporto tra la mia parte razionale e la mia parte folle reso possibile dal fatto che tu me l’hai individuata”, in questo modo il riconoscere le proiezioni dell’amante sull’amato è un significativo esercizio di conoscenza (anche) di sé perché “se io ho colto la tua follia e tu hai colto la mia follia, io posso fidarmi di te e attraverso questo fidarmi di te posso scendere nella mia dimensione folle e poi avere la fiducia e la sicurezza per poterne uscire”, dunque “l’amore è tra me e quel fondo abissale che c’è dentro di me, a cui io posso accedere grazie a te”. Inoltre, sottolinea il filosofo e psicanalista italiano, “l’amore è generativo, le storie d’amore sono tutte benefiche, anche quelle che finiscono malissimo, perché il tuo io non è più quello di prima. Non siamo più quelli di prima, vediamo come si organizza la vita con quello di dopo, in fondo potremmo anche essere curiosi di noi stessi”. Galimberti afferma anche che “l’amore non è possesso, perché il possesso non tende al bene dell’altro, né alla lealtà verso l’altro, ma solo al mantenimento della relazione, che, lungi dal garantire la felicità, che è sempre nella ricerca e nella conoscenza di sé, la sacrifica in cambio di sicurezza”.
Importante è dunque che quel sentimento che “move il sole e l’altre stelle” non sia unicamente celebrato davanti a una scatola di cioccolatini a metà febbraio, ma divenga il motore della scoperta di sé, della propria follia e delle proiezioni sull’altro. E che, dunque, “mova il sole e l’altre stelle” della vita di ogni individuo. Un motore animato dal desiderio di conoscenza, privo di possesso e violenza.